ONORE E VENDETTA

Il sole si è alzato da poco in un caldo mattino di fine agosto del 1893 quando il quarantunenne Nicola Garro si avvia a piedi da Zumpano per andare a parlare col Brigadiere Giuseppe Munizio, comandante la stazione di Celico, e per tutto il tragitto non fa altro che rimuginare la brutta situazione in cui si trova: sua figlia, la ventunenne Chiara, tradisce da più tempo il marito emigrato in America con il ventiquattrenne oste Giuseppe Paese e la cosa è ormai di dominio pubblico. Qualcosa va fatta per salvare l’onore della famiglia.
– Brigadiè, andateci a parlare voi con Peppino Paese e ditegli che la finisse di andare a casa di mia figlia se no, quant’è vero Dio – dice in tono alterato segnandosi con la croce –, ci penserò io a non farcelo andare più perché lo ammazzo!
– Garro! E che sono queste minacce? Badate di stare calmo se no vi metto al fresco! Ora tornate a casa, vi prometto che ci parlerò con Paese.
Poi, forse, se ne scorda. Ci sono tante corna in giro che servirebbe una squadra apposta per questo servizio.
È il pomeriggio di un sabato di settembre, il 23 settembre per la precisione, e Peppino Paese, penetrando come al solito nell’orto accanto alla casa di Chiara per non farsi vedere dal padre e dal fratello Giuseppe, che abitano nel lato opposto del fabbricato, entra da un finestrino e comincia a discutere con la sua ganza:
– Tu domani da compare Ciccio non ci vai, hai capito?
– Io ci devo andare, gliel’ho promesso… deve andare a Cosenza e le figliolette non possono restare da sole…
– Tu domani non ci vai perché se ci vai, quando torni t’ammazzo! – rincara la dose, accecato dalla gelosia. Poi la prende in braccio e la mette sul letto, stendendosi sopra di lei.
La mattina di domenica 24 settembre 1893 Chiara Garro esce presto e, come aveva promesso, contravvenendo all’ordine del suo amante, va a custodire le bambine di compare Ciccio De Santis e ci resta fino al pomeriggio inoltrato, poi torna a casa e si pone a far da mangiare. Peppino, invece, chiusa a mezzogiorno la cantina, va a fare una scampagnata con amici e beve, beve molto. Quando verso le 18 torna in paese, estremamente ubbriaco, al punto detto Cavarella, luogo scosceso ed in pendio, rotolò e cadde. Non si accorge nemmeno che gli è caduto il portafogli con l’incasso della giornata e, dopo qualche attimo di sbandamento, si rialza e va dritto a casa di Chiara. Fa come al solito il giro dall’orto, entra dalla finestrella e si butta sul letto, esausto. Chiara è sulla soglia della porta di casa a confabulare con Giorgio Imbrogno del tempo, del caldo ed altro, quando sente come un fruscio di passi nel sottostante orto. Pensando che sia Peppino, chiude l’uscio di casa per evitare appunto che di tale venuta si accorgessero i vicini. Dopo un po’, rammentando di avere una casseruola al fuoco, saluta il vicino e rientra. Non l’avesse mai fatto! Peppino scende dal letto e, senza proferir parola, comincia a picchiarla selvaggiamente, forse eccitato anche dal vino. Chiara si rannicchia in un angolo per cercare di evitare qualche pugno e qualche calcio, poi urla all’Imbrogno Giorgio di accorrere in suo aiuto, ma il vicino non riesce ad entrare perché Peppino gli chiude l’uscio in faccia col catenaccio, dicendogli che se ne andasse e riprende le brutali sevizie fino ad impugnare un rasoio ma Chiara, con la forza della disperazione, riesce a strapparglielo di mano e a nasconderselo in tasca. Ancora pugni, schiaffi, calci, morsi; Chiara non potendo più comportare, comincia di nuovo a urlare sperando di essere sentita:
Vieni padre mio che mi ammazzano!
Qualcuno capisce che questa volta la cosa è seria e corre a chiamare Nicola Garro. In casa c’è anche suo figlio Giuseppe e, alle parole concitate su ciò che sta capitando a Chiara a pochi metri da loro, balzano in piedi. Nicola afferra la doppietta carica appesa alla testiera del letto, Giuseppe prende la sua rivoltella dal cassetto dove la tiene e, uno dopo l’altro, corrono.
La porta è sprangata, i due urlano di aprire ma non succede niente. Sentono distintamente Chiara che si lamenta, così tutti e due insieme, con qualche poderosa spallata, riescono a scardinare la porta e ad entrare sbuffando.
