MORTE E VELENI NELLA COSENZA BENE

È il 22 dicembre 1917 e a Cosenza, nonostante le privazioni e i morti della guerra, tutto scorre nella tranquillità. Sembra tutto tranquillo anche nell’appartamento occupato dalla famiglia del cavalier Alfonso Rende, sessantenne alto funzionario prefettizio in pensione, sito all’interno del villino Quintieri nel quartiere della Riforma. Sembra. Sembra perché nella famiglia Rende le liti sono quotidiane per accaparrarsi i beni del cavaliere Alfonso, che vive semi paralizzato nella sua camera da letto e che si pensa possa tirare le cuoia da un momento all’altro, ma sono ormai anni che si trova in questa condizione e in questo frattempo ha scritto di proprio pugno tre o quattro testamenti, almeno un paio dei quali, così racconta lui, estortigli dalla cinquantenne moglie Carmela Di Pietro, sposata controvoglia dopo averla messa incinta (il primogenito Luigi fu riconosciuto solo qualche tempo dopo il matrimonio).
Lui avrebbe voluto, anzi vorrebbe, lasciare tutto o quasi ai due figli, il ventenne Luigi, da anni sofferente di attacchi epilettici, e la quindicenne Maria, già maritata con un avvocato pugliese, il ventisettenne Daniele Vito, ma la moglie Carmela, approfittando dei momenti di maggiore malessere del marito, è riuscita a farsi destinare la parte più cospicua del patrimonio, salvo poi vedersela togliere da un altro testamento. Ma quale sarà quello valido attualmente? Pare che nessuno sia in grado di dirlo, si vedrà al momento opportuno. La cosa assolutamente certa è che Carmela già amministra la pensione del marito e difficilmente potranno togliergliela.
La mattina di sabato 22 dicembre 1917, verso le 8,00, Carmela porta il caffè in camera al figlio Luigi il quale, bevutolo, si rimette a letto mentre la madre se ne va. Chiusa la porta, Luigi si rialza e si affaccia al balcone guardando verso il balcone dell’appartamento occupato da sua sorella al piano superiore, che è anch’essa affacciata. Maria nota qualcosa di strano nell’espressione del fratello, come se fosse preoccupato da una misteriosa presenza alle sue spalle, poiché ogni tanto si voltava all’indietro come se temesse che qualcuno avesse ad aggredirlo alle spalle. La ragazza pensa che, come al solito, dietro al fratello ci sia la madre che gli proibisce di parlarle; lo saluta con un sorriso e rientra in casa per evitare ulteriori discussioni. Si, perché anche questo accade in casa Rende. Carmela non vuole che il figlio abbia rapporti col padre e con la sorella per evitare che possano mettersi d’accordo sull’eredità.
Ma Maria è stanca di questa situazione. Tra lei, il padre e il fratello la sintonia e l’affetto sono totali e non può tollerare oltre queste assurde proibizioni, così scende le scale e, prima di bussare, si accorge che la porta di casa dei genitori è socchiusa.
– Posso entrare? – chiede gentilmente.
Non c’è permesso! – risponde la madre da dietro la porta, richiudendola bruscamente. Maria, delusa, ritorna a casa sua.
Sono ormai le 10,30 quando alcune urla scuotono il villino Quintieri: è Carmela Di Pietro che entrando nella camera da letto del figlio lo trova disteso a terra con delle macchie di sangue sul viso. Poi va in camera del marito e con flemma e sicurezza eccezionali gli dice:
Luigi è morto 
Il cavaliere Rende, mezzo paralitico com’è, si alza e va il più velocemente possibile nella camera del figlio. Nota subito che entrambe le imposte dei balconi sono chiuse e che non c’è luce a sufficienza per essere sicuri che Luigi sia effettivamente morto e non svenuto per uno dei suoi soliti attacchi epilettici. Accorrono i vicini che aprono i balconi, sollevano il corpo di Luigi e lo adagiano sul letto.
