IL BICCHIERINO DI VERMOUTH

A Orsomarso fa ancora caldo nel pomeriggio del 16 settembre 1951. Nel bar di Giuseppe Papa, oltre agli altri, c’è un gruppetto di avventori che, comodamente seduti ad un tavolino, si rinfresca bevendo del vermouth fresco. Nildo Marzioto, suo padre Luigi, Biagio Barbarino e Giuseppe Dacunto chiacchierano amabilmente quando, ad un certo punto, entra Nicodemo Papasidero con un suo nipote, un ragazzino di una dozzina di anni, e chiede del vino per il suo ospite.

– Non ne voglio vino! – gli fa il ragazzino. Papasidero non si scompone: senza chiedere permesso prende un bicchierino pieno dal tavolo dei quattro amici e lo fa bere al nipote. Non ancora contento, ne prende un altro e lo tracanna egli stesso. Gli amici si guardano tra loro e, conoscendo il carattere irascibile e prepotente di Papasidero, lo lasciano fare. Poi l’uomo prende una sedia e si siede accanto a Luigi Marzioto.

– Il liquore te lo puoi bere, ma non ti voglio vicino a me e te ne devi andare! – Marzioto ha le sue ragioni per non volere Papasidero accanto a sé perché quattro anni prima aveva ricevuto da lui qualche coltellata durante un’animata discussione svoltasi a Santa Domenica Talao.

– Sempre lo stesso sei! L’educazione non la capisci! – sbotta Papasidero, che rifiuta di alzarsi. Anche questa volta la situazione sembra poter precipitare ma il pronto intervento del figlio di Luigi e del barista che prendono per le braccia Papasidero e lo accompagnano alla porta, vincendone la fiera resistenza, evita il peggio – Lasciatemi! Voglio bere anche io del vermouth! – urla mentre si dibatte.

Per me può restare a bere, purché paghi la sua quota… – dice Biagio Barbarino per cercare di calmare gli animi, ma ormai Papasidero è già fuori del locale e, tenuto per un braccio da Nildo Marzioto, entra nella macelleria di Antonio Sisinno, dove si ferma qualche minuto.

Per i quattro amici il pomeriggio è ormai rovinato e così, dopo pochi minuti, lasciano il bar e si dirigono insieme verso la parte alta del paese.

– Vado dai Carabinieri, non ce la faccio più a sopportarlo! –  si lamenta Luigi Marzioto, che però viene distolto dal suo proposito mentre camminano.

Arrivati davanti al negozio di Gaetano Laino, Barbarino saluta gli altri tre dicendo che deve sbrigare una faccenda e torna indietro. Gli altri tre proseguono insieme per un altro po’, poi si dividono.

Barbarino si ferma davanti al bar di Papa e si appoggia al parapetto della strada, proprio mentre arriva sul posto anche Papasidero, il quale prima si ferma davanti alla porta dell’esercizio, poi si avvicina a Barbarino e i due cominciano a parlottare. Nel largo dove si svolge la scena c’è un po’ di gente che sa della questione accaduta poco prima nel bar e comincia a temere che i due possano venire alle mani. Antonio Russo si fa coraggio e si avvicina ai due per evitare il peggio:

Accuccia! – sente dire a Papasidero, come per dire al suo interlocutore di starsene buono e zitto.

Non ti credere che sei più diritto! – gli risponde Barbarino, risentito per essere stato trattato come un ragazzino.

– Andiamo sotto verso la rotabile che devo pisciare – propone Papasidero.

– Io non devo pisciare! – fa Barbarino.

– E allora andiamo verso sopra! – propone ancora Papasidero in tono di sfida.

– Va bene, andiamo!

– Dove vai? Fermati con me – dice Russo a Papasidero cercando di trattenerlo per un braccio, senza però riuscirci.

