Il 26 agosto 1894 è domenica e diversi artieri la suddetta sera si riunivano nella cantina di Ciaccio Giuseppe a Cosenza e quivi da buoni amici giocarono e bevvero complimentandosi anche di brindisi.
Ferdinando Vitelli, Raffaele Abbate, Giovanni Locanto, Pasquale Misurelli, Giuseppe Caruso alias Crogna e Santo Pellegrino alias Diamante, giocano a padrone e sotto a vino e bevono, bevono molto. Giovanni Locanto, per esempio, ne beve due litri, poco più o poco meno, però, essendo abbituato a bere assai, non era talmente ubbriaco da non avere coscienza dei suoi atti perché ragionava come un uomo sano. Verso le 23 l’oste chiude il locale e la compagnia si scioglie, ma Raffaele Abbate ha ancora fame e sete, così chiede al suo capo d’arte, il calzolaio Ferdinando Vitelli, di spostarsi dall’altra parte della strada per andare a mangiare due vermicelli nella trattoria Aquila d’Oro. I due salgono la gradinata che porta alla trattoria ed entrano.
– Mastru Cì, due piatti di vermicelli e un mezzo litro che abbiamo fame! – ordina il ventunenne Abbate al proprietario.
– Li ho finiti… vi posso portare una bella fetta di carne alla genovese… – propone il tarantino Francesco Lupoli, gestore della trattoria.
– Porta, porta!
I due si accomodano mentre entrano Pasquale Misurelli e Giovanni Locanto. Quest’ultimo, senza che fosse stato invitato, si siede con gli altri due e comincia a mangiare. Misurelli invece si siede ad un altro tavolo e si mette a leggere un giornale. Finita la genovese e il mezzo litro, i tre amici si alzano, pagano e se ne vanno, scendendo verso Piazza Grande. Misurelli invece è già uscito per conto suo e li precede di qualche metro.
– Tu vuoi mangiare sui fessi – attacca Abbate, in tuono di scherno, rivolto a Locanto – tu ti vai vantando che mi hai regalato giacchi e mi hai dato da mangiare, tu sei una merda e se mi riscaldo ti prendo a schiaffi…
– I giacchi me li hai pagati e quando ho potuto disporre ho complimentato – gli risponde pacatamente Locanto – ora puoi tu e complimenti tu…
– Se vuoi fatto un giacco va al mio nome a fartelo confezionare da Bovino! – replica Abbate concitato, poi si fa dare da Vitelli un biglietto da lire dieci, lo porge a Locanto e continua – Tè… tè… ti debbo pagare i giacchi pagati!
– Io sono stato pagato… buonasera… – risponde Locanto che, mentre sta per allontanarsi, viene raggiunto da uno sputo in faccia.
– Vattene, fetente! Se vuoi giacchi vieni domani che te li faccio confezionare da Bovino! – insiste Abbate.
Interviene anche Vitelli che forse metteva buone parole, ma Locanto gli risponde piccato:
– Tu lasciaci stare, non ne parlare! – poi, vilipeso ed umiliato in quel modo, imbocca Via della Neve per tornarsene a casa, mentre gli altri due continuano a scendere lungo il Corso verso Piazza Piccola, seguiti ad una ventina di metri da Pasquale Misurelli, per poi svoltare verso il ponte di San Francesco dove nelle vicinanze c’è il Caffè Notte e Giorno. Quando Misurelli arriva davanti all’Oratorio incontra Locanto che ha in mano un grosso bastone di colore bianco piuttosto.
– Hai visto? Mi hanno preso come una mappina… cumu ‘nu zinzulu… – gli dice risentito. Misurelli capisce l’antifona e cerca di calmarlo.
– Ma lasciali stare, tornatene a casa, senti a me.
Locanto nemmeno gli risponde e si avvia con passi affrettati verso il Caffè Notte e Giorno. Misurelli fa un gesto di disappunto e decide di tornarsene a casa ma, arrivato al Vicolo Saporito, ci ripensa, riflettendo che il Locanto poteva incontrarsi ad Abbate e Vitelli lungo la Via Tribunali o Piazza Piccola e che poteva cimentarsi. Così torna indietro.