Peppino è in piedi in mezzo alla stanza col braccio alzato che sta per colpire di nuovo Chiara, rannicchiata a terra. Giuseppe ha l’impressione che nella mano l’avversario stringa un rasoio. È un attimo e dalla rivoltella parte un colpo che centra Peppino al braccio destro.
Padre, ammazza me! – urla Chiara, temendo che derivasse danno pure a lei, mentre afferra la canna della rivoltella onde strapparla dalle mani del fratello ma non essendovi riuscita, lascia quel luogo dandosi alla fuga per rintracciare un luogo di ricovero. Tutto dura brevi secondi mentre, contemporaneamente, partono altri 2 colpi che fanno barcollare e cadere Peppino su una cassapanca messa sotto il finestrino da cui solitamente entrava, praticamente già morto per un proiettile che gli ha spaccato il cuore.
Giuseppe e suo padre si guardano intorno per cercare Chiara ma non la vedono perché, temendo di fare la stessa fine di Peppino, è scappata e si è rifugiata in casa di una vicina. Poi i due tornano verso casa e per la via si imbattono nel fratello di Peppino, Gabriele, che ignaro di tutto sta rientrando a casa anche lui.
La notizia della morte di Peppino arriva a casa Paese subito dopo il rientro di Gabriele e lui, sua madre e le due sorelle si precipitano sul posto. Trovano il corpo adagiato sulla cassapanca, lo prendono, lo stendono a terra in mezzo alla stanza e lo ricompongono tra pianti e urla di disperazione. Tra il ventre e la cintura del morto trovano una palla di rivoltella e un’altra da lui un po’ discosta, la madre se le fa dare e le mette accanto al cadavere di Peppino. Poi Gabriele chiede ai vicini che sono nella stanza chi sia stato a sparare al fratello e quelli gli rispondono che a esplodere i colpi di rivoltella è stato Giuseppe Garro, ma che sul posto, armato, c’era anche il padre.
Con un urlo disumano Gabriele schizza via dalla casa di Chiara e si mette a correre verso quella dei genitori della ragazza. Vuole vendicarsi, ma è a mani nude; poggiato al muro del fabbricato c’è uno zappone, lo prende e continua a correre per i pochi metri che mancano. Intanto Nicola e Giuseppe Garro, temendo la vendetta dei Paese, si sono barricati in casa.
Dopo qualche poderoso colpo dato da Giuseppe con lo zappone, la porta sta per cedere e il giovane Garro pensa bene di afferrare il fucile, mettere le canne fuori dalla feritoia che c’è accanto alla porta e sparare di nuovo. Il colpo, per fortuna, manca Gabriele e va a conficcarsi nel muro della casa di fronte. E per fortuna di tutti Gabriele capisce che con in mano solo uno zappone non riuscirà mai a vendicarsi ma, anzi, che a lasciarci la pelle sarà solo lui, così batte in ritirata. Adesso la furia dei parenti di Peppino si rivolge verso la casa di Giuseppina Cucunato dove si è nascosta Chiara, ma la porta resiste e tutto sembra calmarsi quando i Paese, finalmente, si ritirano.
Nicola e Giuseppe Garro approfittano di questo momento per scappare da casa ed evitare un probabile ritorno, questa volta con armi appropriate, di Gabriele Paese e dei suoi parenti.
Ad evitare una vera e propria faida ci pensa il Sindaco di Zumpano che manda subito a chiamare i Carabinieri di Celico, ormai è notte, i quali arrivano quasi subito e non succede più niente. Per terra, davanti alla porta dei Garro, i Carabinieri trovano un calcio di fucile rotto e lo sequestrano.
Nicola Garro viene arrestato all’alba del 28 settembre in casa sua dove aveva tranquillamente dormito e, siccome è stato visto con un fucile in mano, oltre che di correità nell’omicidio di Giuseppe Paese, è accusato anche di avere esploso la fucilata contro Gabriele Paese.
