La domenica è giorno di messa e il 26 gennaio 1919 anche i fratelli Salvatore e Gennaro Fortino, nati a Dipignano ma residenti col resto della famiglia a Belsito, vanno a fare il proprio dovere dopo una settimana di lavoro nei campi. È mezzogiorno e nella piazza del paese gruppetti di persone chiacchierano del più e del meno stazionando nei pressi delle cantine o passeggiando avanti e indietro, come fanno Gennaro Fortino, che ha in bocca un rametto di rosmarino, e il suo amico Luigi Porta. Stanno parlando dei lavori da fare in campagna quando accanto a loro passa, a testa bassa, Angelo Valentino, che tutti chiamano Fiore.
Gennaro si toglie dalla bocca il rosmarino e sputa rumorosamente per terra. Fiore, che è ormai due o tre passi oltre la coppia di amici, si ferma di botto e torna indietro parandosi davanti a Gennaro:
– Per la Madonna! Tu non lo sai che quando passa la gente tu non devi sputare? – gli urla in faccia.
– Io non ho sputato a te! – gli risponde con lo stesso tono.
– Invece hai sputato proprio a me!
E da una parola all’altra i due vengono alle mani scambiandosi pugni e schiaffi.
A una ventina di metri dai due litiganti c’è Salvatore Fortino con i suoi amici e subito si accorge di ciò che sta avvenendo, così si precipita ad aiutare il fratello.
Suona troppo banale che una domenica mattina, a mezzogiorno, scoppi una rissa furibonda per uno sputo in terra, ma non è così. Per capire i veri motivi della zuffa dobbiamo tornare indietro di un anno, esattamente al 6 gennaio 1918, quando Maria Fortino, ventunenne sorella di Salvatore e Gennaro, appena compiuta la maggiore età, lascia la casa paterna per andare a convivere more uxorio proprio con Angelo Fiore Valentino, cedendo alle sue promesse di matrimonio. Appena scoperta la fuga succede un finimondo: i fratelli di Maria cercano Fiore per ammazzarlo e lavare così l’onta subita. Poi, dopo tre giorni, si viene a sapere che la ragazza è stata portata a casa del “rapitore” e le acque si calmano. La famiglia di Maria incontra Fiore e viene raggiunto un accordo per arrivare alle nozze. Ma Fiore fa slittare continuamente la data fatidica e i fratelli Fortino spesso mandavano a pregare il Valentino che mettesse in regola la sorella, sposandola regolarmente allo stato civile e Chiesa, ma questo non si curava di tale avvertenze. Pare però che, secondo la voce pubblica, le preghiere altro non siano che minacce belle e buone, talvolta accompagnate da una rivoltella sventolata sotto il naso di Fiore. Il problema è che a Maria questa situazione sta benissimo, infatti racconta: Io me ne andai volentieri a convivere col Valentino Angelo perché quei di mia casa, dopo ammesso costui in famiglia, trovavano difficoltà a farmi sposare. In altri termini, prima avevano detto di si e poi si erano senza motivo pentiti. Il Valentino mi ha trattato sempre bene e non è vero che non mi volesse sposare. Egli differiva le nozze appunto per indurre così i miei a darmi il corredo di uso. Ecco dove sta il problema: la dote.
Ma è ovvio che quello che pensa Maria non conta niente, l’onore della famiglia è calpestato e Fiore deve sposarsela. Chiariti i rapporti tra i litiganti, è naturale che lo sputo sia stato solo un pretesto, più o meno volontario, per aggiustare i conti.
Quindi, dicevamo, Salvatore Fortino si lancia in difesa del fratello contro colui il quale ha disonorato la loro famiglia. Da terra raccatta un sasso e lo picchia con violenza sulla testa di Fiore che barcolla e per non cadere poggia un ginocchio a terra. Salvatore lo afferra per farlo cadere ma, a questo punto, Fiore riesce a mettere una mano in tasca e a prendere la rivoltella di piccolo calibro, che porta con sé illegalmente. Parte un primo colpo che ferisce Salvatore all’addome; parte un altro colpo che va a vuoto. Salvatore, aiutato dal fratello, nonostante la ferita, riesce a disarmare Fiore, che nel frattempo ha cercato di scaricargli addosso l’arma, ma tutti e quattro i rimanenti colpi hanno fatto cilecca.
