LASCIA IN PACE MIA SORELLA

Sono le 6 di mattina del 3 maggio 1891, domenica. Nella piazzetta di San Gaetano a Cosenza alcuni venditori ambulanti stanno finendo di preparare i propri banchetti: Finuzza Bruno vende patate, Arcangela Pastore vende generi alimentari, Gaetano Buonofiglio vende foglie, Angela Patitucci ha un paniere pieno di uova. Lungo la via della Garruba, che immette nella piazzetta, le sartorie sono già tutte aperte e anche i macellai già sfasciano quarti di manzo appesi ai ganci fuori dalle botteghe, aspettando che le messe mattutine nelle chiese di San Gaetano e San Rocco finiscano e la folla di fedeli si riversi per strada e compri qualcosa.
Il diciannovenne beccaio Antonio Chiappetta sta finendo di ripulire una testa di vitello insieme al padre Domenico quando con la coda dell’occhio vede venire dalla Garrubba suo cognato Gennaro De Luca. Stringe ancora più forte la mano che tiene il coltello mentre fa cenno al padre di guardare chi sta arrivando.
A una cinquantina di metri dalla macelleria dei Chiappetta, all’inizio di Corso Plebiscito, la Guardia Municipale Francesco Paparo sta uscendo dal Putighino dove ha comprato un sigaro prima di prendere servizio al Macello Comunale. Gli occhi gli vanno verso lo sbocco della Garruba, dalla parte opposta della piazzetta.
Gennaro De Luca è ormai a pochi passi dalla beccheria di suo suocero e il suo sguardo, come di sfida, è fisso verso il negozio. Antonio Chiappetta lo guarda con gli occhi della rabbia mentre la mano destra tormenta il manico di legno dell’affilatissimo coltello.
Cosa c’è che non va tra i cognati Gennaro e Antonio? per scoprirlo dobbiamo tornare indietro di quasi un anno e mezzo, al 18 gennaio 1890, quando Gennaro De Luca sposa Chiarina Chiappetta, sorella di Antonio.
Gennaro dice di aver trovato un buon lavoro a Napoli e che quindi, subito dopo il matrimonio, devono partire. Chiarina e la sua famiglia sono un po’ titubanti, lei ha solo 16 anni e non è pronta per andarsene così lontano da casa, ma gli obblighi coniugali impongono che debba seguire il marito e poi, visto che mancano ancora parecchi giorni prima che Gennaro cominci il suo lavoro, è anche l’occasione per fare una specie di viaggio di nozze.
Lo sposo si nasconde addosso tutti i soldi che hanno ricevuto in regalo e tutto il contante della dote di Chiarina, poi i due partono, armi e bagagli, verso la loro nuova vita.
Ma a Napoli Chiarina scopre il vero motivo del viaggio: Gennaro non ha nessun lavoro e in pochi giorni dilapida tutto il contante in bagordi e alle proteste di Chiarina risponde con le botte. Non solo: finiti i soldi, Gennaro vorrebbe che la moglie avesse procurato il pane per tutti e due facendo la puttana. Chiarina non ci sta e allora le botte diventano insopportabili. Gennaro le prende tutto il vestiario e il corredo che ha con sé e lo vende; la fa dormire per strada e in pochi giorni da quella bella ragazza che era si trasforma in una mendicante sporca e lacera che per sopravvivere agli stenti tende la mano ai passanti. È così che racimola pochi centesimi per spedire un telegramma al padre, che le fa avere i soldi per tornarsene a casa.
– Te ne vuoi andare? Vattene visto che sei una buona a nulla! Vattene se ne sei capace! – le dice prendendole i soldi che le ha mandato la famiglia e giù botte.
Chiarina trova di nuovo la forza per elemosinare qualcosa e scrive di nuovo ai genitori e questa volta va meglio. Gennaro non la scopre e lei scappa da quell’incubo.
Quando Chiarina torna a Cosenza è così malridotta e piena di lividure che faceva pietà a tutti, ma con l’amore e le cure dei genitori e dei fratelli si rimette presto. Del marito non vuole più sentir parlare.
Anche Gennaro dopo poco torna in città e chi conosce ciò che è successo a Napoli non perde occasione per rimproverarlo.
Allora la finisco quando non resterà più nessuno della famiglia Chiappetta! – risponde minacciosamente a una donna che lo ha redarguito. Da questo momento ricomincia a perseguitare Chiarina fino al punto che la mattina del 12 giugno 1890 esce di casa portandosi dietro un bastone e si mette a camminare avanti e indietro all’imbocco di Via Cafarone per la quale doveva transitare sua moglie, allorché dalla bottega rientrava a casa. Infatti Chiarina, verso la mezza, sbuca dalla Piazza dello Spirito Santo e fa per imboccare la ripida salita del Cafarone. Gennaro con un balzo le è davanti e le tira due terribili bastonate in testa lasciandola a terra svenuta, poi scappa prima che qualcuno possa intervenire. Adesso è davvero troppo! Chiarina denuncia il marito per le botte e il Tribunale lo condanna a 2 mesi di reclusione e al risarcimento del danno.
Quando esce dal carcere, Gennaro non si ferma e continua a minacciare Chiarina e i suoi familiari, ma per fortuna non succede null’altro di grave.
Poi una mattina accade qualcosa di strano: nel caffè gestito da Carmela Pinnola entra una Guardia Doganale che si presenta come cognato di Gennaro De Luca e chiede come fare per poter parlare con Chiarina.
Carmela manda a chiamare la ragazza e i due cominciano a parlare del matrimonio fallito. Chiarina gli racconta tutto:
Se fossi stato qui all’epoca del matrimonio ti avrei sconsigliata a maritarti con mio fratello… mi dispiace… lascialo perdere – fratello? Cognato? Boh!?
