IL BURRONE DEL MORTO

Serafina, 14 anni, e Michele, 13 anni, stanno falciando dell’erba lungo il torrente San Giovanni a circa 5 chilometri dall’abitato di San Lucido. È il 2 luglio 1909 e fa caldo.
– Quando finiamo scendo a mare e mi faccio un bel bagno – dice Serafina mentre in un momento di pausa mette i piedi nell’acqua fresca del torrente. Poi gli occhi le vanno sull’altra sponda del corso d’acqua, un po’ più in su di dov’è e, proprio tra l’acqua e la sponda, vede biancheggiare qualcosa che non sembra un sasso. È incuriosita, guada il torrente e si avvicina. L’urlo di terrore scuote il silenzio della piccola valle, limitata a monte da un alto e scosceso burrone. Michele per poco non si taglia una mano con la roncola e poi, ripresosi dallo spavento, si avvicina alla ragazzina che ancora sta urlando con le mani nei capelli.
– Che c’è? Cosa ti è successo? – le chiede. Serafina non riesce a dire niente ma continua a indicare col dito qualcosa tra i sassi. Michele si avvicina, osserva bene, poi urla anche lui – minchia!
Sporgenti dal terreno umido ci sono un teschio umano e un braccio, quello sinistro. Il resto sembra essere sotto terra. I due ragazzi scappano terrorizzati per correre in paese e lungo la strada incontrano un loro conoscente al quale, con frasi smozzicate, raccontano ciò che hanno visto. L’uomo, Giuseppe Petruccio, li rassicura dicendo che si occuperà lui di avvisare i Carabinieri e che possono andarsene tranquilli a casa.
Il Maresciallo Giuseppe Mirarchi non perde tempo e parte subito, inerpicandosi lungo la mulattiera che porta sul posto del macabro ritrovamento, accompagnato dal dottor Giovanni Vacatello il quale, dopo aver fatto rimuovere il terriccio che ricopre i poveri resti, verbalizza:
1° Un teschio col mascellare inferiore staccato, fornito di denti sani in entrambi i mascellari, vuoto affatto di materia cerebrale
2° Le ossa del tronco frammiste a cenci di giacca color grigio
3° Le ossa di un braccio tutte sconnesse e consumate
4° Un braccio entro la relativa manica, pressoché mummificato
5° Il bacino e le gambe, coi piedi distaccati, ridotti in fetida poltiglia, contenuti in un pantalone che si crede dovesse essere di colore più scuro della giacca e di fustagno
6° 2 piedi pure ridotti in poltiglia in due scarpe vecchie
Giudico che la morte risalga a sei mesi e che il cadavere sia quello d’uno d’età dai 13 ai 16 anni. La morte, successa per caduta dall’altezza di più di 25 metri è avvenuta per frattura della base del cranio.
Si, è questa l’ipotesi più verosimile. Il ragazzo, di cui resta ancora ignota l’identità, deve essere scivolato e precipitato nel burrone restandoci secco. L’inaccessibilità del luogo durante i mesi invernali e la forza dell’acqua, che ha provveduto prima a ricoprirlo e poi a scoprirlo durante uno degli ultimi temporali, hanno fatto si che sia rimasto nascosto per tutto questo tempo.
La notizia fa subito il giro dei paesi vicini e tutti sono sicuri e concordi che si tratti del sedicenne Francesco Lento, allontanatosi dal paese circa sei mesi prima.
Lento Francesco fu Vincenzo e fu Carbone Maria Teresa, nato nel 1892 a Napoli mentre la Carbone si accingeva ad emigrare per Rio de Janeiro e portato in San Lucido nel 1902 da certo Melito Michele d’anni 53, contadino abitante pure in contrada San Giovanni (al quale il piccolo Francesco è stato affidato in Brasile) purché ne avesse cura in cambio di quello che in patria avrebbe saputo fare, maritato a Vaito Concetta d’ignoti, d’anni 26, donna di casa, la quale ha riconosciuto il cadavere dalla giubba, in uno agli altri testimoni.
Dalle indagini proseguite, è stato assodato trattarsi di disgrazia, avvenuta il giorno 9 febbraio ultimo, di mattina e prestissimo, epoca la quale il Lento, all’insaputa dei suoi padroni, Vaito e Melito, se la scappò per ignota direzione. Né la Vaito vi fece caso, essendo il marito in America dal 1906, perché il Lento suddetto essendo cretino spesso se la scappava e poi faceva ritorno dopo 3 o quattro mesi, epoca la quale si poneva a servizio con gente dei paesi circonvicini.
