Ci sono storie che ti fanno male e che non vorresti raccontare anche se sai che è giusto che riemergano dall’oblio. Ci sono situazioni per le quali non trovi le parole, ce ne sono altre che ti fanno venire gli incubi, altre che ti danno la nausea. Ma poi racconti lo stesso.
Questa è una di quelle storie che non avresti nemmeno voluto leggere e che, per quanto ti sforzi, non riesci a buttare giù nemmeno due righe perché, signori, non è un racconto horror o noir che ti stai inventando di sana pianta, no, questa è realtà. E allora che fai se il pelo sullo stomaco si ostina a non voler crescere per attenuare la nausea? Decidi che le migliori parole, dirette e genuine, per raccontare tutto sono quelle vere dei protagonisti dei fatti, giudici compresi.
Da più tempo domiciliava in Santa Domenica Talao la famiglia del contadino Pizzi Francesco, oriundo di Chorio di S. Lorenzo, Provincia di Reggio. Negli ultimi tempi la famigliuola si componeva de’ genitori e di cinque figlie, Peppina, Vincenza, Fortunata e M. Carmela e l’ultima è intorno agli otto anni. In questi ultimi tempi aveva condotto in colonia un fondo di Seniso Giuseppe in contrada Magaroti, agro di S. Domenica Talao e la famiglia tirava innanzi col lavoro delle braccia.
Se non che le pareti domestiche di quella casetta colonica dovevano essere funestate da un delitto orrendo, che distrugger doveva dalle fondamenta quella società di persone vincolate tra loro dai più intimi legacci di sangue. Il capoccia della famiglia, quasi non potesse su quale altra bestia consumare le sue libidini, accanto al focolare domestico, al cospetto delle sue figliuole, sul cui volto aveva rappresentato se stesso, concepiva il macabro disegno di raccogliere lui stesso il fior del suo sangue (…).
– Sono Fortunata Pizzi di 17 anni, nata a Brancaleone e residente a S. Domenica Talao. Il giorno 23 dicembre decorso anno (1908 nda) mio padre si trovava nell’orto allorchè io mi portai la per falciare dell’erba e mentre ciò facevo egli mi chiamò con l’epiteto di sticchio, val dire nuda e pronunziò queste parole: Sticchio vieni qua. Io risposi: Che cos’è? Perché mi chiami così? E mio padre rispose che mi aveva chiamato a quella maniera per chiacchiera e senz’altro m’invitò ad acconsentire ch’io mi accoppiassi carnalmente con lui. Io rifiutai ed egli minacciò col dirmi che laddove non avessi consentito, un giorno me ne sarei pentita. Io non ebbi tempo di sottrarmi alle tentazioni, che il mio genitore mi diè uno spintone e mi fè cadere ai piè d’una pianta di cedro, mi alzò le vesti, si sbottonò i calzoni, cacciò fuori il membro e si congiunse carnalmente con me. Io presi a gridare, ma l’infame mi piegò alla colona dicendo che laddove avessi continuato a gridare mi sarei svergognata da me stessa. Mi ritirai nella casa colonica e quivi trovai la mia sorella maggiore Vincenza alla quale raccontai l’accaduto ed ella pianse ed al pianto accorse la mia genitrice cui la sorella raccontò il fatto e mia madre pianse e si percosse la faccia. La sera mio padre ritornò dal campo e trovò mia madre che piangeva ed egli chiese a me conto di quel pianto ed io gli risposi che avevo raccontato tutto alla mamma. Ed egli soggiunse: E perché tu hai raccontato il fatto alla mamma tua, io non ti darò più danaro. A proposito di danaro è a sapere che mio padre dopo essersi accoppiato con me mi prometteva che mi avrebbe dato la dote ma a patto che avrei dovuto consentire sempre alle sue voglie. Dopo tre giorni mio padre si congiunse nuovamente con me e poi un’altra volta dopo due giorni. Intanto in nostra casa fin da quella sera sono avvenuti continui litigi tra i miei genitori ed ora mia madre è fuggita e trovasi ricoverata in casa del Sindaco di Santa Domenica, costretta a fuggire per le minacce di morte fattegli da mio padre. Anche mia sorella Vincenza, dopo di me, venne deflorata dallo stesso genitore.