Sono le 5 del pomeriggio e America Arieta sta tornando dal molino di Flora Capparella dove lavora come operaia. Quando, imboccata Via Vittorio Emanuele III, è davanti alla macelleria di Vincenzo Nepita, vede Biagio Barbarino che sta discutendo con Nicodemo Papasidero.

– Smettila! Ormai è tutto finito – dice Biagio.

No, non la passa. Questa sera o la mia o la sua! – sbotta l’altro.

– Se è così, allora vediamocela noi due – gli risponde Barbarino, quasi in tono scherzoso. Poi Nicodemo lo prende sottobraccio e i due si incamminano lungo Via Vittorio Emanuele III discorrendo bonariamente.

America li guarda incuriosita mentre si allontanano e poi, quando sono ormai a una cinquantina di metri da lei, vede Papasidero prendere un coltello dalla cintura e dare due coltellate a Barbarino: la prima, violenta, nel costato; la seconda, più debole, nella mammella sinistra. Barbarino è sorpreso, cerca di afferrare il coltellaccio per toglierlo dalle mani dell’aggressore ma l’altro lo tiene ben stretto e così la vittima fa scorrere la propria mano sulla lama affilata e per poco non ci rimette un paio di dita.

Ma Barbarino è ferito seriamente e si piega su sé stesso, fa qualche passo fino a un cumulo di pietre accanto a lui per prenderne una e scagliarla contro l’aggressore, senza però riuscirci perché cade pesantemente a terra esanime, mentre Papasidero, dopo aver messo l’arma in bocca, scappa.

America ed altre due donne presenti sul posto accorrono per aiutare Barbarino ma è troppo tardi, è già morto!

I Carabinieri di Orsomarso arrivano nel giro di pochissimi minuti. Il Brigadiere Francesco Macrì lascia l’unico Carabiniere alle sue dipendenze a piantonare il cadavere e con l’aiuto di tre Carabinieri di Orsomarso che si trovano in paese in licenza, si mette alla ricerca di Papasidero e dopo un’ora riesce a localizzarlo in contrada Ficara e, data la pericolosità del Papasidero ed in considerazione della posizione vantaggiosa in cui si trovava nascosto il ricercato, i Carabinieri sopra menzionati all’intimazione dell’alto hanno esploso tre colpi di pistola in alto a scopo intimidatorio e ciò allo scopo di prevenire atti inconsulti da parte del Papasidero il quale non poteva essere acciuffato di sorpresa. L’uomo capisce che per lui è finita e si arrende facendosi mettere i ferri ai polsi.

Io non sono stato, il pomeriggio del 16 settembre, nella cantina di Papa Giuseppe. Non so spiegare come i miei paesani abbiano voluto raccontare i fatti in maniera diversa da come si sono svolti. Verso le 17 transitavo lungo la via Vittorio Emanuele di questo abitato, diretto a casa mia. Giunto all’altezza del negozio di Freni Angelo ho fatto incontro con Barbarino Biagio e Marzioto Luigi i quali si trovavano in mezzo alla strada in istato di manifesta ubbriachezza. Appena fatto incontro il Marzioto mi ha chiesto se andavo in cerca del figlio a nome Nildo per ucciderlo, al che io ho risposto negativamente asserendo che io e suo figlio siamo dei buoni amici. Non contento della mia risposta, il Marzioto ha continuato ad insistere col dire che io andavo in cerca di suo figlio mentre il Barbarino, che come sopra detto era ubbriaco, stringeva i denti in atto di minaccia. È stato così che il Barbarino, senza profferire parola, ha estratto dalla cintura del pantalone il coltello e mi ha vibrato due colpi nella mano sinistra producendomi le lesioni – dice mostrando i due piccoli tagli sul polso sinistro -. Vistomi la mano unta di sangue ho strappato il coltello dalle mani del Barbarino e gli ho vibrato due colpi di cui uno al viso e l’altro, non ricordo di preciso, se in un braccio. Ciò ho fatto non con l’intenzione di ucciderlo ma al solo scopo di stordirlo, credendo di colpirlo col cozzo del coltello, ma malauguratamente l’ho colpito col taglio. Notando che aveva del sangue al viso, allo scopo di evitare ulteriori conseguenze mi sono allontanato dal paese. Il coltello l’ho buttato strada facendo mentre mi allontanavo… il Marzioto, quando ha visto che il Barbarino ha estratto il coltello non ha intervenuto ma ha continuato a brontolare barcollando