Storia triste quella del povero Francesco ed è tutto chiaro per il Maresciallo Mirarchi e per il Pretore di Paola, confortati dalla relazione del dottor Vacatello:
In quel punto il burrone è profondo e la costa soprastante franosa, anzi si vedeva che il terreno che ricopriva quei resti umani fosse alluvionale e di frana. E siccome presso la frana si svolge un sentiero che poi, dopo un quarto d’ora di cammino, giunge alla casetta della Vaito, si sospetta che il Lento fosse precipitato rimanendovi cadavere e fu di poi sepolto. Al perito fu impossibile esprimere il benché minimo giudizio. Le indagini escludono inimicizia o malanimo d’alcuno, tanto meno della Vaito pel Lento che perciò pare sia effettivamente là caduto per disgrazia.
Il Giudice Istruttore non ha nulla da obiettare e il 27 luglio dichiara chiusa l’istruttoria sulla morte di Francesco Lento per inesistenza di reato.
Nonostante ciò il Comandante della Tenenza dei Carabinieri di Paola ha dei dubbi, niente affatto basati su fatti concreti ma semplici sensazioni, intuito forse, così il 1 agosto 1909 ordina al Maresciallo Mirarchi di riaprire le indagini e dopo non poche investigazioni e diversi servizi all’uopo eseguiti, persona di nostra fiducia che non desidera sia palesata, ci ha fatto avvalorare i sospetti e che cioè potevasi trattare di delitto ed al riguardo ci ha indicati individui da cui si poteva sperare qualche elemento al riguardo.
E l’informatore ha ragione.
Un giorno dello scorso mese di luglio e precisamente il giorno 29, io vidi Angela Molinaro in casa del fratello Francesco presso del quale io abito vicino. – dice Vincenzo Picciola al Maresciallo – La domandai come stava e perché si trovava in quella località e la Molinari mi rispose che sarebbe sempre rimasta in casa del fratello perché aveva paura di tornarsene in casa sua in quantocché temeva che Concetta Vaito l’avrebbe ammazzata. Io domandai perché ed allora la Molinari mi soggiunse come conosceva per confessione della stessa Vaito che questa, insieme con la nominata Carmela Malito, avevano strangolato il giovinetto Lento Francesco e dopo lo avevano precipitato nel burrone San Giovanni
Tombola!
I Carabinieri vanno a prendere la ventiduenne Angela Molinari e la portano in caserma per verificare la dichiarazione di Picciola.
Io abitavo nella stessa casa dove abitava la mia compaesana Vaito Concetta e ricordo che la mattina del giorno otto dello scorso mese di febbraio uscì di casa la detta Vaito insieme col giovanetto Lento Francesco e dissero che andavano al mulino per prendere della farina. – racconta Angela – Verso sera tornò la Vaito con Lento ma in compagnia di una sua nipote a nome Carmela Malito. A me disse che avea condotto in di lei compagnia la detta Malito perché era stanca e si era fatta aiutare al trasporto della farina; dopo un po’, come al solito, si coricarono e la mattina appresso molto per tempo uscirono tutti e tre e dissero che andavano da una certa Caterina Calomino a prendere un recipiente di pietra dove sogliono mangiare i maiali. Dopo poco più di un’ora vidi tornare la Vaito insieme con la Malito e senza il suddetto Francesco Lento; allora io domandai dove era rimasto il Lento e se avessero portato l’indicato recipiente. Mi accorsi che esse tremavano ed erano tutte comprese da molta paura. Insistetti ancora nella domanda e fu allora che la Vaito mi raccontò come si fosse disfatta del Lento ed al riguardo mi narrò che, arrivati alla località San Giovanni strangolarono con una corda il ripetuto Lento e dopo che diventò cadavere lo precipitarono nel sottostante burrone. Rimasi atterrita dal raccapricciante racconto e dissi: “Oddio, che avete commesso!”
– E perché lo avrebbero ammazzato?