– Sono Vincenza Pizzi di 24 anni, nata a Melito Porto Salvo. Il giorno 19 del decorso gennaio io ero sola in casa in compagnia del genitore, il quale già sapevo che aveva avuto relazioni carnali con mia sorella più piccola a nome Fortunata. Il genitore, il quale non aveva mai voluto consentire ad alcun matrimonio, aveva concepito il disegno terribile di congiungersi carnalmente con me; e perché eravamo soli egli pigliando occasione del fatto che mi erano presentati diversi partiti di matrimonio, così prese a dirmi: Perché tu ti vuoi maritare? Tu invece puoi stare a casa insieme con me (cioè mantenendo relazioni carnali con lui); io ti darò cento, duecento lire, quel che potrò e ti farò come padre e marito. Durante che egli mi parlava io scesi nel vano sottostante ove è la pagliera, egli mi seguì e senza che io a tanto pensassi mi prese, mi gettò sulla pagliera, cacciò fuori il membro e si congiunse carnalmente con me. Quella sera io non parlai, ma due giorni dopo raccontai il fatto a mia madre e cominciarono a succedere le scene di pianto e di litigi con quello snaturato, finchè mia madre, gravemente minacciata, si è rifugiata con noi in casa del Sindaco. Mio padre si congiunse nuovamente con me per altre due volte con un intervallo di otto giorni per volta.
Francesco Pizzi viene arrestato dai Carabinieri di Scalea il 2 marzo 1909 e sottoposto a interrogatorio:
– Sono Francesco Pizzi, 51 anni, nato a S. Lorenzo (Chorio), residente a S. Domenica Talao, contadino, coniugato con Pizzi Caterina con sei figli, impossidente, incensurato, non militare, analfabeta. Due delle mie figlie più grandi si chiamano Vincenza e Fortunata e la prima è maggiore dell’altra. Un anno più dietro, non so come, concepii il disegno di possedere carnalmente la più grande, cioè la Vincenza, ed ebbi il coraggio di farle la proposta però ne ebbe ripulsa; non per tanto io non abbandonai mai il funesto disegno e di tanto in tanto, quando mi veniva fatta, rinnovavo la proposta ma la mia figlia ripulsava, sicché io cominciai a fare il broncio in casa. nel settembre e nell’ottobre decorso, finalmente io mi rivolsi direttamente a mia moglie ed invitai lei a mettersi per lo mezzo a persuadere non solo la Vincenza ma bensì l’altra più piccola a congiungersi carnalmente con me. E mia moglie promise che avrebbe interposta l’opera sua nefanda dicendomi che ad ogni modo tutto dipendeva dalle due mie figliuole. Mia moglie parlò colla Vincenza e colla Fortunata lo stesso giorno che io le feci la richiesta e n’ebbi in risposta che la Vincenza non era possibile possederla mentre ci era probabilità di poter possedere la Fortunata. Il giorno seguente mi trovavo nell’orto insieme colla Fortunata ed io le chiesi se la madre aveva fatto a lei ed alla Vincenza la mia proposta e la Fortunata mi rispose di si e mi disse in proposito che per la Vincenza non era a sperare, mentre essa Fortunata mi avrebbe dato il proprio onore se l’avessi vestita e calzata. Nell’orto stesso mi congiunsi carnalmente colla detta mia figliuola, subito dopo che mi rispose a quella maniera. Non le feci alcuna violenza o minaccia. Ciò avvenne nel decorso dicembre e possedei la mia figlia per altre due volte a breve intervallo. Poco tempo dopo la Fortunata raccontò il fatto alla madre cui poi lo riferii anch’io ed ella pianse e mi disse che poiché avevo fatto il danno avrei dovuto dotarla. Intanto era rimasta la Vincenza ed io non avevo mai abbandonato il disegno di possederla e non vi sarei riuscito se non fosse occorso quel che ora vengo a narrare. La mia prima figlia, che ha nome Giuseppina, è maritata con tal Sesinno Alfonso, il quale pure aveva concepito il disegno di possedere la Vincenza e per riuscire a tale scopo, si era messa come tramezzana la stessa mia figlia Giuseppina e la Vincenza fu persuasa a patto però che il cognato le avesse dato trecento lire. Però ci ero io; e certamente laddove fossi venuto a conoscenza della cosa, avrei fatto del chiasso ed allora per prevenire i miei scatti e le mie rampogne, la Vincenza si decise di darsi prima a me. Il venti gennaio mia moglie ra venuta a Scalea ed in casa mi trovavo io e la Vincenza ed i bambini più piccoli. Io