– Perché queste urla? Che è successo? – chiede allarmata Maria, precipitatasi anche lei in casa dei genitori.
Vattene! Tu lo hai ucciso! – le urla in faccia la madre cacciandola dalla stanza.
Accorre subito anche il dottor Fedele Ranieri, che ha l’impressione che il povero Luigi potesse essere vivo e solo dopo che ebbe attentamente esaminato il cuore e verificato con un fiammifero la cessazione di atti respiratori, si convinse della morte.
Qui ci sono dei punti interrogativi! – esclama mentre indica delle tracce bluastre sul collo del ragazzo.
L’ho ammazzato io? Allora si vuole che l’abbia ucciso? – gli risponde, risentita, Carmela.
Il cavaliere Rende manda a chiamare i Carabinieri e, mentre vengono fatte uscire tutte le persone dalla stanza, Carmela bisbiglia all’orecchio di Arnaldo Deni, intimo amico del povero Luigi e di suo genero Vito Daniele, avvisati mentre erano insieme lungo il corso principale della città:
Pensi che mi debba vestire?
E perché mai, signora? – le risponde Deni.
Sospettate tutti che l’abbia ucciso… Ranieri lo ha fatto capire chiaramente… adesso verranno i Carabinieri e mi arresteranno.
Carabinieri e Polizia arrivano contemporaneamente e constatano delle evidenti stranezze: Sul viso, sul collo, sulle mani e su qualsiasi regione del corpo del cadavere di Rende Luigi non si sono riscontrate delle macchie di sangue. Ciò è inverosimile poiché dalle varie contusioni riportate (alcune delle quali molto profonde) e dalle escoriazioni corrispondenti, una certa quantità di sangue ha dovuto necessariamente uscire. Abbiamo anche osservato come dal primo verbale di visita necroscopica che la manica della camicia e quella della maglia, dal lato sinistro, erano bagnate dall’acqua o per lo meno con un liquido che non era sangue né urina. Tutto ciò fa nascere il sospetto che il cadavere sia stato pulito e lavato prima che fosse dato annunzio all’Autorità Giudiziaria dell’avvenuto decesso. Gli investigatori notano un’altra incongruenza: la presenza, contrariamente al resto, di macchie di sangue su parte del petto della camicia e parte del gilè. Tutto questo, se da una parte contrasta con lo stato delle cose, dall’altro conferma tutti i dubbi circa la morte di Luigi Rende. Ma è troppo presto, soprattutto complicato, avere dei sospetti senza sapere come siano davvero andate le cose. Poi perquisiscono sommariamente la casa e non trovano niente di interessante per le indagini.
Ma una frase detta da Carmela a Gaetano Stella, che si sta interessando delle spese funerarie, attira l’attenzione del Carabiniere Cristoforo Palma:
Io non metterò fuori nemmeno un centesimo! – poi, rivolgendo lo sguardo verso il cadavere del figlio, pronuncia le sue ultime parole in quella casa perché se ne va senza tornare più – Addio figlio
 Comincia una dura battaglia legale: il cavaliere Rende si fa assistere dal suo intimo amico Ernesto Fagiani, mentre Carmela Di Pietro si rivolge all’avvocato Pietro Mancini che, giocando d’anticipo, scrive al Procuratore del re:
Carmela Di Pietro maritata cav. Alfonso Rende ricorre a V.S. e ne implora a mio mezzo la sollecita, immediata giustizia.
Il suo unico figliuolo Luigi Rende non èpiù. Si è trovato morto. L’animo della madre angosciato invoca tutte le indagini. Nessuna esclusa od eccettuata. Non si perda tempo e s’indaghi su tutto e tutti. Sarebbe necessario che V.S. si rechi nella casa ove il ragazzo fu trovato morto. Perquisisca sulle minime cose. Frughi dovunque. Interroghi tutti.