Il Brigadiere Macrì fa perlustrare palmo a palmo tutto il tragitto fatto da Papasidero fino a contrada Ficara ed è fortunato perché si riesce a trovare il coltello, uno scannaturu, utilizzato per commettere l’omicidio.

Il coltello a lama fissa della lunghezza complessiva di cm 40 circa, ancora unto di sangue che mi viene presentato è quello che io, dopo la lite con Barbarino Biagio, ho buttato lungo la via Santa Croce e precisamente in un pianta di fico selvatico – ammette.

Siccome tutte le testimonianze raccolte dicono esattamente il contrario di quanto Papasidero afferma circa la dinamica dei fatti, Macrì convoca la moglie dell’imputato e le mostra il coltello.

Il coltello che mi viene presentato l’aveva portato mio marito a casa molto tempo fa e lo tenevamo per uccidere il maiale e qualche volta facevo uso anch’io per la cucina. Il giorno 16 con detto coltello io avevo tagliato il pane a mezzo giorno e poi l’avevo lasciato sul tavolo nella casa. Non so altro  perché non mi trovavo presente quando mio marito è ritornato a casa, dato che ero andata al fiume per lavare ed avevo lasciato la chiave nella toppa della porta. Preciso che quando mio marito è uscito da casa dopo mangiato, è uscito senza il coltello e senza la giubba… – ammette ingenuamente e per il marito adesso sono guai serissimi. Oltre al riconoscimento del coltello, è l’ultima affermazione a convincere gli inquirenti che non si è trattato di un delitto occasionale ma di un delitto premeditato, almeno nella preparazione se non per quanto riguarda la vittima designata che sarebbe dovuta essere, sempre secondo gli inquirenti, Luigi Marzioto.

Non passano che pochi giorni e la moglie di Nicodemo ritratta tutto, presentando al Brigadiere Macrì un altro scannaturu.

– Mi sono sbagliata, ho trovato in casa il coltello che io asserivo che apparteneva a mio marito. È evidente, quindi, che quello sequestrato non poteva essere di mio marito

Il Brigadiere sequestra l’arma della lunghezza complessiva di cm 31 e mezzo; di cui cm. 12 il manico e cm. 19 e mezzo la lama; larghezza della lama al centro cm. 3 e mezzo. Il coltello si presenta con la lama arrugginita e manico apparentemente nuovo ma sporco di terra, verbalizza Macrì. A questo punto è necessaria una perizia sui due coltelli e il risultato convince ancora di più gli inquirenti che si tratta di un tentativo puerile di mettere una toppa al guaio combinato dalla signora Papasidero: il reperto N.7/51 R.C.R., il primo coltello sequestrato, ha il manico lungo cm. 11, lama acuminata con taglio da un solo lato lunga cm. 23; lunghezza complessiva del coltello cm. 34; lama larga cm. 3 e mm. 8; manico spesso cm. 2,2; lama tagliente; si dà atto che sia la lama che il manico sono sporchi di sangue. Il reperto N.15/51 R.C.R., il coltello presentato dalla moglie di Papasidero, ha il manico lungo cm. 12, lama a punta con taglio da un solo lato lunga cm. 19 e mm. 4; lunghezza complessiva del coltello cm. 31, ½; lama larga nel punto mediano cm 3 ½, manico spesso cm. 2; punta e taglio non affilati per l’uso. La moglie, che aveva lasciato il coltello sul tavolo avrebbe dovuto, la stessa sera del delitto, trovarlo dove lo aveva lasciato e, in ogni caso, il coltello esibito non è adatto all’uso, nemmeno per tagliare il pane.

