LE ORIGINI DEL MALE

Serra di Caprio è una contrada posta proprio sul confine tra i comuni di Rose e Luzzi. Vi abitano una decina di famiglie, tutte dedite al lavoro nei campi, qualcuna originaria di Luzzi e qualcun’altra di Rose.
Serra di Caprio non è altro che una vallata costituita da due colline situate l’una di rimpetto all’altra e delle quali l’una sorge dove l’altra finisce. Il confine fra queste due colline è tracciato da un piccolo corso d’acqua che scorre longitudinalmente per tutta la lunghezza della vallata. Questa vallata è percorsa da uno stradello campestre, quale stradello partendo dalla sommità della prima collina verso Rose scende fino al punto più basso e quivi, intersecando il corso d’acqua, risalisce per la collina opposta.
La mattina presto del 19 aprile 1897, Lunedì dell’Angelo, due contadini percorrono lo stradello per andare a zappare come ogni santa mattina e, accanto al fiumiciattolo vedono un uomo steso per terra con evidenti segni di ferite alle spalle. Si avvicinano e capiscono subito che l’uomo è morto. Poi uno dei due quasi si stende a terra per vedere di chi si tratti
– Rocco! È Rocco Docimo! Vai a chiamare i Carabinieri!
I Carabinieri di Rose, accompagnati dal locale Pretore Santo Coppola, sono i primi ad arrivare e subito dopo sono raggiunti da quelli di Luzzi competenti per territorio perché il cadavere si trova al di là del confine comunale. Facendo i primi rilievi viene subito notato un particolare strano: si risultano nella arena inzuppata di acqua, per la distanza di cinque o sei metri, delle impronte di piede umano, calzato di scarpe, e per la stessa estensione delle macchie sanguigne. Misurate le dette orme, esse danno tre misure diverse: la 1^ misura in lunghezza centi etri 24, larghezza della pianta del piede centimetri 10, larghezza del tallone centimetri 6; la 2^ lungh. Cent. 26 ½ , larghezza della pianta cent. 10, largh del tallone cent. 8; la 3^ lungh, 26, largh. della pianta 10, largh. del tallone 8. Ciò sembra strano perché quelle impronte sono di misura diversa da quelle prese al cadavere ed è molto probabile che sul posto siano intervenute più persone oltre alla vittima, ma, al contrario, il Pretore e i Carabinieri deducono immediatamente che non è improbabile però che dette orme siano prodotte dal medesimo piede e che l’acqua sia stata causa di quelle variazioni. Inoltre, a qualche metro di distanza dal cadavere, sopra un grosso sasso, c’è il cappello della vittima. Più avanti ancora, ma qui non ci sono più tracce di sangue, all’imbocco di un sentiero, impigliato in un ramo spinoso, c’è un brandello di stoffa rossa quadrigliata di nero, presumibilmente staccatosi da un vestita da donna; un paio di metri oltre ci sono per terra una scure con tracce di sangue e un palo di legno grezzo insanguinato, che non poteva servire da bastone e neppure come il vincastro solito a portarsi dai pastori ma piuttosto a scopo di difesa e di offesa.
Potrebbe essere un vero rompicapo scoprire chi ha ucciso il ventenne Rocco Docimo con otto coltellate alle spalle, se non fosse che tutti sanno della sua grave inimicizia con un suo lontano parente, il contadino benestante Michele Cava, che viene immediatamente sospettato di essere l’autore dell’omicidio, tanto più che la casa di Cava non dista nemmeno cinque minuti di cammino dal luogo del delitto. A casa Michele non c’è e la perquisizione fatta alla presenza di sua moglie, Rosa Docimo, è infruttuosa.
Il motivo di questa inimicizia deve essere veramente grave se davvero avesse portato il quarantaquattrenne Michele Cava ad uccidere Rocco Docimo. Tutto nascerebbe quasi un anno prima, nel mese di maggio del 1896 quando Rocco fu arrestato per aver violato il domicilio di una parente di Michele, Lucia Caruso, e aver tentato di stuprarla.
Se non gli danno trent’anni lo ammazzo! – avrebbe detto pubblicamente Michele.
Ma Rocco, assolto in primo grado, si prese in Appello una condanna a 16 mesi e 10 giorni di reclusione col beneficio della condizionale, tornò in paese quasi subito e cominciarono le minacce incrociate tra i due.