Adesso l’arma, ormai inoffensiva, è nelle mani di Gennaro che si tira in disparte. Salvatore, ferito, si accascia al suolo e viene aggredito nuovamente da Fiore. I due si avvinghiano in una lotta disperata, ma proprio in questo momento sopraggiunge un Carabiniere fuori servizio, Vincenzo Spina, che li separa afferrando Fiore Valentino il quale sanguina abbondantemente dalla testa; lo perquisisce ma, ovviamente, non gli trova armi addosso, poi lo lascia per perquisire Salvatore Fortino e Fiore non perde tempo per dileguarsi nella confusione generale.
Salvatore Fortino viene portato nella vicina farmacia del dottor Francesco De Bonis e qui ci si accorge che la ferita all’addome è piuttosto seria, quindi è meglio portarlo all’Ospedale di Cosenza. D’urgenza viene fatto chiamare Vincenzo Grandinetti che ha un carrozzino, con l’intesa che lo porti fino alla stazione di Piano Lago, dove il ferito sarà caricato sul treno delle 14,30 e poi accompagnato all’Ospedale dal Carabiniere fuori servizio, al quale è stata anche consegnata la rivoltella di Valentino. Arrivati alla stazione ferroviaria scoprono, però, che il treno è già passato e decidono che il ferito sarà portato in città a bordo del carrozzino. Grandinetti fa osservare al Carabiniere che il cavallo non ce la farà a sopportare a lungo il peso di tre persone e quindi decidono che Spina, affidata la rivoltella al cocchiere, tornerà in paese mentre gli altri due proseguiranno per l’Ospedale. Qui i medici osservano il ferito e decidono che è meglio ricoverarlo presso l’Istituto Chirurgico A. Casini per farlo sottoporre ad intervento chirurgico dal Professor Giuseppe Santoro, un vero e proprio luminare, Docente di Clinica Ostetrica e Ginecologica nella R. Università di Napoli, proprio quello che ci vuole per un intervento di chirurgia addominale!
Sono ormai le 17,00 quando Santoro visita il ferito e gli riscontra, in corrispondenza del quadrante superiore sinistro dell’addome, una ferita da arma da fuoco penetrante in cavità. Detta ferita ha solo il forame di entrata che presenta tutti i caratteri di una ferita prodotta da un’arma esplosa a bruciapelo e giudica che il ferito si trova in gravi condizioni, riservandosi la prognosi.
Nel frattempo, i Carabinieri di Rogliano, allertati, cominciano le indagini sul fatto e le ricerche del feritore che sembra essersi volatilizzato perché nessuno lo ha visto allontanarsi da Belsito.
Intanto le condizioni di Salvatore si aggravano di ora in ora e dopo tre giorni di agonia, senza che si sia potuto procedere all’intervento chirurgico, muore. La causa della morte è stata la peritonite acuta in seguito alla grave lesione, attesta il dottor Ettore Gallo dell’Istituto Casini.
Adesso il capo d’imputazione per Fiore Valentino viene cambiato in omicidio volontario. Di lui non ci sono ancora tracce ma i Carabinieri scoprono delle cose molto interessanti sul suo conto. Scoprono per esempio che, partito per il fronte del Monte Nero in Trentino nel 1916, fu riformato per epilessia il 30 giugno 1917 dall’Ospedale Militare di Verona e tornato a Cerva in provincia di Catanzaro, suo paese d’origine, prima che vi giungesse nel treno, da persone che conosceva, apprese clamorosamente che durante la sua assenza la moglie lo aveva tradito nell’onore con tal Pazzucco Vincenzo che si spacciava per suo cugino e non solo con costui, ma anche con un caporale dei RR.CC. con cui la sua donna si recava presso la riva del mare. Saturato di tante ingrate notizie e soprattutto preoccupato del caso di pubblicità che saliva fino a lui, e più ancora dal fatto che la tresca si era svolta sotto gli occhi della figlia, non mancò di esercitare per circa due mesi un certo controllo, finché il 31 agosto 1917, dopo di avere avuto dalla stessa donna la confessione della colpa, con varii colpi di rivoltella l’ammazzò. Scappò dalla provincia di Catanzaro e riparò presso una sorella della prima moglie. Quivi contrasse relazione con una giovane con cui procreò un figlio. Il problema, però, è che queste notizie non sono suffragate dall’ufficialità, infatti nel certificato penale richiesto dagli inquirenti non risulta alcuna imputazione per uxoricidio: che siano tutte fandonie messe in giro dai suoi vecchi paesani per screditarlo? A mettere le cose a posto ci pensa il Sindaco del Comune di Stalettì, in provincia di Catanzaro, il quale telegrafa al Pretore di Rogliano, che conduce le indagini sulla morte di Salvatore Fortino, per comunicare che Valentino Angelo Fiore corrisponde realmente all’autore dell’omicidio volontario in persona della propria moglie, Polito Maria, commesso in questo Comune il 31 Agosto 1917, all’aperta campagna con replicati colpi di rivoltella, rendendosi poscia latitante, senza più sapersi della sua esistenza.
