UN LAMPO NELLA NOTTE

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È il 18 novembre 1951. È già buio e fa abbastanza freddo in contrada Fiumicelli di Saracena. Il quarantaduenne Leone Boniface si sta preparando per uscire, mentre sua moglie è seduta accanto al fuoco.
– Vieni tardi?
– Non lo so, dipende… – le risponde mentre si fa passare dietro al collo una corda che regge una specie di grande paniere senza manico, facendolo così dondolare tra il petto e l’addome. Poi mette in testa la coppola, facendo attenzione che sia ben calata sulla fronte quasi a coprirgli gli occhi, prende un bastone appuntito da un lato e a forma di lama dall’altro, si alza il bavero della giacca, quindi esce sulla mulattiera che passa davanti alla masseria e si incammina nel buio.
Dove dovrà mai andare Leone Boniface così conciato? A rubare olive, perché questo è quello che abitualmente fa. E quando non sarà più tempo di olive ruberà qualcos’altro, anche se i tempi cominciano a farsi duri per i ladri, dopo che due suoi fratelli e un altro ladruncolo sono stati sorpresi da due guardie private e arrestati dopo un violento scontro a fuoco, arresto preceduto da due gravissimi fatti di sangue: un guardiano è stato barbaramente ucciso da ignoti ladri e un misero agricoltore è stato selvaggiamente sgozzato.
Leone, tuttavia, non si preoccupa. Non va mai in giro armato sebbene il suo fucile calibro 16, appeso a un chiodo, sia sempre carico.
Il tragitto che compie non è lungo, più o meno un paio di chilometri. Un rapido aguzzare l’udito per capire se nei dintorni c’è qualcuno appostato e poi via con i rapidi movimenti delle mani che tirano in giù i rami carichi scorrendoci sopra e facendo cadere nella cesta il prezioso frutto.
Maria Caterina, la moglie di Leone, è mezzo addormentata quando viene scossa da una detonazione in lontananza e qualcosa che somiglia a un urlo di dolore. Poi un’altra, forse più leggera, che viene dalla stessa direzione. “Qualche volpe alle galline…” pensa. Passa un po’ di tempo e il rumore degli zoccoli di un asino, accompagnati dal rumore di passi fatti con scarpe chiodate la fa trasalire: chi sarà mai? Di notte non passa mai nessuno per quella mulattiera se non, forse, qualche vicino, ma lei sa che tutti i vicini quella sera sono a casa. Spranga in fretta la porta e si chiude in una stanza, attendendo che torni Leone e le faccia smettere di avere paura. Ma Leone tarda. Un’ora, due ore, tre ore, poi Maria Caterina piomba in un sonno agitato dal quale si risveglia solo al fare del giorno, angosciata per l’assenza del marito. In fretta e furia va a Saracena per cercarlo. Chiesto alla sorella Tommasina, abitante nelle prime case del paese, se avesse visto il marito e avutone risposta negativa, fa ritorno alla masseria, prevedendo che fosse tornato. No, non è tornato. Allora gli sarà accaduto qualcosa in campagna, forse gli spari della sera prima non erano per le volpi alle galline. Fa mente locale e stabilisce la direzione dalla quale le è sembrato che provenissero i colpi. Si incammina. Dopo intense ricerche rinviene il marito morto in contrada Fiumicelli, disteso sotto una pianta di ulivo.

Urla disperata, chiede aiuto ma poi vede il grande paniere ancora appeso al collo di Leone. Si butta in ginocchio, gli solleva il capo imbrattandosi le mani di sangue e glielo sfila, poi lo butta a qualche metro di distanza, per non farlo vedere dalla gente che sarebbe accorsa e non sottoporlo a troppe critiche.

Accorre un ragazzo. Con parole smozzicate la donna gli chiede di correre in paese per avvertire i Carabinieri.