Il pezzo di stoffa rinvenuto sul luogo del delitto porta gli inquirenti a sospettare che Michele possa essere stato aiutato a commettere l’omicidio dalla sua parente Lucia Caruso e anche la sua abitazione viene perquisita a fondo per cercare di rinvenire il vestito che sarebbe la prova della sua colpevolezza, ma in casa della giovane non c’è nemmeno un filo di colore rosso.
La mattina del 20 aprile i Carabinieri di Rose, accompagnati dal Tenente Giovanni Bona, vanno in contrada Serra di Caprio per proseguire le indagini e interrogare i vicini di casa di Michele Cava e mentre si accingono a perquisire l’abitazione del genero del sospettato, questi viene notato nelle vicinanze e i Carabinieri si lanciano subito al suo inseguimento, ma Cava riesce a dileguarsi, andandosi poco dopo a costituire nelle mani del Pretore, con il viso irriconoscibile per via di cinque ferite e dell’occhio sinistro pesto.
– La mattina di Pasqua venni in paese e andai a messa, poi andai nella cantina di Giorgio Dodaro e vi rimasi parecchio tempo bevendo con gli amici. Quando me ne andai ero brillo. Mi fermai prima a casa di mia figlia Luisa e poi in quella di Lucia Caruso che è in un caseggiato dove abita anche Serafina Longo, intima della mia famiglia. Quest’ultima mi trattenne a parlare con lei per un paio di ore. Partii da lì prendendo la via di casa che potevano essere le 21,00 e giunto in un punto dove la strada fa angolo, e per dove dovevo necessariamente passare per andare a casa, mi vidi colpito da un colpo di randello che partiva da un individuo nascosto dietro un cespuglio.
– Come quello? – gli fa il Pretore, indicando il palo rinvenuto sul luogo del delitto.
– Si, come quello… anzi, è proprio quello! – poi continua il racconto – Al primo colpo ne seguirono altri che io cercai di riparare, poco o nulla riuscendovi, con un piccolo bastone che io avevo tra le mani. Poi ci avvinghiammo io e quell’individuo, che alfine riconobbi per Rocco Docimo. In tale modo, non potendo egli più fare uso del randello abbastanza lungo, diede mano alla scure, proprio quella accanto al palo, vibrandomi un colpo alla tempia sinistra. Vistomi a mal partito e comprendendo che si giocava per la vita, estrassi di tasca un coltello a serramanico e con quello lo ferii, non ricordo se due o tre volte verso il fianco, lasciandolo per terra privo di sensi. Dopo mi introdussi in quel vallone che è alle spalle, esausto per il sangue che andavo perdendo e mi lavai alla meglio le ferite in quel rivolo che scorre in fondo ad esso. Il coltello lo gittai via facendo. A casa raccontai il fatto a mia moglie e all’indomani, per tempo, mi andai ad appiattare, sfinito di forze, in un cespuglio tra i miei fondi. Stamattina il mio primo pensiero è stato di cercare la compagnia di mio genero Gaetano Caruso e con esso, giacché temevo che per istrada mi mancassero le forze, costituirmi alla vostra giustizia
– Certo che stamattina privo di forze come eravate avete seminato anche i Carabinieri e siete arrivato qui senza svenire! – osserva il Magistrato, che continua – Ma ditemi, secondo voi, quali sarebbero stati i motivi che hanno spinto Docimo ad aggredirvi?
Rocco Docimo fu accusato di tentata violenza carnale e violazione di domicilio in danno di una giovanetta a nome Lucia Caruso. Assolto dal Tribunale, fu condannato dalla Corte d’Appello di Catanzaro a 16 mesi di reclusione. Da allora ha cominciato a spargere la voce che autore di quel reato fossi stato io ed essendomi io risentito, gli sarà giunto all’orecchio qualche parola di sdegno da me profferita e così ritengo che egli abbia giurato vendetta contro di me. Poi è accaduto che un cognato del Docimo, a nome Francesco Pirri, tentò un giorno del gennaio ultimo, in aperta campagna, di violentare mia figlia Luisa; l’hanno con me per avere io spinta essa mia figlia a dare querela pigliando una parte molto attiva. Né sono mancati altri litigi per pascoli abusivi tra me e la famiglia del Docimo. Essendosi poi fatta una denunzia al Procuratore Generale di Catanzaro nella quale si facevano delle rivelazioni circa l’aggressione patita dalla Caruso da parte del Docimo, costui ha ritenuto che autore di quella denunzia sia stato io, mentre fu mio genero Gaetano Caruso, zio della Lucia, dell’istesso cognome.