Non è lecito a noi suggerire nulla. Conosciamo l’animo della S.V. e lo scrupolo che lo distingue. Ad esso in nome del dolore di una madre ci affidiamo.
Risponde il cavaliere Rende tramite Fagiani:
Poiché una perquisizione è stata fatta nel luogo dove la morte è avvenuta, ma quando la Di Pietro era già andata via ed aveva asportato oggetti della causa, sarebbe bene che si perquisisse la dimora ove la Di Pietro trovasi per cercare elementi.
Il Procuratore del re, come primo atto, ordina l’autopsia del cadavere ai dottori Antonio Rodi e Adolfo Tafuri, concedendo loro 75 giorni di tempo per effettuare le indagini mediche necessarie.
Le indagini di polizia invece portano subito alla luce la situazione familiare degradata: Maria Rende e suo padre accusano apertamente Carmela Di Pietro per i continui maltrattamenti che riservava ai familiari, finalizzati ad accaparrarsi quanto più possibile del patrimonio di famiglia:
Quando già mio padre era infermo, ho saputo da lui medesimo che questi aveva fatto un altro testamento ad istigazione di mia madre e per intromissione dell’avvocato Carrieri. Dallo stesso mio padre, il giorno che mio fratello è morto, ho saputo che mia madre era riuscita a carpire a mio padre suddetto un altro testamento che egli afferma di averle consegnato. Con esso, mio padre, poiché a me aveva donato all’atto del matrimonio metà dei suoi beni, disponeva dell’altra metà in favore di mio fratello, con la clausola che in caso di premorienza di costui, tutto si sarebbe devoluto in di lei favore. Dopo la morte di Luigi, mio padre si è ritirato in casa mia e non ha voluto più stare con mia madre che lo maltrattava. Mia madre, volontariamente, è andata via dalla sua casa. Mio padre, venuto in casa mia, spontaneamente ha fatto testamento di tutto il suo avere in mio favore, in presenza dell’avvocato Fagiani. Quando mia madre è andata via di casa ha consegnato un testamento suggellato alla signora Veltri, che abita al piano sottostante, dicendo che era di mio padre. Ciò è avvenuto in presenza del barone Diego Miceli e del signor Agostino Deni – racconta Maria.
Il cavaliere Rende racconta dei maltrattamenti:
– Dopo che mia moglie aveva cacciato mia figlia e mio genero da casa il 18 dicembre, Luigi andò a pranzare dalla sorella dove c’era anche il signor Arnaldo Deni, al quale mio figlio rivolse la preghiera di farlo uscire un po’ a passeggiare con lui; per tale fatto andò dalla madre alla quale chiese una camicia pulita, ma la Di Pietro, aggredendo tutti con parole oscene e bestemmiando, sbarrò il passo. Chiamato mio genero, lo pregai di calmare l’ira della Di Pietro – altrimenti ne subisco io le conseguenze – ed invitare per telefono i suoi amici che dopo poco vennero a trovarlo e mio figlio si distrasse vedendo i venuti giocare a carte. Verso sera la Di Pietro bussò allo studio di mio genero e chiamò mio figlio: “Luigiuzzo vieni a mangiare”, al che il ragazzo si rifiutò dicendo: “ho paura di venire con te che vuoi farmi diventare pazzo”. La madre lo prese a viva forza facendolo entrare in casa e serrando la porta. Vistosi a mal partito, il ragazzo buttò per aria ogni cosa e la madre, gridando a piena gola, andò a chiedere aiuto a mio genero. Primi ad accorrere furono mio genero, mia figlia e il signor Deni il quale cercò di calmare il ragazzo, mentre la madre ancora inveiva dicendo: “domani ti mando al manicomio, domani ti faccio interdire, facchino… lazzarone…”. Queste parole fecero più accendere l’animo del povero Luigi, il quale cercò di opporre tutte le