In un campo seminato a grano, con piantata di ulivo, distante tra loro dai cinque ai sei metri, alternate con qualche albero di fico, si nota, disteso per terra, supino, il cadavere di Boniface Leone, ucciso con un colpo di fucile sparatogli alla regione occipitale, in corrispondenza della regione parietale sinistra, dove presenta un foro del diametro di circa 7-8 mm dal quale fuoriesce materia cerebrale. Ha in testa un berretto color nocciolo sul quale si nota, nella parte interna, della materia cerebrale. Nel berretto si nota un foro corrispondente a quello riscontrato alla regione occipitale del cadavere. L’occhio sinistro semi aperto; il destro chiuso completamente. Sul viso si nota sangue aggrumito che giunge fino al collo. Sia nell’orecchio destro che in quello sinistro si nota sangue aggrumito. Gli arti inferiori sono regolarmente distesi; l’arto superiore destro disteso regolarmente e quello sinistro flesso sul torace, la cui mano è leggermente compressa. A destra, all’altezza della spalla, per terra, un sacco vuoto; in corrispondenza dell’addome un mucchietto di ulive già raccolte e sopra di esso un cestino senza manico, legato con una corda da un’estremità all’altra; in corrispondenza del piede destro un ramoscello di ulivo. Appoggiato ad una pianta di ulivo un bastone di legno grezzo della lunghezza di m. 1,46, con piccoli nodi.
– Avete dei sospetti? – chiede alla donna l’Appuntato Francesco Genco.
– No, nessuno… ieri sera è uscito dicendomi che andava a Lungro da mio padre che gli doveva dare del grano e che sarebbe tornato stamattina presto per andare a lavorare…
– E il cestino? – l’Appuntato sa che quel tipo di cesto serve per raccogliere velocemente le olive.
Avrebbe dovuto custodire della frutta che gli sarebbe stata regalata dal suocero
– Dove eravate ieri sera?
Sono rimasta seduta accanto al focolare e dopo un’ora circa che mio marito era uscito di casa ho sentito esplodere due colpi di fucile a pochi minuti da uno all’altro, accompagnati da un grido di dolore
– E stamattina?
Non avendo visto ritornare mio marito mi sono preoccupata e mi portavo in paese per cercarlo… ho chiesto a Tommasina e niente…
– Strano… se avete sentito i colpi di fucile sareste dovuta venire qui a cercarlo e non a Saracena.
– In realtà sono venuta a prima a Saracena perché prevedevo che mio marito fosse stato arrestato per furto di ulive, siccome era solito rubarle
I Carabinieri fermano diverse persone, compreso il proprietario del fondo nel quale Leone è stato ammazzato, ma questi viene scagionato da Maria Caterina che giura di averlo visto andare in paese poco prima del tramonto in compagnia di un nipotino.
Poi le attenzioni dei Carabinieri si concentrano su due fratelli, Domenico e Leone Di Sanzo, che sono mezzadri di un fondo agricolo confinante con quello dove è stato commesso l’omicidio.
Dopo lungo interrogatorio ed una serie di contraddizioni, finalmente, la sera del 24 novembre, il giovane Di Sanzo Domenico dichiarava che era stato lui ad uccidere il Boniface.
Al tramonto mi avviai dal paese per andare a sorvegliare gli ulivi ed alimentare le galline che si trovano nella casetta colonica. Giunsi in campagna quando era già buio e mi trattenni nella casetta colonica ove stetti al fuoco, per circa un paio di ore. Poi andai fuori portando con me il fucile avancarica che si trovava nella casetta e che io avevo caricato servendomi di pallettoni, pallini e polvere che si trovavano nella casetta – il racconto del sedicenne Domenico comincia a entrare nel vivo -. Dopo aver camminato per circa dieci minuti nel mio fondo, in prossimità del confine con quello dove c’era Boniface, sentii un rumore sospetto che attribuii a persona che stesse raccogliendo furtivamente delle ulive. Dalla provenienza del fruscio arguii che il ladro si trovasse nel mio uliveto e gridai: “Ohè! Che cosa fate qui?” Per tutta risposta venne esploso a brevissima distanza da me un colpo. Impressionato, al fine di allontanare da me il maleintenzionato ladro, esplosi un colpo dal mio fucile nella direzione donde il rumore proveniva. Subito dopo sentii una esclamazione di dolore “Mamma mia!”. Corsi a casa temendo che i ladri fossero più di uno e che potessero aggredirmi e sbarrai la porta
– Quindi hai visto qualcuno… una sagoma e hai sparato…
Quando sparai non vidi nessuno, essendo impedita la visibilità per le fitte tenebri… mirai a caso lasciandomi guidare dalla provenienza dell’esplosione
– E l’hai fatto secco all’istante!