nulla sapeva di quel che s’era stabilito tra la Vincenza e mio genero; nell’animo avevo sempre il desiderio di possederla e poiché l’occasione era propizia, chiesi alla Vincenza se la madre le avesse fatto la mia proposta ed ella rispose di si e soggiunse che era pronta a darmisi. Cacciò via i bambini e l’atto infame fu consumato. Il giorno appresso mio genero si congiunse carnalmente colla Vincenza, la quale si ebbe lire duecento e lire cento se li ebbe mia moglie cui furon date da mia figlia Giuseppina. Io poi venni a sapere il fatto e mi dolsi con la Vincenza e con mia moglie perché intanto la Vincenza mi si era data in quanto ella si era data a mio genero e per tenermi tappata la bocca. Cominciarono così le quistioni e son querelato.
I primi di marzo il Pretore di Scalea interroga di nuovo Vincenza, Maria Carmela, una delle sorelle più piccole e poi Caterina Pizzi, la madre delle ragazze.
Vincenza:
– La seconda volta che mio padre abusò di me fu nella stessa casa ove era mia madre e le altre mie sorelle. Egli m’impose di scendere giù nella pagliera minacciandomi perché altrimenti mi avrebbe costretta a fare la puttana. Mia madre non potè opporsi perché l’infame minacciò di ammazzarla. È falso che io mi sia data a mio padre per evitare che egli mi maltrattasse qualora fosse venuto a sapere che io avessi avuto rapporti con mio cognato Sisinno Alfonso. È vero che con costui dopo che venni violentata da mio padre ebbi una volta un accoppiamento e mi ebbi una ricompensa di lire duecento, ma non è vero, come ho detto, che mi dessi a mio padre per farlo tacere su questo fatto. Mio cognato mi diè le lire duecento in presenza di mia sorella Giuseppina, moglie di lui, la quale non pensò che me le diede per fini cattivi. Prima che avvenisse la mia congiunzione con mio padre, questi ebbe già a farmi delle proposte che io respinsi ed allora egli ne parlò con mia madre perché questa mi avesse persuasa ad acconsentire. E mia madre ebbe a parlarmi di questo fatto e mi disse che mio padre faceva delle insistenze presso di lei perché io avessi acconsentito alle sue brame, ma io avrei dovuto resistere; ad ogni modo il fatto dipendeva da me.
Caterina:
– Io non ho il coraggio di stare alla presenza di V.S. e di parlare del fatto gravissimo che à distrutto le basi della mia famiglia ed ha turbato la quiete pubblica di S. Domenica Talao. Mio marito con la prepotenza e la violenza ha tolto l’onore alle nostre due figliuole deflorando prima la più piccola a nome Fortunata e poi la più grande Vincenza. La Fortunata fu violentata il giorno 23 dicembre ed a me il fatto fu riferito dalla Vincenza il 26. il fatto avvenne nel nostro fondo colonico nella contrada Magaroti ove l’infame mio marito con violenza gettò a terra la ragazza e consumò la copula orrenda. Naturalmente io ne piansi forte, parlai del fatto alla stessa ragazza, che me lo confermò. Io non potei parlare di nessuna maniera di tal fatto perché lo sciagurato mio marito mi minacciava di tagliarmi la gola. Il detto mio marito aveva intanto concepito il suo disegno di togliere l’onore alla Vincenza la quale mi parlò della proposta che le venne fatta dal padre ed io la sgridai e la premurai di consigli. Però un giorno del decorso gennaio egli riuscì a deflorare anche la Vincenza. Già mio marito prima di possederla vedendo la riluttanza di lei, una volta ebbe a dirmi che non era il caso che Vincenza passasse a marito e dicendomi che era suo pensiero che ella rimanesse nubile in casa, dal momento che non aveva la dote. prima ancora che il fatto avvenisse mi disse pure un’altra volta che io tenevo la Vincenza conservata per i lupi più grossi, che le facevano la fessa più grande mentre lui aveva il cazzo più piccolo e perciò più piccola sarebbe l’apertura. Io gli risposi che i suoi erano pessimi pensieri.. non è vero che egli mi avesse incaricata di interporre l’opera mia verso la Vincenza e la Fortunata per persuaderle a congiungersi carnalmente col padre. È vero che la mia prima figlia maritata, Giuseppina, mi ha dato lire cento ma ciò non perché io mi interposi e persuasi la mia figlia Vincenza a congiungersi carnalmente con mio genero Sisinno Alfonso.