Ecco spiegato il vero motivo del continuo rinvio delle nozze: se avesse richiesto i documenti necessari per il matrimonio al suo comune, le autorità avrebbero scoperto dove si nascondeva e lo avrebbero arrestato, altro che dote!
Piuttosto, a destare preoccupazione è un altro fatto, certo e documentato: la riforma dal servizio militare per epilessia.
Poi, otto mesi dopo dai fatti, il 25 agosto 1919, i Carabinieri rintracciano finalmente l’assassino e lo arrestano. Interrogato, conferma di essere stato riformato per epilessia e, soprattutto, di avere ucciso sua moglie, poi parla della sua relazione con Maria Fortino e dei contrasti che portarono alla lite con i fratelli di Maria
– A Belsito, per intercessione di tale Caterina Ferriolo, mi fidanzai con Maria Fortino. La famiglia di costei era contenta dell’avvenuto fidanzamento e mi aveva promesso una dote di circa 2.000 lire. Il contegno dei fratelli della mia fidanzata era molto strano perché mentre facevano di tutto per farmi trovare solo a solo con lei, poi non facevano che minacciarmi. Stanco di questo modo di agire, e sotto le pressioni della Ferriolo e della fidanzata, nel gennaio dell’anno passato la rapii. Intendevo ed intendo di sposarla ma per farlo aspettavo che mi dessero la dote promessa, il che i fratelli si rifiutavano di fare. Fortino Salvatore non ha mai mancato di minacciarmi tutte le volte che mi incontrava, ma io ho cercato sempre di evitarlo. Il 26 gennaio ultimo, disgrazia volle che incontrassi nella piazza di Belsito Fortino Salvatore e il fratello a nome Gennarino. Costui, come mi vide mi sputò sul viso. Protestai contro l’ingiuria atroce ma Fortino Salvatore e Gennarino mi furono addosso con l’altro fratello Peppino accorso e, chi malmenandomi, chi tirandomi, chi puntandomi la rivoltella, mi buttarono per terra, non senza prima avermi il Salvatore ferito alla testa. A terra, il Salvatore mi fu sopra ed io allora per difendermi, trassi la rivoltella che asportavo senza licenza. Il Salvatore se ne accorse e cercò di disarmarmi; fu nel fare questo che partirono per disgrazia due colpi, uno dei quali colpì il Salvatore…
Una disgrazia per legittima difesa, secondo Fiore. Ma l’uomo ha contro tutto il paese e alcuni testimoni denunciano il Brigadiere Michele Camarca che conduce le indagini perché avrebbe scritto nei verbali cose che nessuno ha mai dichiarato e che alleggerirebbero la posizione dell’imputato. Camarca si difende e alla fine ne esce pulito. Viene indagato anche il Carabiniere fuori servizio, Vincenzo Sacco, perché ha lasciato scappare Fiore ma anche questa indagine finisce nel nulla.
È chiaro però che la sorte di Fiore Valentino, dati anche i suoi tristi precedenti, è segnata: rinvio a giudizio per omicidio volontario.