A Piazza Piccola ci sono quattro o cinque giovanotti che stanno chiacchierando tra di loro quando vedono passare Giovanni Locanto con un grosso bastone in una mano e nell’altra un trincetto da calzolaio. Si accorgono che sta inseguendo Ferdinando Vitelli mentre egli veniva seguito da Raffaele Abbate e nello inseguimento il Locanto cadeva e gli sfuggiva di mano il trincetto che raccoglieva subito, rialzandosi e gittando il suo bastone. Di questo si impossessava lo Abbate e, mentre il Locanto armato del trincetto stava per raggiungere il Vitelli, Abbate da dietro gli vibra una potente bastonata sulle spalle. Locanto, con una smorfia di dolore, si gira immediatamente e vede Abbate. Con la mano sinistra lo afferra per il petto del giacco e colla destra armata di trincetto lo colpisce ripetutamente nella parte mammaria.
Ferdinando Vitelli torna indietro per difendere il suo amico e con il suo bastone colpisce alla testa Locanto mentre costui continuava a tirare col trincetto ad Abbate.
– Guardie! Guardie! – Misurelli è davanti all’Oratorio quando sente le grida di soccorso e affretta il passo, inoltrandosi nella Strada Plebiscito e, imboccato il ponte di San Francesco trova disteso a terra Abbate che si lamenta per le ferite, circondato da Ferdinando Vitelli, Giuseppe Cozza, Michele Trunzo ed altri.
– Mi ha ammazzato… mi ha ammazzato… – farfuglia Abbate mentre i presenti lo sollevano e, a braccia, lo portano in ospedale. Locanto intanto è scappato e, sanguinante, si è rifugiato nella panetteria di Santo Calabrese posta all’angolo Bombini sulla via Tribunali.
– Mi hanno aggredito… – dice senza specificare altro. Calabrese gli deterge il sangue facendogli lavaggi e, immediatamente dopo, Locanto se ne va.
La Pubblica Sicurezza e le Guardie di Città si mettono subito alla ricerca del feritore ma gli sforzi sono vani, Locanto sembra essere svanito nel nulla.
2 ferite nella regione deltoidea destra; 1 ferita in corrispondenza dell’apofisi spinosa della 3 vertebra dorsale; 1 ferita nella regione soprascapolare sinistra, circondata da vasta ecchimosi; 1 ferita nella regione sottoclavicolare sinistra; 1 ferita in corrispondenza dell’angolo della spina iliaca sinistra. Salvo complicanze sono guaribili fra 20 giorni, certifica il dottor Felice Migliori. Ma di ora in ora le condizioni di Raffaele Abbate peggiorano. Si teme per la sua vita e, infatti, dopo 30 ore di agonia, la mattina del 28 agosto 1894, Abbate muore per la gravissima infezione che ha apportato nel cavo del peritoneo l’ultima ferita repertata, quella all’angolo della spina iliaca sinistra. La ragione perché la stessa arma feritrice abbia determinato solamente nell’addome fatti così gravi e sollecitamente letali, si deve riconoscere nel fatto che questa cavità si trova nelle condizioni tipiche favorevoli allo svolgimento dei germi e dei processi infettivi da questi causati, scrivono Felice Migliori e Bruno Tucci, incaricati dell’autopsia.
Nemmeno un’ora dopo il decesso di Raffaele Abbate le Guardie di Città ricevono una soffiata, vanno a perquisire un basso in Via Campana degli Angeli, praticamente di fronte all’abitazione di Locanto, e fanno tombola: il latitante si era nascosto proprio lì. Con i ferri ai polsi viene portato direttamente in carcere a disposizione del magistrato, che lo interroga immediatamente.