Il Pubblico Ministero ha molti dubbi sul movente indicato da Michele Cava, che avrebbe indotto Rocco Docimo ad aggredirlo, perché questi stessi motivi potrebbero valere anche per lo stesso Cava come movente per l’omicidio di Docimo. D’altra parte, i dubbi del Pubblico Ministero vengo alimentati anche dalle ricostruzioni che i Carabinieri di Luzzi e quelli di Rose fanno con due distinti verbali e che portano a conclusioni diametralmente opposte.
Verso le ore 20 circa del 18 andante, sulla montagna Serra di Caprio, territorio di Luzzi, per vecchi rancori, Docimo Rocco di Antonio d’anni 20, pecoraio da Rose, veniva proditoriamente ucciso mediante arma da punta e taglio con nove colpi alla schiena, scrive il Brigadiere Angelo Baroni, comandante della stazione di Luzzi.
Verso le ore 21 del 18 andante, il contadino Cava Michele fu Francesco, d’anni 44 nato a Rose e domiciliato sulla montagna Serra di Caprio, comune di Luzzi, mentre rincasava da solo, reduce da Rose, passando per un profondo burrone in territorio di Luzzi, veniva, per precedenti rancori, proditoriamente assalito dal pastore Docimo Rocco, di Antonio, d’anni 20 e dallo stesso percosso alla testa con un palo. Il Cava, a tanto, fu subito addosso al Docimo, quindi fra i due vi fu accanita lotta nella quale il Cava, estratto un coltello indistinto, vibrava vari colpi all’avversario, scrive invece l’Appuntato Pompeo Demaldè della stazione di Rose.
Omicidio premeditato nel primo caso, legittima difesa nel secondo e la differenza non è lieve!
Ad aggrovigliare ancora di più la matassa arriva un esposto del padre di Rocco Docimo col quale accusa apertamente Rosa, la moglie di Michele Cava, di aver partecipato attivamente all’omicidio del figlio Rocco: quando quest’ultimo [Michele Cava] assassinò il figlio del ricorrente, era accompagnato dalla sanguinaria sua moglie Docimo Rosa di Gennaro, la quale, in quella sera in cui avvenne il misfatto, si mosse dalla sua casa colonica armata di coltello a manico fisso – uso macello – e si diresse verso la torre abitata da Longo Serafina detta Crelaco, passando e ripassando pel luogo nel quale avvenne l’omicidio, nella esecuzione del quale essa si cooperò. E per avvalorare la sua dichiarazione indica tredici testimoni che possono ragguagliare sui fatti. Antonio Docimo racconta anche altre questioni sorte tra la sua famiglia e quella di Michele Cava: Circa tre anni addietro mio figlio maggiore Giovanni aveva intenzione di sposare una delle figlie di Michele Cava ed anzi io stesso ne feci a lui la formale richiesta ma ne ebbi in risposta che già eravamo parenti e che non intendeva di accrescere la parentela con questo matrimonio. Fra me e Caruso Gaetano, genero di Cava Michele, nel luglio scorso nacque questione per certa acqua della quale egli pretendeva il possesso. Si fu in quella occasione che il Caruso uscì in minacce dicendo che io avrei dovuto piangere lagrime di sangue. Poi fa al Pretore di Rose una strana richiesta: Prego infine di voler proibire al guardiano delle prigioni di fare entrare in esse bevande alcooliche, cibi e pranzi ed altri oggetti di panno e letti casarecci perché la moglie del Cava in tutte le ore si reca dal marito.
Che ci sia qualcosa di strano nelle varie ricostruzioni fatte dell’accaduto è evidente e il Pubblico Ministero pone alcuni quesiti che dovranno essere sciolti dal Pretore di Rose: in primo luogo è necessario accertare cosa ci facesse Rocco Docimo a quell’ora su quella stradina abbastanza lontana da casa sua; in secondo luogo i Carabinieri dovranno chiarire quale delle due loro versioni sia la più attendibile; in terzo e ultimo luogo bisognerà stabilire la provenienza del lembo di stoffa rossa quadrigliata di nero.
– Quella sera mio figlio custodiva il gregge vicino casa, ma quella sera doveva andare a cantare assieme ad altri e cioè con Carmine Bria ed ecco perché si trovava in quella località dove poi fu rinvenuto morto – afferma Rosa Bria.