sue forze per non essere messo a letto dal Deni che di peso lo portava nella camera della madre e lo poneva sul giaciglio; le altre persone, cioè Benedetto e Mario Tommasi di Bartolomeo, Antonio Pirillo di Pietro, che erano rimasti nello studio, accorsero e mentre io, a fioca voce, dicevo: “Calmati figlio altrimenti quella ti manda al manicomio”, mio figlio diceva: “No… no… al manicomio non mi vedrai, muoio di crepacuore e di dolore, ma io ti maledico, brutta schifosa, che devi morire piena di pidocchi, brutta puttana del prete Carrieri!”, al che la Di Pietro, aperto il primo tiretto del cassettone, prese un revolver di grosso calibro e l’impugnò contro mio figlio gridando: “Lo sparo! Lo sparo!”, ma per l’immediato intervento del Deni, quella sera fu salvato. Il giorno dopo la Di Pietro, preso il figlio, lo accompagnò in casa della famiglia Carrieri. Il giovedì 20 dicembre mio genero, incontrato l’avvocato Luigi Aloe, lo pregò di avvertire l’avvocato Carrieri di restituire alla casa paterna Luigi. Intanto il signor Deni, incontrata per istrada la Di Pietro, l’avvertiva di portare a casa il figlio altrimenti la sorella ed il cognato avrebbero fatto quanto era nel loro diritto rivolgendosi alle autorità competenti. La Di Pietro, venerdì 21, fece ritornare a casa il figlio, dopo di aver pranzato dalla famiglia dei cocchieri coi quali tuttora coabita in Piazza San Giovanni.
Questa è un’accusa esplicita contro Carmela Di Pietro come assassina di suo figlio.
Ma chi sono l’avvocato Carrieri e il prete Carrieri, tirati in ballo da padre e figlia?
Il prete Pietro Carrieri – continua a raccontare il cavaliere Rende – fu uno dei più accaniti fautori dell’atto notorio per mandarmi, otto anni fa, al manicomio; aveva preso una tale padronanza nella mia casa – correvano voci di relazioni intime colla Di Pietro – sino al punto di imporre il matrimonio di mia figlia col fratello, avvocato Giuseppe ma il castello del prete fallì. Si badi che la Di Pietro, a soli dieci anni, voleva barattare la figlia per ricavarne illeciti profitti, come potrebbe mia figlia stessa testimoniare.
Da queste parole sembrerebbe proprio che Carmela Di Pietro sia una donna malvagia, ma l’avvocato Mancini non ci sta e contrattacca con accuse pesantissime:
Il sottoscritto nell’interesse di Carmela Di Pietro che fu spazzata dalla propria casa assieme al cadavere – ancora inulto – del proprio figliuolo, per l’opera delittuosa di un basso avventuriero – tal Daniele – che servendosi della deficienza di un infelice, debole e suggestionabile, ha portato la dissoluzione in una famiglia, si rivolge alla S.V. per chiedere giustizia per la morte del suo figliuolo. Vostra Signoria indaghi sugli atteggiamenti del Daniele. Su i suoi precedenti. Vostra Signoria pensi che se la morte fu delittuosa non vi può essere che un solo autore: colui che, piombato per loschi affari qui in Cosenza, speculò sulla facile bontà di una fanciulla. Penetrò nella di lei casa portandovi l’odio, la divisione e forse per ultimo il delitto. Egli è rimasto il solo padrone di casa Rende. Il Cav. Rende è in movimento giudiziario. La mente di tutto è il Daniele. Rende è l’automa che parla, si muove, protesta perché così vuole il Daniele, il quale con quello scomposto movimento giudiziario vuole precostituirsi un alibi o vuol creare un diversivo per qualche suo malefatto.
Che la linea difensiva di Carmela Di Pietro sia l’attacco frontale al genero lo conferma la lunga nota dell’avvocato Giovanni Serra, nel frattempo affiancatosi a Pietro Mancini.