– Giocavamo alle carte nella cantina di Peppino Ciaccio scommettendo mezzo litro che ho perduto e pagato senza berne perché non mi fu dato. Non volli ripetere il giuoco alle carte e, distaccatomi dalla compagnia, bevetti col Misurelli un paio di litri di vino. Verso un’ora di notte giunse Abbate Raffaele, chiese da bere e bevè circa quattro soldi di vino che si ebbe dal cantiniere. Indi, quanti eravamo in quel luogo, facemmo due partite al tocco ed uscì padrone della prima partita il Misurelli e della seconda io stesso. Ma il vino, abusivamente, fu tutto distribuito dal Misurelli senza che io, che ne avevo il diritto, avessi mosso lamenti e si bevè fra tutti con la massima armonia. Più tardi restammo in cantina io, Vitelli, Misurelli ed Abbate per altri pochi momenti, uscendo poi tutti assieme e andando a mangiare un piatto di vermicelli. Trovandosi lo Abbate eccessivamente ubbriaco, ricordò che io una volta gli avea dato due giacche usate per lire dieci, abilitandolo di pagarmele a rate mensili ciascuna di lira una e che mi ero di ciò millantato, che oggi io ero un decaduto e che egli era buono a garentirmi presso il sarto Bovino, dileggiandomi e disprezzandomi. Da quelle parole io rimasi bensì umiliato e lo pregavo di lasciarmi stare in pace poiché non avevo mai menato vanto di avergli reso il favore che ricordava. Ma lo Abbate riprendendo il suo dire uscì a parole di minaccia di prendermi a schiaffi e così abbandonammo quel locale e quando fummo fuori lo Abbate dalle minacce passò ai fatti e, discendendo per la Via Pietramala [Via Padolisi, nda], mi assestò un pugno sul sopracciglio dell’occhio destro cagionandomi la lesione che mi osservate – racconta indicandosi una leggera ecchimosi – ma io non reagii perché temetti che in soccorso dello Abbate venisse il Vitelli, essendosi già allontanato prima ancora che cominciasse la quistione l’altro compagno Misurelli. Giunti nella Piazza Grande io volevo prendere il Vicolo della Neve ma lo Abbate mi impedì e così pensai di scendere per il corso, nella speranza d’incontrarmi a qualche pattuglia e liberarmi dalle molestie e dalle minacce che lo Abbate continuava a farmi. Quando eravamo alla Via Tribunali, lo Abbate tolse di mano al Vitelli il bastone e glielo scambiò col suo che era meno grosso e mi assalirono tutti e due, colpendomi sulla spalla destra e sul parietale sinistro così violentemente da farmi cadere a terra. Mi rialzai e mi avvidi che il Vitelli brandiva un trincetto, mentre lo Abbate continuava a tenere ancora inalberato il bastone ed io, gridando al soccorso, mi ricoverai nella panetteria di Santo De Cicco [Calabrese, nda]. Sulla strada non vidi altre persone perché era già passata la mezzanotte…
– Ci risulta che avevate un grosso bastone e un trincetto col quale avete ammazzato Abbate.
– In quella sera non possedevo armi bianche e non ho potuto perciò cagionare, come non ho cagionato, lesioni personali allo Abbate. Se lo stesso fu ferito lo fu non per mano mia ma per mano del Vitelli che teneva imbrandito un trincetto…
– È questo il bastone che avevate quella sera? – gli chiede il Giudice Istruttore mostrandogli il grosso bastone di colore bianco piuttosto, che gli agenti hanno repertato sul luogo del delitto:
– Il bastone che mi presentate non mi è mai appartenuto. Assomiglia però al palo che trovavasi in possesso del Vitelli e che poi sarebbe passato in mano di Abbate…
– Ma se le cose fossero andate davvero così, perché vi siete nascosto?
– È vero che mi rifugiai in una casa dirimpetto all’attuale mia abitazione, ma ciò feci per curarmi meglio le ferite ed anche perché ero in possesso della chiave che mi aveva lasciata l’altra inquilina Pasqualina, andata ad abitare nella Arinella, perché col giorno tre settembre prossimo dovea io andare ad abitare quella stanza…
– Quindi accusate Ferdinando Vitelli per l’omicidio di Abbate? Ne siete proprio sicuro?
– Avendolo io visto armato di trincetto debbo ritenere che fu lui che per iscambio ferì lo Abbate, mentre io quando venivo da questi offeso, lo avvicinavo per difendermi… mi querelo contro il Vitelli e faccio espressa istanza di punizione.
Ferdinando Vitelli si becca la querela ma nega tutto e sostiene che il grosso bastone era di proprietà di Locanto e la stessa cosa fanno tutti i testimoni che vengono interrogati in merito, i quali smentiscono Locanto anche sulla dinamica dei fatti: a colpire Raffaele Abbate è stato lui.
Di ciò ne è convinto il Pubblico Ministero che ne chiede il rinvio a giudizio per omicidio volontario e, al contrario, chiede che sia dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di Ferdinando Vitelli, che ha colpito Locanto con una bastonata, per avere agito in stato di legittima difesa.
La Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e, il 30 ottobre 1894, rinvia Locanto al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Nella sola udienza del 15 dicembre successivo, la Corte, riconoscendo all’imputato il vizio parziale di mente per ubbriachezza, lo condanna a 3 anni di reclusione. Locanto accetta la pena e rinuncia al ricorso per Cassazione. È il 20 dicembre 1894.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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