Mi dichiaro innocente di tutte le imputazioni che mi si addebitano: nego di avere, sia direttamente che indirettamente, prestato aiuto o soccorso all’esecuzione dell’omicidio; nego di avere asportato un fucile; nego poi ancora di avere, dall’interno della mia abitazione, esploso un colpo di fucile per fare atto di minaccia contro Gabriele Paese, alias Venci. Ecco come andarono i fatti: dai primi giorni della tresca amorosa tra mia figlia Chiara e Peppino Paese, noi tutti della famiglia ci mostrammo dispiaciuti ed irritato in ispecial modo si mostrava mi figlio Giuseppe il quale, per evitare qualche sfogo di vendetta, non si peritava in giorno di domenica di abbandonare Zumpano onde evitare il probabile incontro del ganzo di sua sorella. Domenica scorsa Giuseppe si raccolse in casa alquanto avvinazzato. Appena entrato, vidi che lo stesso uscì furibondo e temendo io che andasse a prendere parte a qualche lite, lo seguii immantinente. Ma quando fui in istrada, avendo scorto la direzione da lui presa ed avendo trovata la di lui madre e mia moglie che gridava: “Figlio, figlio!”, di subito cercai di raggiungerlo avendo purtroppo capito qual era lo scopo che si prefiggeva mio figlio stesso. Io non avevo arma alcuna e quando fui in vicinanza della casa di Chiara, alla distanza di una ventina di metri circa, vidi mio figlio abbattere la porta di casa di Chiara; vidi ancora che si era fatto avanti Peppino armato di un rasoio, vidi mio figlio impugnare una rivoltella e con la medesima esplodere tre colpi e vidi, in fine, cadere Peppino al suolo. Frattanto mia figlia Chiara era fuggita ed io, che pur troppo non avevo potuto evitare quella scena di sangue, consigliai il figlio e la moglie mia a ritirarsi in casa, ciò che fecimo in fatti. non ci eravamo ancora ben rinchiusi quando un mormorio di persone ci fece avvertiti che erano accorsi i parenti di Peppino che volevano fare vendetta di noi. Mi si disse che eravi fra essi Gabriele Paese che si era appressato alla porta con un fucile, menando colpi alla disperata col calcio di quell’arma al punto di romperlo quasi totalmente. Non contento, Gabriele ritornò con una zappa, continuando le violenze sull’uscio. Fu allora che mio figlio Giuseppe, temendo che gli avversari entrassero in casa per ammazzarci, con la medesima rivoltella usata poco prima, esplose un colpo facendo entrare la canna dell’arma nella feritoria che dall’interno della casa corrisponde alla strada esternamente, dopo di che gli aggressori lasciarono quel luogo… se nella mia qualità di padre mi è permesso di dire una parola in difesa di mio figlio, dirò che noi fummo gravemente provocati dal contegno di Giuseppe Paese che, non contento di portare il disonore nella nostra famiglia, andava pubblicamente schernendosi delle nostre rimostranze, affermando che noi non eravamo buoni a nulla e che lui avrebbe fatto sempre quel che più gli talentava e ciò non ostante che io con le buone sempre consigliassi Gabriele Paese di invitare il fratello perché volesse rompere un tal vincolo amoroso… chiedo la libertà provvisoria…
Ma la richiesta non viene accolta perché la sua ricostruzione è palesemente in disaccordo sia con quelle di molti testimoni che affermano di averlo visto armato di fucile, sia con quella di Chiara che afferma di averlo chiamato in soccorso e di averlo visto sulla porta di casa mentre Giuseppe sparava. Ma probabilmente è in contraddizione anche con sé stesso quando, cercando di giustificare il figlio, comincia ad usare il noi.
Intanto, oltre ad accertare che Peppino è stato colpito da tutti e tre i colpi sparati da Giuseppe Garro, uno al braccio destro, uno di striscio all’addome e quello fatale al cuore, i periti medici procedono anche a riscontrare i segni delle violenze subite da Chiara: oltre a varie contusioni e graffi, i medici contano anche i segni di 5 morsi sulle braccia.
Gabriele Paese viene denunciato a piede libero per l’assalto alla casa dei Garro con l’accusa risibile di tentata violazione di domicilio.
Poi la notte del 4 ottobre i Carabinieri di Celico sorprendono Giuseppe Garro mentre dorme in un pagliaio in aperta campagna tra Zumpano e Lappano e lo arrestano.