Il 17 novembre 1920 comincia il dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Cosenza e la difesa eccepisce subito che l’imputato è epilettico e quindi insano di mente: serve urgentemente una perizia psichiatrica. A questa richiesta si associa anche il Pubblico Ministero ma le parti civili non sono d’accordo. Viene anche sentito il medico del carcere di Cosenza, Antonio Rodi, che dice di non aver notato che il Valentino avesse sofferto di convulsioni epilettiche o di qualsiasi malattia nervosa e che non è vero che l’avesse fatto piantonare dai suoi compagni. Poi ammette che pochi giorni dietro lo fece entrare in infermeria per un accesso. Il Pubblico Ministero lo incalza e il dottor Rodi aggiunge di aver chiesto spiegazioni al sottocapo delle guardie circa il piantonamento nei confronti del detenuto, piantonamento che non risultava però nei registri del carcere – quindi è evidente che sapesse dei problemi di Fiore – e le guardie si giustificarono dicendo che all’epoca del loro ingresso in servizio nel carcere di Colle Triglio, Fiore Valentino era già piantonato e loro non sapevano altro. Al fatto posso dare una possibile spiegazione, aggiunge Rodi, nella camerata del Valentino c’era una volta un pazzo ed io disposi il piantonamento. Dimesso dal carcere costui, i piantoni rimasero senza necessità. Questa è una mia supposizione.
Il Pubblico Ministero e la difesa dell’imputato però non si fidano delle dichiarazioni del dottor Rodi: vogliono vederci chiaro e oltre a esibire i documenti militari che attestano la malattia, portano sul banco dei testimoni quattro compagni di cella che giurano di avere assistito a frequenti crisi epilettiche di Fiore. Confortati da queste importanti testimonianze, insistono fino alla noia nella richiesta di perizia psichiatrica: quale che sia la verità, è logico pensare che le anzidette notizie non possono non avere impressionato i giurati e quindi s’impone la necessità di accertare se il Valentino sia affetto da epilessia o da altro male e, nell’affermativa, quale e quanta influenza potette esercitare nella consumazione del reato, tanto più che egli, in altra sede, dovrà rispondere dell’uccisione della moglie.
Il Presidente della Corte accetta quest’ultima osservazione e fa richiesta al Giudice Istruttore di far eseguire la perizia con le norme di legge e nel più breve tempo possibile.
Il 31 gennaio 1921 Fiore Valentino entra nel manicomio giudiziario di Aversa dove i dottori Filippo Saporito ed Emanuele Mirabella lo sottoporranno a perizia psichiatrica.
Si è affermata, fin dal primo giorno di degenza, una nota che, in mancanza di altre, sarebbe, forse, bastata da sola a svelare nel soggetto la personalità dell’epilettico, dal punto di vista del temperamento e del carattere, così esordiscono i periti nella loro relazione, intendiamo parlare di quella religiosità bacchettona, tutta materiata di esteriorità formali che è una delle particolarità più comuni di questa classe d’infelici, i quali ne fanno uno dei capisaldi della loro condotta e spesso anche una speculazione. Qui solo il Valentino si è ricordato di non trovarsi in piena regola coi doveri di cristiano e cattolico e ha preteso il sacramento della cresima, più che per vero sentimento e coscienza del suo valore, per assicurarsi il patrocinio di un altro ricoverato di cui è noto l’altruismo e la munificenza verso i compagni di sventura. Nella realizzazione di tale aspirazione il Valentino è stato così incalzante ed eccessivo ed inquieto da costringerne a secondarlo senza indugio. E mentre prima minacciava perfino di por fine ai suoi giorni, nell’atto della solennità della cerimonia fu raggiante di sodisfazione come individuo purgato di ogni colpa ed in perfetta regola con le norme della morale e del vivere civile.
Gli è che il Valentino è uno di quegli epilettici in cui la religiosità, ridotta a puro formalismo, tiene luogo di ogni principio di moralità e vi attingono anche la giustificazione delle malefatte e delle male faciende. Nel caso in ispecie, poi, il soggetto non manca di giustificarsi e consolarsi da un punto di vista etico tutto suo, rappresentandosi e ravvicinandosi innanzi alla coscienza tutti i particolari della sua vita e tutte le circostanze di fatto in cui è venuto a trovarsi che valgono a stabilire una proporzione equitativa tra le spinte criminali ed i crimini in cui è incorso. Quella cattiva condotta della prima moglie, come dalle persecuzioni e dai maltrattamenti incontrati nella famiglia della seconda donna gli sono sufficienti argomenti per spiegare il suo stato giuridico, gli danno quella tranquillità che conseguono facilmente coloro che riescono a convincersi e pretendono di convincere di essersi comportati contro le loro vittime come qualsiasi persona che si fosse trovata a fronte di condizioni identiche od analoghe. Nei meccanismi esplicativi di tali situazioni rivivono, anche a distanza di tempo, gli stati d’animo, d’ira e di collera che presiedettero, che prevalsero nei momenti storici particolari in cui gli elementi statici della mente si tramutarono in elementi dinamici criminogeni. Sono questi gli elementi di discriminazione clinico-diagnostica tra malattia e delitto che orienteranno i periti per le applicazioni medico-legali.