Nel caffè di Carmela Pinnola qualche giorno dopo ci capita anche Gennaro e la donna gli racconta dell’incontro tra sua moglie e quello che si è presentato come suo fratello o cognato o quello che era, rimproverandolo per quello che ha fatto a Chiarina.
Che stia onesta, in caso opposto le ammacco la capo! – è la risposta minacciosa.
Il primo maggio si celebra la festa del Crocefisso della Riforma e Chiarina, stanca di stare chiusa in casa per guardarsi dal marito, decide di andare a divertirsi in mezzo alle bancarelle. Ma in mezzo alla folla vede Gennaro seduto accanto alla Cappelluccia dello Spirito Santo che le sorride beffardamente mentre giocherella con un bastone. La ragazza è letteralmente terrorizzata e cerca di sgattaiolare via ma Gennaro la segue a distanza senza mai perderla di vista. Dove scappare? Come scappare? Chiarina all’improvviso vede la salvezza sotto forma di due pennacchi rossi e blu che si stagliano oltre le teste della gente festante. Una pattuglia di Carabinieri è a una decina di metri da lei che si mette a lavorare di gomiti per farsi largo e andare a mettersi sotto la protezione dei militari. Gennaro deve desistere e, facendo un gesto che sta a significare che l’avrebbe cercata di nuovo, sparisce tra la folla. È salva, almeno per questa volta.
Antonio e Gennaro sono adesso uno di fronte all’altro e si guardano in cagnesco. La Guardia Municipale Paparo si avvia verso il suo posto di lavoro e li guarda distrattamente da lontano, i venditori ambulanti cominciano timidamente a urlare per magnificare la propria mercanzia.
Lascia in pace Chiarina e la mia famiglia altrimenti…
La finirò quando sarete crepati tutti! – gli risponde provocatoriamente mentre lo spinge di lato per avere la via libera. Gli ambulanti smettono di urlare e li guardano incuriositi, come anche gli
altri macellai che hanno le botteghe a San Gaetano. Tutti aspettano che accada qualcosa e la Guardia Municipale, adesso ha capito che sta per succedere un guaio, affretta il passo per intervenire.
Domenico Chiappetta capisce che sta per finire male e tira il figlio per un braccio, poi si rivolge a Gennaro:
Ti vorrei da solo a solo per dirti due parole
Gennaro non gli dà retta e prosegue per la sua strada ma, fatti pochi passi, si gira e dice:
Ora fate i guappi che vi trovate assieme ai vostri compagni! – alludendo alla solidarietà tra i macellai.
Per Antonio è troppo. Si divincola dalla stretta di suo padre e con l’affilatissimo e acuminato coltello che ha in mano si lancia sull’avversario per colpirlo all’addome. E lo colpisce. Tutti i 12 centimetri della lama penetrano nelle carni di Gaetano che guarda Antonio con aria sbigottita.
La Guardia Municipale, sacramentando, percorre gli ultimi metri di corsa e si lancia, rivoltella in pugno, addosso ad Antonio riuscendo ad impedire che colpisca ancora.
– Fermo! Sei in arresto!
Antonio si lascia disarmare e Paparo lo porta via. Gennaro è a terra che si preme una mano sulla ferita. Gli ambulanti accorrono per vedere come sta. I macellai tornano al proprio lavoro. Qualcuno aiuta il ferito a rialzarsi e lo accompagna, sorreggendolo, in ospedale, dove poco dopo arrivano Carabinieri e Giudici:
Questa mattina, passando per la via di San Gaetano, vidi Antonio Chiappetta e suo padre Domenico i quali nel vedermi dissero perché io avevo profferito delle minacce contro di loro ed ero andato al Crocefisso per incontrarli e, senz’altro profferire, Antonio Chiappetta mi tirò una pugnalata… – dice ai Giudici presenti – il Domenico Chiappetta presenziava e aveva profferito delle parole contro di me ma nell’atto del ferimento non fece alcun atto.
Poi sviene e le sue condizioni cominciano a peggiorare a vista d’occhio.
Le cose sembrano chiare, ma dalle parole di alcuni testimoni sembrerebbe emergere, contrariamente a quanto affermato anche dalla vittima, una partecipazione attiva di Domenico Chiappetta al ferimento e così le cose si ingarbugliano.
Nel frattempo Gennaro De Luca muore per la setticemia causata dalla coltellata. Omicidio volontario.
Man mano che i testimoni vengono ascoltati, riascoltati e messi a confronto, emerge chiaramente che Domenico si è davvero adoperato per evitare che Antonio e Gennaro venissero a contatto senza riuscirci, così viene prosciolto. A processo andrà solo Antonio, che tutti i testimoni definiscono di lodevolissima condotta sotto tutti i rapporti, tanto che veniva ritenuto come cretino.
Ma c’è scappato il morto e anche un ragazzo mite deve pagare, se ha sbagliato.
La Corte d’Assise di Cosenza lo condannerà, il 31 luglio 1891, a 4 anni, 10 mesi e 10 giorni di reclusione.
Il 29 novembre 1893 il Pubblico Ministero della Corte d’Appello di Catanzaro, letto il R.Decreto d’amnistia 22 aprile 1893 e gli articoli 830 P.P. e 86 Cod. Penale, chiede alla Sezione d’Accusa di pronunziare nel caso in esame la declaratoria di ammissione all’indulto contenuto nel decreto anzidetto, senza pregiudizio dell’azione civile e dei diritti dei terzi a norma di legge, dichiarando diminuita di 6 mesi la pena.
Il primo dicembre successivo la richiesta viene accolta e la pena per Antonio Chiappetta resta fissata in 4 anni, 4 mesi e 10 giorni di reclusione.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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