Non avevo nessuna intenzione, né prevedevo di uccidere un uomo, ma soltanto intendevo fare allontanare i ladri, dai quali temevo di ricevere danno anche alla persona, per via del colpo che avevo sentito esplodere… ho passato la notte in preda all’agitazione…
– La mattina seguente saresti potuto venire in caserma a raccontare ciò che ti era successo, sarebbe cambiato tutto…
– Invece sono andato a lavorare e non ho detto niente a nessuno… solo la sera dopo ho saputo di avere ucciso involontariamente un uomo
– Dì la verità, con te c’era tuo fratello.
– No! Quella sera, quando uscii di casa lui non era ancora rientrato!
L’Appuntato si sbaglia, Leone Di Sanzo non c’entra davvero niente: il pomeriggio del 18 novembre 1951 è stato prima in casa della fidanzata e poi lui, la ragazza e il padre di questa sono andati al cinema e ci sono decine di persone che lo hanno visto lì. Può tornare a casa.
Le cose sarebbero potute andare come ha raccontato Domenico, ma ci sono dei particolari che non quadrano. La prima: il fucile del ragazzo è ad una sola canna e vicino al cadavere di Boniface non c’erano armi, né le persone accorse sul luogo ne hanno viste. Il fucile della vittima viene trovato dai Carabinieri dove lo teneva solitamente e carico. Come si spiegano le due detonazioni udite da Maria Caterina? I Carabinieri non hanno dubbi: Nulla di strano se si riflette che ella abita in una località distante dal luogo del delitto quasi due chilometri ed in basso. Divide la contrada il torrente “Fiumicelli” che scorre attraversando un vallone. Potrà anche darsi che la stessa avrà sentito prima il colpo e poi l’eco, oppure qualcuno, in quella zona, nel sentire sparare non ha esitato a far partire anch’egli un colpo di fucile, come abitualmente fanno i contadini che abitano in campagna. A confermare che quella maledetta notte fu sparato un solo colpo è una testimone, Angela Senatore, che giura di aver sentito una sola detonazione.
La seconda cosa è quasi ovvia: se Leone Boniface non aveva armi da fuoco non può aver sparato. I Carabinieri prestano molta attenzione alla posizione del cadavere e degli alberi circostanti. Intanto c’è da considerare che la vittima è stata colpita alla nuca. Alla distanza del cadavere circa m. 5, vegeta un albero a tre tronchi e su uno di essi, in direzione del cadavere e della testa, quando egli era in vita e all’impiedi mentre rubava le ulive, si notano alla stessa altezza delle tracce di piombo sulla corteccia e molte foglioline bucate da piombo misto: pallini e pallettoni per caprioli. Si deve ritenere, quindi, nel modo assoluto che il Boniface è stato freddato mentre rubava le ulive e cadeva per terra senza potersi muovere.
Una vera e propria esecuzione a sangue freddo. Non è a parlarsi di omicidio colposo o preterintenzionale ma bensì di omicidio volontario, sia per il mezzo usato, sia per aver il Di Sarno dichiarato di aver sparato nella stessa direzione – e in senso orizzontale – dalla quale aveva sentito provenire fruscio di rami recisi, il che gli aveva dato la certezza di presenza di persone che stavano rubando ulive. L’evento, pertanto, doveva essere preveduto e fu voluto e a comprova della volontà cosciente dell’illecito è a rilevarsi che l’imputato, dopo aver sparato e aver sentito invocazione di dolore, non si preoccupò di rendersi conto di quanto aveva commesso, ma solo di nascondere il fucile e le munizioni, di tacere a tutti l’accaduto. Con queste motivazioni il Pubblico Ministero chiede il rinvio a giudizio dell’imputato e il Giudice Istruttore del Tribunale di Castrovillari accoglie la richiesta. È l’8 maggio 1952.