Maria Carmela:
– Mi chiamo Maria Carmela Pizzi e ho quattordici anni. In casa mia sono stati continui litigi tra mio padre e mia madre perché il primo a forza pretendeva di voler possedere carnalmente le mie sorelle Vincenza e Fortunata. E mio padre, un mese fa, anche a me ebbe a dirmi certa cose che io non capisco e cioè: un giorno eravamo in campagna e mi uscì un po’ di sangue dal naso e mi pulii con un lembo del sottanino. Mio padre vide il sottanino colla piccola macchia di sangue e disse a me: Ti sono venuti gl’incomodi. Io risposi: E che sono? E lui: Ebbene quando ti verranno poi un giorno ni ricriamu.
Poi è la volta di Giuseppina, la figlia maggiore, e di suo marito Alfonso Sisinni.
Giuseppina:
– Passai a matrimonio che fa cinque anni il 27 corrente (aprile 1909, nda) e tre o quattro mesi dopo il detto matrimonio io ero incinta e quantunque abitassi in S. Domenica Talao, pure andavo e venivo dal fondo Magaroti, tenuto in colonia da mio padre. Io mai potevo pensare che il mio genitore avesse mai potuto compiere cose infami proprio sulla mia persona e non ostante, le cose si avverarono in contrario senzo, chè, come ho detto, quando nel 1905 io mi trovavo al 3° o 4° mese di gravidanza, un giorno mi trovavo nel fondo Magaroti e ci era solo il mio genitore. Mentre andavo alla fonte e stavo piegata per pigliare l’acqua, mi sentii abbrancata dalla parte di dietro e mi vidi gettata a terra da mio padre. Io resistei, ma dovetti cedere alle sue voglie malvage ed il mio genitore si unì carnalmente con me, consumando interamente la copula. Di tal fatto io non tenni parola ad alcuno. Debbo ancora dichiarare che un anno prima, quando io ancora ero nubile, il detto mio padre mi fè proposta di volermi possedere carnalmente, ma io respinsi. Ora mio padre ha fatto alle due mie sorelle minori Vincenza e Fortunata quello che fece a me dopo maritata. Mio marito Sisinni Alfonso ha posseduto pure carnalmente la mia sorella Vincenza compensandola con lire duecento. Tal fatto io venni a saperlo posteriormente. Mia madre anche posteriormente venne a sapere il fatto. Una volta io diedi cento lire a mia madre per tenermele, sottraendole così allo sperpero che mio marito faceva del denaro. Non è vero che io insieme con mia madre abbia facilitato il congiungimento carnale tra mio marito e mia sorella.