Poi c’è la certezza che Papasidero, prima di incontrare Barbarino lungo Via Vittorio Emanuele III è stato a casa sua: tutti giurano, come del resto ha fatto anche sua moglie, che nel bar, al momento della discussione per il vermouth, aveva indosso solo una canottiera e così è stato visto allontanarsi, mentre nel momento dell’incontro con Barbarino e nel momento del delitto aveva addosso una giacca. Anche le due piccole ferite sul suo polso parlano contro di lui: la perizia accerta che per la forma e la direzione dei tagli è impossibile che a produrgliele sia stata una persona diversa da sé stesso.

La Procura della Repubblica non ha dubbi nemmeno sulla volontà omicida di Papasidero non solo perché reiterò i colpi, ma perché immerse lo scannatoio nel cuore della vittima. E il movente? Quando Barbarino cercò di trattenere l’imputato egli fece presente ch’era inutile insistere per riaccendere la lite dopo che tutto era finito, aggiunse, per persuaderlo visto che non voleva convincersi, “bè, vediamocela noi”. Quelle parole furono sufficienti perché Papasidero rivolgesse tutte le sue ire contro la persona che difendeva il suo nemico, colui contro il quale aveva pronunciato poco prima la frase: “stasera, o la mia o la sua”. per Papasidero divenne allora indifferente uccidere il nemico o colui che il nemico proteggeva e in favore del quale osava persino affrontare una colluttazione. Questa indifferenza per la soppressione di una vita umana è il dato più sicuro da cui desumere come Papasidero Nicodemo sia persona pericolosissima. L’episodio della cantina lo rivela infatti come spavaldo, sopraffattore, violento; l’omicidio lo conferma sanguinario e temibile quanto altri mai.

Nicodemo Papasidero viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza il 20 settembre 1952 e l’inizio del dibattimento viene fissato per il 24 gennaio 1953.

Il 27 gennaio successivo, dopo tre udienze, la Giuria condanna Nicodemo Papasidero a 20 anni di reclusione e 5 mesi e 10 giorni di arresto, all’interdizione legale, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e lo sottopone alla libertà vigilata per anni 3; lo condanna, inoltre, al pagamento delle spese processuali e a quelle del suo mantenimento in carcere durante la detenzione preventiva; al rimborso delle spese e al risarcimento dei danni verso la parte civile, che liquida in £ 2 milioni e 71 mila, ivi comprese £ 70 mila per compenso di difesa.

Gli avvocati Muzio e Luigi Graziani, difensori di Nicodemo, presentano ricorso in Appello ed allegano, per cercare di alleggerire la posizione del loro assistito, il brevetto – N. 13186 del 15 maggio 1951 – di attribuzione della Medaglia in bronzo al Valore Militare al marinaio Papasidero Nicodemo da parte del Presidente della Repubblica Italiana con la motivazione: Già distintosi per avere salvato in mare un militare alleato, di guardia in stazione vedetta, durante un attacco aereo eseguito a bassa quota, manteneva il suo posto, comunicando al reparto preziose notizie. Ferito da colpi di mitragliatrice e trasportato all’infermeria, dava prova di mirabile forza d’animo ed attaccamento al dovere. Cagliari, estate 1943.

Il 14 aprile 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro in riforma della sentenza di primo grado, accogliendo parzialmente il ricorso dell’imputato, riduce la pena a 16 anni di reclusione.

Il 21 ottobre 1954 la stessa Corte d’Appello, non avendo il Papasidero presentato motivi a sostegno del ricorso per Cassazione, ordina l’esecuzione della sentenza che, così, diventa definitiva e Nicodemo Papasidero la sconterà nel carcere di Procida.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.

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