La Vaito non mi disse la causale che la spinse al delitto, né io curai di domandarla perché, come ho detto, rimasi compresa di forte terrore. Ricordo che la Malito diceva: “Gesù dovrà perdonarmi perché io non ho nessuna colpa essendovi stata costretta e condotta contro la mia volontà”.
– Magari l’hai istigata tu ad ammazzarlo… o forse hai preparato la corda… – insinua il Maresciallo.
Non è affatto vero che io avessi istigato la Vaito a commettere il maleficio, sia perché io non avevo nessun rancore verso il Lento, sia perché ignoravo, come ho detto, i motivi che spinsero la Vaito a commettere l’efferato omicidio. Non è vero che io avessi preparato la corda colla quale fu ucciso il Lento perché nulla sapevo in precedenza delle intenzioni della Vaito.
– Perché finora non hai detto niente?
La Vaito quando mi confessò la sua colpa mi scongiurò di nulla mai dire a nessuno ed io fintantoché non sono stata interrogata ho taciuto… la Vaito mi ha minacciato di ammazzarmi se avessi rivelato qualche cosa ed io sono stata costretta ad andare ad abitare da mio fratello
Non c’è tempo da perdere, bisogna arrestare Concetta Vaito e sentire cosa ha da dire.
– Ripetimi cosa sai della morte di Francesco Lento…
– Marescià, ve l’ho detto già… la mattina del 9 febbraio è uscito ed è sparito… non so altro…
– Sei sicura?
– Sicurissima!
– Non è che quella mattina siete usciti insieme tu, Lento e tua nipote Carmela Malito e quando siete arrivati al burrone l’avete strangolato con una corda e l’avete buttato giù?
Concetta sbianca in viso, serra i pugni per cercare di contenere la sorpresa, guarda il Maresciallo e poi abbassa gli occhi tirando un lungo respiro.
Da qualche tempo il Lento Francesco mi minacciava che al ritorno dall’America di mio marito avrebbe denunziato fatti che potevano menomare la mia onorabilità. Impressionata da ciò e pensando al male che poteva derivarmi da una dichiarazione simile, pensai di disfarmi del Lento ed all’uopo ho cercato l’aiuto della nipote di mio marito Malito Carmela. Recatami la sera dell’8 Febbraio detto con un pretesto nella di costei casetta rurale, in contrada Torremesima di Fiumefreddo, la indussi ad accompagnarmi nella mia abitazione dove poi la convinsi a prestare la sua assistenza per uccidere il Lento. Così il mattino del 9 poco prima dell’alba ci avviammo, io la Carmela ed il Lento, per la contrada San Giovanni col pretesto di dover ritirare una conca in legno dove si suole dare la vivanda ai suini. Giunti ad un punto da me prescelto, col pretesto di riposarci ci sedemmo, disponendoci in modo che il Lento volgesse a me le spalle… – Concetta si ferma, tira fuori un fazzoletto, si soffia il naso e comincia a singhiozzare. Guarda il Maresciallo e scuote la testa come a voler dire che non ce la fa ad andare avanti nel racconto, mentre il Maresciallo le fa segno con una mano di continuare. Passano dei secondi interminabili nell’attesa della piena confessione, poi Concetta riprende – stando in questa posizione io, con una corda che avevo già preparata con un nodo scorsoio, avvinsi il collo del Lento e stringendo fortemente con l’aiuto della Carmela che gli teneva i piedi, lo strangolammoio tiravo per di dietro e la Malito lo tirava per i piedi
– E poi? – la incalza il Maresciallo.
Quando fummo certe che egli era morto, insieme con la Malito lo precipitammo nel burrone sottostante, senza pensare più altro
– Ma che bisogno c’era? Potevi mandarlo via…
Il Lento era poco di buono ed a me continuamente ingiuriava chiamandomi porcella e torno a dire che se io l’ho ucciso, ciò feci per salvaguardare il mio onore con mio marito e sia perché fui istigata dalla Molinari Angela! – dice riacquistando la sua aria spavalda.
– Pure la Molinari! Spiega come ti avrebbe istigata.