Il dibattimento si tiene presso la Corte d’Assise di Cosenza e comincia l’11 novembre 1952 senza offrire novità sostanziali a quanto già emerso dalle indagini. L’unica vera discussione avviene sulle condizioni meteorologiche di quella notte: il cielo era nuvoloso senza luna e quindi con scarsissima visibilità o era sereno e la luna illuminava sufficientemente il luogo dell’omicidio? La difesa dell’imputato sostiene la prima tesi per dimostrare che Domenico Di Sanzo sparò alla cieca, mentre il Pubblico Ministero e la Parte Civile propendono per il contrario. Si stabilisce che il cielo era sereno ma ora c’è discordanza sull’orario in cui la luna sorge in quei giorni: molto dopo l’orario dell’omicidio secondo alcuni, abbastanza prima secondo altri. Per dirimere la controversia viene esibito in aula un opuscoletto con le fasi lunari che, per quel giorno non dà indicazioni precise. Si stabilisce solo che il 13 novembre – sei giorni prima dell’omicidio – c’era luna piena con levata alle 16,52 mentre il 21 – due giorni dopo l’omicidio – era presente l’ultimo quarto con levata alle 21,01.
Ma quale che fosse stata la visibilità di quella sciagurata notte, la Giuria ha le idee molto chiare sulla responsabilità o meno dell’imputato.
Intanto viene subito scartata l’ipotesi della legittima difesa, sostenuta dalla difesa dell’imputato:
In assenza di ogni azione, di ogni atteggiamento di offesa, anche di pericolo contro l’incolumità della sua persona, non si vede come possa parlarsi della discriminante della legittima difesa.
Poi sviscera la propria convinzione in base ai fatti:
Animato dall’interesse di sorvegliare il suo fondo, il Di Sanzo si munì del fucile già caricato e sparò, in direzione del luogo donde proveniva il rumore, il solo colpo, dandosi di poi a precipitosa fuga. La circostanza che egli abbia sparato, alla distanza di circa 10 metri, con un fucile carico anche di pallettoni e che abbia colpito la vittima alla testa, che integrano solo dati obbiettivi, non può ritenere in modo chiaro e certo che egli abbia previsto l’evento – morte del Boniface – da poiché è accertato in punto di fatto che il punto non era sufficientemente illuminato ed il Boniface si trovava tra i rami della pianta di olivo, ed ogni visibilità era ostacolata anche ad un uomo giovane, come il reo, adusato a scrutare nel buio: non essendo, pertanto, ben distinto il bersaglio, non può sostenersi che esso Di Sanzo abbia mirato alla vittima con precisione.
Nel quadro della rappresentazione psicologica dell’imputato non vi è che il gesto violento di ledere, cosichè il fatto a lui contestato va più propriamente definito omicidio preterintenzionale. È meritevole, esso Di Sanzo, delle attenuanti generiche: egli è da tutti ritenuto un giovane di buona indole, incapace di commettere atti illeciti, attaccato al lavoro e con il peso di una famiglia che ha dovuto sostenere. La sua vita anteatta è immune di precedenti. Con la confessione resa ha manifestato di essere pentito del suo misfatto e di essersi ravveduto. La Corte, degradato il delitto in omicidio preterintenzionale, affermata la responsabilità dell’imputato, stima infliggergli la pena complessiva da anni 11 di reclusione, più pene accessorie.
La difesa dell’imputato fa ricorso in Appello continuando a sostenere la legittima difesa:
Sussistevano, invero, tutte le condizioni per una difesa legittima reale della persona e delle cose; e comunque non poteva esservi dubbio che il giudicabile agì nella ragionevole opinione della attualità del duplice, grave pericolo. A voler essere rigorosi, potevasi al più parlare di eccesso colposo. Attenuante dello stato d’ira, dei motivi sociali e pena.
Il 25 maggio 1954, la Corte d’Appello di Catanzaro accoglie parzialmente il ricorso e riduce la pena a 6 anni e 16 giorni di reclusione, più pene accessorie, motivando la decisione con poche parole:
Concede a costui anche l’attenuante del motivo di particolare valore morale e sociale.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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