Saporito e Mirabella non hanno nessun dubbio nel classificare la forma epilettica di cui soffre Fiore come la forma più comune e concepita anche nel mondo profano alla scienza, l’epilessia volgare che è molto diffusa e costituisce nelle persone dei soggetti che la portano come uno degli spettacoli più ordinarii della vita sociale, il quale se non è indice di civiltà sta pure a denotare che tra gli epilettici cosifatti e la società civile è intervenuto un accomodamento pratico che, nel maggior numero dei casi, li rende relativamente compatibili nella compagine degli uomini medii; onde la società non se ne preoccupa al di là del senso di pietà che suscitano gl’infelici che ne sono affetti, nei momenti in cui snodano la loro miseria con gli attacchi che li incolgono nelle pubbliche e nei pubblici ritrovi.
Il dissidio e la intolleranza nasce allorché la convulsione e gli insulti, esorbitando dal puro campo motorio, invadono il campo psichico alterando la personalità dei soggetti fino ad identificarli con gli alienati.
I periti ritengono che la forma epilettica di cui soffre Fiore sia insorta nel 1917, all’epoca del servizio militare, non potendo dubitare della riforma specificamente motivata e che in ogni caso non può risalire a molto tempo prima, essendo nella fase in cui essa riveste ancora la semplice forma motoria con cui si è iniziata, tale da farla sospettare come forma grave e congenita. Di solito forme che compaiono tardivamente e conservano inalterata la loro fisionomia iniziale sono precisamente quelle forme che si connettono a fattori acquisiti, che sono ordinariamente fattori tossici e fra questi occupa un posto eminente l’alcoolismo. E Fiore è un uomo che non ha mai peccato di temperanza in tema di vino. Ma i periti non ritengono di approfondire più di tanto questo aspetto perché non ha rilevante valore pratico pei fini che incombono su di noi, ritenendo che dobbiamo giudicare di un uomo il quale è affetto da epilessia motoria senza frenosi o equivalenti psichici della stessa epilessia. E seguendo questa strada il problema medico-legale si semplifica giacché tutto si riduce a determinare se nei delitti imputati od imputabili al Valentino sia entrata in azione l’epilessia, ovvero la sua personalità, che egli riveste fuori dalle crisi del male.
Saporito e Mirabella sono sicuri che l’indipendenza dei fatti criminosi dal male epilettico è lampante. Il Valentino non aveva bisogno dell’epilessia per incorrere in quanto è incorso e in quanto sarebbe incorso. Stimoli interni e potenti sono concorsi a determinarlo nei suoi atti offensivi e lesivi della incolumità altrui; e quanto più quegli stimoli fossero per appalesarsi conformi alla descrizione che ne fa il soggetto, tanto più sarà per scaturire una equazione perfetta tra moventi ed azioni. Il 26 gennaio 1919, che il Valentino abbia sparato prima o poi, per volontà o per isbaglio, nel primo scontro coi fratelli Fortino o quando era stato già da costoro sopraffatto e giaceva al suolo immobilizzato dalle braccia dei contendenti, sono ipotesi che fanno variare la configurazione giuridica del reato, che mettono o tolgono valore a questa o quella ipotesi del Codice Penale, ma non interessano la medicina legale. Non è stata l’epilessia ad armargli la mano e lo dimostra Valentino stesso nel suo interrogatorio che è la documentazione più sicura dello stato di libertà e di coscienza che lo orientò e determinò. Non vi furono, in una parola, nella coscienza del Valentino, nell’atto in cui commise il reato, quelle disintegrazioni morbose che si verificano nella coscienza degli epilettici quando, spontaneo o provocato, interviene un attacco specifico del male. Non vi furono sdoppiamenti, bensì stati d’animo contenuti nella sfera della ordinaria capacità dell’individuo ad agire e reagire a norma delle esigenze dell’ambiente.