Poi però accadono cose nuove, misteriosamente nuove. Il 5 gennaio 1918 in casa Rende ci sono gli amici più fidati, Agostino Deni e suo figlio Arnaldo, che insieme a Vito Daniele si mettono a frugare per casa e trovano, dietro la cassa baule, in un angolo vicino al balcone nella camera dove avvenne il decesso, un testamento del cavaliere Rende, strappato in mille pezzi: che sia quello che avrebbe consegnato Carmela Di Pietro alla vicina prima di andarsene?  Raccolgono ogni pezzo e lo consegnano alle Guardie.
Possibile che nelle perquisizioni precedenti nessuno l’abbia notato? Impossibile dirlo perché i pezzi di carta sono così malconci che risulta impossibile ricostruire il foglio. Il 26 marzo 1918, a tre mesi dalla morte del povero Luigi, compare sulla scena un martello che viene trovato dall’avvocato Vito Daniele. Anche questo è molto strano.
Le Guardie osservano nel loro rapporto che se detto martello si fosse trovato effettivamente nel punto indicatoci, sarebbe stato notato da noi quando abbiamo fatto la prima constatazione subito dopo la morte del Rende Luigi e mentre ancora il cadavere era nella camera; l’avv. Daniele Vito che era presente non ci parlò del martello in questione pur facendoci notare tante altre cosette di nessuna importanza. Dalla Prefettura si affrettano a precisare che il Funzionario sig. Cilento, incaricato dopo alcuni giorni di operare – per delega – una perquisizione nel domicilio dei famigliari del deceduto Rende Luigi, notò il martello presso il balcone, in un angolo, ma non credette opportuno di sequestrarlo perché non presentava alcuna macchia di sangue e principalmente perché esso martello nel primo sopraluogo non era stato notato. Quindi qualcuno toglie e mette un martello (forse dopo averlo ripulito) nella stanza della morte e il martello ora assume una rilevanza fondamentale nelle indagini perché i periti incaricati di effettuare l’autopsia consegnano al Procuratore del re una lunghissima relazione con risultati esplosivi:
I° La mattina del 22 dicembre 1917 il giovane Rende Luigi fu preso da un accesso epilettico, in seguito al quale si trovò cadavere nella sua camera da letto.
II° La morte di lui non avvenne per avvelenamento, né in seguito alle contusioni che gli si riscontrarono sul viso, né per emorragia.
III° La morte avvenne certamente per asfissia.
IV° L’asfissia non fu accidentale, causata dall’eccesso epilettico.
V° L’asfissia fu provocata, delittuosa, verosimilmente per opera di persona la quale, profittando di un momento in cui il disgraziato giovane trovavasi sotto l’accesso convulsivo, gli piombò addosso, gli otturò con la mano sinistra le vie respiratorie a mezzo dei panni che si trovavano sulla sedia accanto al letto, mentre con la destra, armata di un martello o di altro strumento contundente, gli produsse le varie contusioni riscontrate sul viso. Poscia, a meglio accreditare l’epilessia e a giustificare le contusioni, lo tirò fuori dal letto e lo lasciò cadere per terra. Infine pulì il cadavere, il pavimento e rimise tutti gli oggetti al loro posto.
Quindi ci sarebbe un assassino, o un’assassina, che circola liberamente per strada. Ma la relazione dei dottori Rodi e Tafuri suscita un’altra domanda a cui gli inquirenti dovrebbero dare risposta per capire chi può avere ucciso Luigi Rende. Quanto tempo è occorso a chi ha ucciso per completare tutte le operazioni che sono state ipotizzate?
Da come sono andate le indagini si capisce subito che i riflettori sono puntati principalmente su due sospettati: Carmela Di Pietro, che in teoria avrebbe avuto tutto il tempo necessario, breve o lunga che sia stata l’azione, per commettere l’omicidio ai danni del figlio e l’avvocato Vito Daniele, che ha miracolosamente trovato il martello dove prima non c’era, forse per coprire qualche sua malefatta.