La Molinari mi suggerì che il miglior mezzo era quello di disfarmi del Lento e mi istigò ad ucciderlo indicandomene la maniera e cioè quella di strangolarlo e di precipitarlo da un dirupo. Mi disse che lei non poteva aiutarmi materialmente col venire di persona e mi suggerì di servirmi della nipote di mio marito. Infatti la sera dell’otto si coricò con me e con la Malito e la mattina appresso, molto per tempo, fummo svegliate dalla stessa Molinari che mi aveva somministrato la corda
– Portatela in camera di sicurezza e andate a prendere le altre due – ordina il Maresciallo e mentre accende un sigaro pensa a come gliel’avevano fatta sotto al naso.
Mia zia insistette molto per farmi andare a casa sua dicendomi che la dovevo aiutare a prendere della farina al mulino. Arrivata a casa di mia zia vi trovai la cognata a nome Angela Molinari e seppi lo scopo della mia chiamata e quanto fra esse era stato combinato. Io mi rifiutai energicamente dicendo fra l’altro che avevo paura e che non potevo in ogni caso secondare i loro desideri, ma tanto l’una che l’altra e specialmente la Molinari incominciarono ad istigarmi con la promessa di un vestito, di un corredo e di altri donativi, ma io ciò non ostante ero sempre sulla negativa. Fattosi tardi ci coricammo ed io quasi tutta la notte non potetti dormire e pensavo tra me e me che non appena fatto giorno me ne sarei scappata. Ma per mia mala sventura la Molinari, molto prima di far giorno ci fece levare dal letto e incominciò novellamente, alle mie ripulse, ad incoraggiarmi ed a premurarmi che fossi andata, soggiungendo che lei non poteva fare compagnia alla mia zia perché aveva dei figliuoli piccoli e mi pose tra l’altro un granellino di sale nel petto dicendo che con quel sale mi sarebbe venuto il coraggio. Fu allora che venne chiamato il ragazzo Lento Francesco che dormiva nel basso sottostante e con la scusa di andare a prendere un recipiente dove mangiavano i maiali, mio malgrado, ci avviammo per la contrada San Giovanni con la zia e con il Lento. Arrivati ad un certo punto dove sovrastava un burrone, la zia Concetta colla scusa di riposarsi si fermò e tutti ci sedemmo, mentre la zia si pose dalla parte di dietro del Lento. Tutto ad un tratto la zia medesima legò una corda che le era stata somministrata dalla stessa Angela Molinari e con quella corda avvinse al collo il disgraziato Lento e tirando forte lo strangolò. Io posi soltanto le mani ai piedi della vittima quando stava per spirare. Non è vero quindi che io abbia aiutato mia zia a strangolare ed a far morire il Lento, perché tra l’altro me ne mancava assolutamente il coraggio. Dopo che il Lento morì fu dalla sola mia zia precipitato nel burrone
Quindi secondo Concetta e Carmela, Angela Molinari sarebbe stata l’ispiratrice e l’organizzatrice del barbaro omicidio del povero Francesco Lento. Lei continua strenuamente a dichiararsi innocente e d’altra parte rimangono oscuri i motivi che l’avrebbero spinta a voler morto il ragazzo. Agli inquirenti sembra davvero troppo poco e troppo fuori dalla logica che abbia potuto, dietro richiesta di Concetta, organizzare così cinicamente il tutto. Angela e Concetta vengono messe una davanti all’altra in un drammatico confronto:
Ed osi innanzi a me negare che io mi sia rivolta a te per consigliarmi come fare perché il Lento mi minacciava d’informare mio marito che io tenevo delle relazioni illecite e tu mi suggeristi che unica via era quella di sbarazzarmi del Lento e mi indicasti financo il mezzo, consigliandomi di strangolarlo e di gittarlo in un burrone? – l’accusa Concetta
Nego recisamente quanto tu affermi perché nessun rancore io avevo con il Lento e non potevo suggerirti di sbarazzartene. Tu mai hai parlato con me delle minacce del Lento!
Come? Neghi? E non fosti tu anche a suggerirmi di rivolgermi alla Malito che mi avrebbe potuto aiutare?
Ma si che nego, perché tutto quanto stai affermando è completamente falso!
Ma se tu fosti a svegliarmi la mattina del 9 per tempo e ci somministrasti anche la corda
Io? Ma tu sogni o sei pazza! Tutto quanto stai dicendo è un cumulo d’invenzioni. Quale interesse io avevo di concorrere all’uccisione del Lento che nessun male mi aveva fatto?
Quanto io ho affermato corrisponde a verità… – termina Concetta scoppiando in lacrime.