Ma la libertà degli atti e la coscienza degli epilettici, si chiedono i periti, possono risentire di un qualche influsso del male stesso, posto che il male sia qualche cosa di connaturato e compenetrato colla personalità?
E così rispondono al loro stesso quesito: Non v’è alcun dubbio sulla teoria che fa degli epilettici altrettanti anomali, anche quando non rivestano determinate forme di malattia. Non v’è dubbio che nel modo di pensare, di sentire, e soprattutto nel modo di reagire agli stimoli del mondo esterno essi costituiscono una varietà a parte del genere umano ed è pacificamente una varietà i cui connotati ricordano e spesso si confondono addirittura con quelli assegnati al così detto delinquente per costituzione.
Quello che si può ammettere è che avendo percepito l’atto [dello sputo, NdA] come un’offesa, l’idea dell’offesa suscitasse un’emozione così intensa da precludere la via ad ulteriori percezioni per l’antagonismo che intercede tra funzioni emotive e preattive.
Ma tutto ciò non costituisce la infermità, né costituisce uno stato mediano tra infermità e sanità nel senso della legge penale, perché è più daccosto agli stati dell’uomo medio normale che non a quelli del malato di mente. È uno stato intermedio ma che non sta nel giusto mezzo; uno stato che il legislatore nostro, a differenza di legislatori stranieri, non ha ipotizzato. L’appellativo di «grandemente» opposto alla parola «scemare» esige, per la conseguente discriminazione della responsabilità penale, una condizione psicologica che stia più vicina alla malattia, il che nel caso non si verifica giacché il Valentino, a parte ogni suo male, a parte ogni sua anomalia, ha agito sotto l’impero di circostanze che non avevano bisogno di attingere nulla alla fonte della epilessia, per quanto questa fosse una forza immanente e latente nella sua personalità. Si tratta, dunque, di una condizione che occorrerebbe valutare ad una stregua diversa da quella che contemplano i vizii di mente nel nostro codice, ad una stregua che non è prevista e che perciò ci impone di ricercarla per analogia. Solo questa ipotesi può accogliere le sfumature psicopatologiche, gli sprezzi biopatologici, i riflessi pallidi che la epilessia del Valentino ha proiettato sul suo reato e conduce ad un beneficio che si fa scaturire dal principio giuridico generale, che deve avere il suo corrispettivo nella medicina legale: in dubio pro reo. Qui non è il dubbio, ma una condizione psicologica che non rispecchia chiaramente e sicuramente la sanità mentale: una condizione che non permette, perciò, di dar carico completo del delitto all’imputato. Concludiamo, quindi, affermando che:
1° Valentino Angelo Fiore è affetto da epilessia convulsiva ma non ha alcuna forma definita ed apprezzabile di malattia mentale
2° Che la epilessia ha a lui conferite note particolari di temperamento le quali se non toccano il grado di malattia, costituiscono un’anomalia
3° Che il reato da lui commesso è indipendente dalla epilessia ma ne ha risentito l’influsso dell’anomalia, la quale era tale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla.
Angelo Fiore Valentino può tornare a sedere sul banco degli imputati, ma la eventuale condanna non potrà non tenere conto della perizia e la pena non potrà essere dura.
Il 6 febbraio 1923 la Giuria emette il verdetto: colpevole di omicidio volontario e, con le attenuanti suggerite dalla perizia psichiatrica, la pena è determinata in 7 anni e 6 mesi di reclusione, di cui 3 mesi condonati, 1 anno di vigilanza speciale, ai danni ed alle spese. Per quanto riguarda la contravvenzione per non aver pagato la tassa di possesso della rivoltella, la Corte dichiara estinta l’azione penale per amnistia.
Il ricorso in Appello verrà rigettato perché non furono presentati i motivi in conformità delle prescrizioni di legge e la condanna diventa definitiva.[1]
Non abbiamo notizie in merito ad un ulteriore procedimento penale a suo carico per l’uxoricidio commesso il 31 agosto 1917 nelle campagne di Stalettì.
[1] ASCS, Processi Penali.
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