Ma Daniele, secondo i Carabinieri, è risultato che, nel momento in cui si verificò la disgrazia, era assente ed alle ore 11 apprese la notizia da certo Tommasi Mario di Bartolomeo, d’anni 19 da Cosenza, mentre transitava per il Corso di Telesio di questa città unitamente a certo Deni Arnaldo di Agostino, d’anni 24 da Cosenza.
Resterebbe la sola Carmela a dover rispondere del reato, ma in Procura si traccheggia e in città sorgono sospetti circa misteriose protezioni di cui godrebbe la donna. A protestare per come vengono condotte le indagini è l’avvocato Ernesto Fagiani che rappresenta il cavaliere Rende. Il 30 luglio 1918 scrive al Procuratore del re:
Con vero sentimento di rammarico mi vedo costretto a protestare avverso sistemi nuovi e strani che presiedono alla istruzione dei processi penali.
Ieri un Vice Pretore, che da me denunciato alla S.V.Ill.ma, era obbligato ad ammettere di aver comunicati alla parte civile perfino gl’interrogatori d’una imputata d’omicidio, in spregio delle norme.
Oggi un nuovo inconcepibile fatto avviene a proposito di una procedura nella quale da tempo le omissioni più inverosimili vanno verificandosi a profitto di una donna gravissimamente indiziata di parricidio, sia in via specifica, sia in via generica.
La S.V.Ill.ma conosce che i periti nel processo per la morte di Luigi Rende han concluso unanimemente che egli sia stato vittima di un delitto, mentre non vi è dubbio che la sola autrice, capace di commetterlo, deve essere stata la madre Carmela Di Pietro, che certamente era sola con il figlio quando questi, secondo i periti, fu ucciso. Questa donna gode di un favore mai finora verificatosi a vantaggio di qualsiasi indiziato di delitto; chè anche dopo così gravi risultanze la si è lasciata perfettamente libera, non solo, ma Magistrati appartenenti al P.M. hanno pubblicamente affermato di non volere prestar credito alla perizia.
Nel frattempo Carmela presenta in Tribunale una nuova istanza per far interdire suo marito, ma questa viene rigettata e la donna è condannata a pagare le spese di giudizio. Il cavaliere Rende è perfettamente in grado di intendere e di volere.
Un paio di settimane dopo la dura lettera dell’avvocato Fagiani, si verifica l’effetto sperato e, visti gli atti e le conclusioni del Pubblico Ministero, il 12 agosto viene emesso un mandato di cattura nei confronti di Carmela Di Pietro con l’accusa di omicidio volontario.
Se mio figlio non è morto naturalmente, come affermano i periti, non io ma suo padre Alfonso Rende lo ha assassinato. Mio marito odiava mortalmente il figlio perché spurio e spesso lo minacciava usando anche vie di fatto. È vero che egli lo ha legittimato in seguito col matrimonio, ma ciò per le mie vive insistenze e non per sua spontanea volontà in quanto io non una ma più volte minacciavo di denunziare marito per maltrattamenti che egli usava verso mio figlio – poi continua negando ogni addebito. La stranezza è che nessuno le chiede che cosa ha fatto, con chi si trovava e dove era quella maledetta mattina del 22 dicembre 1917.
Il processo ha preso il suo verso e gli avvocati depositano memorie difensive in quantità industriale per dimostrare le proprie tesi davanti alla Sezione d’Accusa, chiamata a decidere circa il rinvio a giudizio o meno dell’imputata.