Un bruttissimo affare. Le indagini su Angela Molinari non portano a niente e i sospetti che zia e nipote si siano messe d’accordo per cercare di scaricare le responsabilità maggiori su di lei aumentano quando emerge che le due esecutrici materiali del crimine sono detenute nella stessa cella del carcere di Paola. Poi il Maresciallo Mirarchi viene a sapere delle cose che potrebbero inguaiare seriamente Angela Molinari. Alcune persone gli riferiscono che Concetta Vaito nel mese di luglio 1907 rimase incinta di Francesco Molinari, fratello di Angela. Sgravatasi nel marzo 1908 fece sparire il neonato e l’ucciso Lento, a suo tempo, ha dichiarato che la Vaito aveva dato alla luce un bambino e che poscia l’aveva ucciso e sotterrato nel torrente denominato Volpe, in compagnia della cognata Molinari Angela.
Se tutto ciò risultasse vero, sarebbe plausibile che Angela, per salvare l’onore della cognata ed eliminare la responsabilità penale a carico del fratello Francesco nel caso di una eventuale querela di adulterio da parte del marito della Vaito, ha preso parte all’infanticidio e poi perché scoperta dalle dichiarazioni fatte dal Lento, ha consigliato la cognata a disfarsi anche di costui.
E le prove? Solo parole.
Tanto Concetta che Angela negano, ovviamente, l’infanticidio e il procedimento penale a loro carico viene subito chiuso con la sentenza di non luogo a procedere.
I Carabinieri indagano anche sulla possibile partecipazione di Francesco Molinari al delitto, ma sono costretti ad ammettere che il Molinari, venuto a conoscenza del delitto consumato dalla Vaito e Malito, pregò la sorella Angela a svelare il delitto e così quest’arma poté scoprirlo.
E allora se davvero Angela Molinari fosse stata la mente del delitto, che interesse avrebbe avuto a raccontare tutto ai Carabinieri quando ormai l’istruttoria era chiusa?
La Procura del re di Cosenza decide di inviare gli atti al Procuratore Generale del re a Catanzaro perché si esprima in merito alle accuse di omicidio premeditato per Concetta Vaito e Carmela Malito e complicità in omicidio per Angela Molinari.
Il Procuratore Generale chiede alla Sezione d’Accusa il rinvio a giudizio per tutte e tre le imputate e il 16 marzo 1910 lo ottiene.
L’11 gennaio 1911 comincia il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza. A presiedere è il Cavalier Michelangelo Dall’Oglio; i difensori delle imputate sono gli avvocati Nicola Serra, Tommaso Corigliano, Carlo Cardamone, Luigi Manes e Luigi Funari. La parte civile è rappresentata dall’avvocato Luigi Fera.
Concetta Vaito viene descritta come una buona ed onesta donna che soffre, talvolta, di deliqui. Mai ha dato adito a sospetti di intrattenere relazioni illecite con chicchessia e se ha ucciso è stato per troppo eccesso di salvaguardare il proprio onore dalle insinuazioni di Francesco Lento che era uno stupido, maligno e insinuante. Carmela Malito è una buona ragazza che ha sofferto di un tumore alla testa ed è rimasta come una stupida e tutti la scherzavano. Anche Angela Molinari è donna buona, soprattutto onesta e incapace di dare cattivi consigli.
Ma i fatti sono fatti e il Pubblico Ministero chiede la condanna delle imputate secondo i reati loro ascritti.
La difesa di Concetta Vaito chiede di eliminare dalla rubrica la premeditazione e invoca la provocazione e il vizio parziale di mente a cagione d’istero-epilessia.
Per Carmela Malito viene invocato il vizio totale di mente o, in subordine, quello parziale e una complicità secondaria.
La difesa di Angela Molinari sostiene strenuamente la sua innocenza e perciò chiederà ai giurati un verdetto negativo.
La Giuria, il 7 febbario 1911, ritiene le tre donne colpevoli dei reati per i quali sono a processo e condanna Concetta Vaito a 30 anni di reclusione per omicidio volontario premeditato, Carmela Malito a 12 anni e 6 mesi per complicità in omicidio volontario premeditato, Angela Molinari a 12 anni per complicità in omicidio premeditato.
Il 16 novembre 1911 la Suprema Corte di Cassazione rigetta i ricorsi delle tre imputate.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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