Alfonso Sisinni:
– Il giorno 27 del decorso gennaio lavoravo nel mio fondo colonico in contrada Magaroti e quando fu sul mezzogiorno mia cognata Pizzi Vincenza mi chiamò nella vicina sua casa colonica ed io vi andai e la trovai sola, mentre i suoi genitori si trovavano nella parte inferiore del fondo a piantare dei cavoli. Premetto che la stessa mattina io avevo fatto proposta alla detta mia cognata di congiungermi carnalmente con lei ed ella mi aveva promesso che al mezzogiorno mi avrebbe data la risposta. Trovatala sola, le dissi che se si fosse congiunta con me le avrei dato cento lire ed ella mi rispose: Canà (cognato) se mi vuoi avere mi devi dare duecento lire. Io senz’altro apersi il portafogli e le diedi le duecento lire e sul letto de’ suoi genitori mi congiunsi con lei. però non la trovai vergine e sul momento tacqui, ma dopo cinque o sei giorni io mi andavo sempre più inquietando pel tiro che mi si era fatto, cioè che non avevo trovato vergine la mia cognata ed intanto avevo dovuto sborsare quella somma ed allora volli parlare con lei e trovatala nel fondo, cinque o sei giorni dopo il fatto le dissi: Canà (cognata) t’ho dato le duecento lire ma non l’ho trovata sana, ed ella mi rispose che il giorno prima che si fosse congiunta con me, il padre Pizzi Francesco si era congiunto con lei a forza nella pagliera. Mia suocera e mia moglie e mio suocero nulla sapevano del mio congiungimento colla Vincenza, non è vero che mia suocera si fosse cooperata in qualsiasi maniera per procurarmi il modo di congiungermi con mia cognata e come ho detto io non sapevo che la Vincenza si era congiunta col padre. A questo proposito aggiungo che io quando seppi ch’ella si era congiunta col padre, tacqui, mentre avrei fatto del chiasso se fosse stato un estraneo che si fosse congiunto colla Vincenza, la quale in tal caso avrebbe dovuto in qualunque maniera restituirmi le lire duecento. La Vincenza si tenne le lire duecento e il giorno seguente, che era di domenica, andò a depositarle alla cassa di risparmio e qui ho da dire quel che successe col mio suocero. Questi, la mattina della domenica, venne alla mia casa e voleva sapere da me quanto denaro avessi. Io gli risposi che egli non entrava nei fatti miei come io non entravo ne’ suoi ed andò via. a mezzogiorno, quando già mia cognata Vincenza e la madre eran tornate da S. Domenica, io andai a mangiare nella loro casa colonica e durante il pranzo mi accorsi che mio suocero stava molto disturbato perché già aveva sospettato che io mi ero congiunto colla figlia e stava anche disturbata mia suocera, alla quale la Vincenza aveva detto che si era congiunta con me. La sera di quella domenica, in casa di mio suocero, ci furono quistioni perché questi a forza voleva sapere quanto danaro io le avevo dato e mio suocero giunse sino a minacciare la Vincenza colla scure. In seguito, in casa di mio suocero ci furono continue quistioni perché il briccone voleva che la Vincenza si fosse data a lui esclusivamente e per tal fatto aveva trovato sempre modo di mandare a monte ogni progetto di matrimonio colla Vincenza. Durante questi disordini, mia suocera fu continuamente vittima della furia del marito, il quale non poteva più riuscire a congiungersi con la figlia e perciò maltrattava questa e la madre perché il satiro diceva che egli non poteva godere delle sue figliuole perché aizzate dalla loro madre.
Francesco Pizzi viene rinviato a giudizio il 14 agosto 1909. Il processo inizia il 14 novembre dello stesso anno e subito ai giudici, considerata l’enormità dei fatti, sorge qualche dubbio in riguardo alla pienezza delle facoltà mentali dell’imputato, quindi ordinano che Pizzi sia sottoposto a perizia psichiatrica dai dottori Cesare Elia e Antonio Rodi di Cosenza.
Il 27 febbraio 1910, i periti consegnano la relazione, in base alla quale risulta che:
1° – Pizzi Francesco in nessuna epoca della sua vita, cioè, né prima, né nell’atto in cui commetteva il delitto di cui è processo, né dopo, fu affetto d’alcuna forma di alienazione mentale.
2° – Similmente egli fu sempre immune, prima, al momento e dopo il delitto, da qualsiasi forma di neuropatia.
3° – deve quindi ritenersi che al momento in cui commise il delitto, il Pizzi trovavasi in uno stato d’integrità perfetta di coscienza, che gli concedeva la capacità psichica di valutare i motivi ed i danni, nonché la libertà piena delle sue azioni.
Il primo aprile 1910, la Corte d’Assise di Cosenza lo condanna a quindici anni di reclusione, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla privazione della patria potestà durante la reclusione e al risarcimento del danno verso le parti lese. [1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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