Entrando nel campo delle risultanze processuali deve subito dirsi che queste lasciano molti dubbi nell’animo di chi le scorra e non pare che le prove prodotte possano portare alla convinzione della responsabilità della Carmela Di Pietro. Invero, dato il delitto che le si imputa, e che rappresenta la manifestazione più alta della volontà criminosa, si devono pretendere prove ed indizi chiari, evidenti, che non possano lasciar luogo alla discussione, dei dati di fatto certi, incrollabili, delle testimonianze sicure, sulle quali non possa cadere il sospetto. Tutto ciò non si ha nella causa in esame: non solo manca la certezza, ma gli elementi portatici si prestano a tanto gravi obbiezioni per cui la conseguenza non può essere che la perplessità nella mente di colui che è chiamato a emettere un giudizio. Né il dubbio si limita alla sola prova specifica ma investe anche la prova generica. Chi legga, infatti, la relazione di perizia, attraverso tutte le incertezze di cui è cosparsa, e le divagazioni e gli sforzi per poter arrivare in qualunque modo alle conclusioni, non può ritrarre la convinzione che la morte di Luigi Rende sia prodotto di delitto: perciò non potrà farsi carico al magistrato se si permette di manifestare la sua titubanza malgrado si sia di fronte a conclusioni assolute e tale titubanza è giustificata dalla valutazione critica delle basi sulle quali esse si poggiano. Non può negarsi che l’astrusità di cui l’opinione dei periti è rivestita sia considerevole come quella che promana da persone fornite di speciali cognizioni tecniche: una tale opinione non può assurgere al valore di decisione, tanto da veicolare il giudice in modo che l’opera di questo diventi funzione meramente complementare quale sarebbe quella di applicare puramente e semplicemente la norma giuridica al fatto positivo o negativo stabilito dal perito. Considerato dal profilo giudiziario, il responso dei periti non può avere altro valore e carattere se non di semplice avviso: è dunque un elemento d’istruzione ed un mezzo d’indagine processuale come tutti gli altri, perciò il magistrato che pure ha facoltà di rigettare anche la prova testimoniale, se questa non sia convincente od appaia affetta da inverosimiglianza, conserva il potere di esaminare l’opinione dei periti e soprattutto di vedere se le premesse siano costituite da dati indiscutibili e non da elementi vaghi, indecisi, non consistenti e non resistenti alla critica più superficiale. Anche la morte per asfissia procurata e la teoria dei colpi inferti da mano estranea vengono criticate: secondo il Procuratore, dal momento che un solo testimone accennò al fatto che il Luigi anziché sul nudo pavimento poggiasse il viso sul gilet, confermerebbe che su di esso quindi il Rende, nei movimenti convulsi, ha potuto battere più volte il viso ed i panni hanno raccolto parte del sangue uscito dalle lesioni e può spiegare l’asfissia nel senso che essi premendo direttamente sul naso e sulla bocca hanno impedito il passaggio dell’aria.
Una reprimenda durissima del lavoro dei periti quella che fa il Procuratore Generale del re nella sua relazione alla Sezione d’Accusa. Che nella lunga relazione di perizia ci sia qualche arzigogolo di troppo è vero, ma è chiarissimo che tanto i Magistrati del Tribunale di Cosenza quanto quelli di Catanzaro non abbiano gradito il fatto che i dottori Rodi e Tafuri si siano spinti a ricostruire la dinamica dei fatti secondo il loro punto di vista. E la stroncatura sembra più un monito che una reale confutazione dei dati clinici forniti nella perizia: non permettetevi di invadere il campo delle indagini con le vostre dissertazioni da investigatori dilettanti. Il Procuratore del Re si spinge oltre, sempre nella stessa ottica: la perizia è stata resa così farraginosa senza alcun motivo, salvo quello di arrivare ad un numero enorme di vacazioni per un importo di oltre 3000 lire e quindi i periti sono quasi dei truffatori.
Da queste premesse non si può che arrivare a una sola conclusione: non doversi procedere contro la Di Pietro Carmela per insufficienza di prove.
Il 28 ottobre 1918 la Sezione d’Accusa, accogliendo le motivazioni del Procuratore Generale del re, proscioglie Carmela Di Pietro per insufficienza di prove e ne ordina l’immediata scarcerazione.[1]
Per insufficienza di prove.

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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