Confesso sinceramente il mio delitto e dirò i motivi che, pur troppo, mi spinsero a commettere l’omicidio. Già da una ventina di giorni addietro il contegno di costui si manifestava provocante oltre modo, tanto d’averlo sentito io stesso dire che se ne strafotteva dei Garro, che avrebbe gittato tutti quanti di pennino. Domandai alla gente ed ai vicini il perché di tali minacce e fu allora che dalla voce pubblica sentii sussurrare di una relazione amorosa tra Paese e mia sorella Chiara. Più volte io feci parola a mia madre di cotali voci che io credevo insinuazioni, ma sempre mia madre, certo per evitare qualche brutto fatto, dicevami che nulla era vero, che erano voci calunniose a cui io non dovevo prestar fede e confesso che le parole di mia madre non mi avevano punto convinto, che, anzi, mi spiegavano la spavalderia di Peppino Paese che, come seppi dopo, più volte era stato invitato da mio padre, a mezzo dei suoi parenti, a troncare quella relazione illecita. Domenica 24 settembre, verso mezz’ora di notte, alticcio anzi che no, rincasandomi fui dapprima sorpreso nel vedere mia madre a terra colpita da attacchi isterici e già stavo per prestarle soccorso quando sentii la ben conosciuta voce di mia sorella Chiara gridare: “Accorrete che mi ammazzano!”. Io subito indovinai di che si trattava. Accecato dal vino bevuto, timoroso che qualche grave danno fosse per venire a mia sorella, presi la rivoltella e gridai minaccioso: “Piuttosto che egli ammazzare Chiara, io ammazzerò lui!” fuggii di casa dopo di avermi intascato l’arma ed in men che non si dica fui davanti la porta di Chiara, diedi due o tre urtoni all’uscio che si aperse con violenza. Si presentò sulla soglia Peppino impugnandomi un rasoio; estrassi la rivoltella ed un dietro l’altro sparai tre colpi contro Paese che vidi cadere sopra un cassone. Non vidi mia sorella Chiara, tanta era l’eccitazione che mi aveva preso. Buttai la rivoltella nell’orto sottostante e quasi contemporaneamente venivo raggiunto da mio padre che in modo disperato gridò: “Figlio, che cosa hai fatto?”. Arrivò pure mia madre e dalla medesima fui preso per un braccio e, tutti assieme, il padre pure e il piccolo fratello Francesco, subito ci rifuggiammo, chiudendoci dentro, nella nostra casa, temendo che i parenti di Peppino fossero venuti per vendicarlo. E di fatto, quasi subito, dopo un forte rumore, come di uno che volesse atterrare la porta, ci percosse l’orecchio: era Gabriele Paese che, come in seguito seppi, dopo di avere col calcio di un fucile menato colpi disperati alla porta in modo da rompere il calcio dell’arma stessa, era andato ancora a munirsi di una zappa e col cozzo continuava nei suoi atti di violenza. Temendo allora io che il Gabriele fosse per entrare in casa, temendo della vita dei miei, mi armai di un fucile a doppia canna che stava appeso al capezzale del letto, lo avvicinai alla feritoia e per spaventare Gabriele esplosi un colpo. Dopo di che, certo che io sarei stato ricercato dalla forza pubblica, abbandonai Zumpano… mio padre non c’entra niente, non ha avuto responsabilità alcuna perché sopravvenne quando io avevo consumato il delitto… mi rimetto alla giustizia
Anche la sua versione è in contrasto con tutte le altre e si vedrà quale è quella più vicina alla verità. Intanto una cosa sembra essere certa: il calcio di fucile rotto trovato davanti alla porta dei Garro non sarebbe stato usato da Gabriele Paese ma sarebbe stato buttato lì a bella posta dai Garro per avvalorare i loro racconti.
Giuseppe Garro viene rinviato a giudizio per omicidio volontario. I giudici non credono alla versione dei fatti raccontata da suo padre Nicola e rinviano a giudizio anche lui per concorso in omicidio volontario per averne facilitato la esecuzione col prestargli assistenza ed ajuto prima e dopo il fatto. Gabriele Paese viene prosciolto dall’accusa di tentata violazione di domicilio per inesistenza del delitto. È il 19 dicembre 1893.
Il primo febbraio 1894 la Corte d’Assise di Cosenza interpreta i fatti in un altro modo: Giuseppe Garro ha sparato per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta. Ha sparato per difendere sua sorella e quindi va assolto. E se va assolto Giuseppe, a maggior ragione deve essere assolto anche suo padre Nicola per non aver commesso il fatto. Ma se Giuseppe ha sparato per legittima difesa, è pur vero che lo ha fatto con una rivoltella che deteneva illegalmente e per questo reato deve essere condannato. Essendo minore degli anni 21 e maggiore degli anni 18, la pena (sino a mesi quattro) può essere applicata in giorni venti a causa della minore età dell’accusato.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

Il plagio letterario costituisce reato ai sensi dell’articolo 171 comma 1, lettera a)-bis della legge sul diritto d’autore, che sanziona chiunque metta a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera protetta (o parte di essa).

Lascia il primo commento

Lascia un commento