– Non è vero che Rocco era d’accordo con me per andare a cantare la canzone alla sua innamorata la sera di Pasqua. Saremmo dovuti andarci la sera prima ma lui non venne. Mi ha detto il padre di Rocco che fu lui a non dargli il permesso il sabato sera e che Rocco avrebbe voluto andarci la domenica e così era sulla strada per venirmi a chiamare ma se sia vero o meno io non lo so – smentisce Carmine Bria.
I Carabinieri alla fine dichiarano di propendere per la versione che vuole Michele Cava avere aggredito e ucciso proditoriamente Rocco Docimo, ma nessuno è in grado di stabilire a chi appartenga il lembo di stoffa trovata sul luogo del delitto. Non si fa più nemmeno accenno alle tre impronte sulla sabbia del fiumiciattolo.
La faccenda è così contorta che tra testimoni a carico e testimoni a discarico vengono raccolte 98 dichiarazioni e fatti una decina di confronti, ma non se ne esce. Anche se restano molti dubbi, l’unica certezza è che tra Docimo e Cava ci fu una violenta colluttazione. L’istruttoria viene chiusa e il Pubblico Ministero nella sua relazione al Procuratore del re di Cosenza ritiene essere sufficienti le circostanze che non è lecito dubitare della volontà omicida se si ha riguardo ai precedenti di inimicizia, al numero ed alla sede dei colpi. Ritenuto essere inattendibile l’accampato stato di legittima difesa perché il Docimo, giovane forte e robusto com’era, armato di scure, se avesse aggredito il Cava, come costui pretenderebbe, più che soccombere lo avrebbe ucciso e perché il Docimo fu ferito alla regione del tergo, il che importa che non aggredì ma fu aggredito dal Cava.
Anche la Sezione d’Accusa condivide questa impostazione e, il 27 agosto 1927, Michele Cava viene rinviato a giudizio per omicidio volontario.
Il dibattimento viene fissato per il 25 ottobre successivo e dopo due giorni di udienza la Giuria ritiene che Michele Cava ha agito per legittima difesa e lo assolve.
Tutto finito? No!
Passa un anno e l’8 ottobre 1898 sul tavolo del Procuratore del re presso il Tribunale di Cosenza arriva un esposto a firma di Antonio Docimo che accusa: [Michele Cava] dopo pochi giorni uscito dal carcere, avendo fatto dei banchetti ed avendo molto bevuto, ubbriaco com’era incominciò a parlare dell’omicidio, tanto il detto Cava Michele quanto il figlio Giuseppe dissero “Se non eravamo in tre (cioè il padre, il figlio e la moglie Docimo Rosa) non lo potevamo fare perché di uno non aveva paura”. Per conferma di ciò il ricorrente offre i seguenti testimoni: 1. Francesco Smeriglio; 2. Domenico Intrieri.
Le indagini vengono riaperte a carico dei tre e assegnate al Pretore di Rose, coadiuvato dal Brigadiere Andrea Voltolini, comandante della stazione di Rose, il quale mette a verbale che il padre dell’ucciso Docimo più di una volta ci venne a dire che suo figlio non poteva essere stato ucciso dal solo Cava e riteneva per fermo che vi doveva essere il concorso di altre persone. Tali manifestazioni ci vennero fatte dopo l’esito del dibattimento. In conseguenza di simile denuncia abbiamo proceduto a minute opportune investigazioni, in forza delle quali potemmo sapere che in un giorno del mese di marzo u.s. certo Smeriglio Francesco di Michele, d’anni 17, mentre trovandosi in campagna a guardare le capre al pascolo, venne a parlare dell’omicidio col figlio del ripetuto Cava a nome Giuseppe, di anni 14, il quale gli confidò che all’omicidio stesso egli ha pure presenziato, che suo padre mentre manteneva abbracciato il defunto Docimo, la di lui madre, Docimo Rosa di Gennaro, di anni 53, inferiva lui due coltellate e ciò la sera del 18 verso un’ora di notte e che la successiva mattina del 19 aprile precitato, andarono di buon’ora tutti e tre sul posto ed avendo trovato il Docimo ancora vivo, lo finirono con altri colpi di coltello. lo Smeriglio dice di avere avuto si fatta confessione dal Cava Giuseppe perché costui gli disse di non avere più timore di compromettersi essendo stata fatta la causa. Continuate con interessamento le indagini potemmo altresì appurare che nel mese di giugno p.p. certo Intrieri Domenico fu Umile, d’anni 37, parlando in una via di questo paese dell’omicidio in parola col Cava Michele, costui gli confidò che non sarebbe riuscito di uccidere il Docimo se non fosse stato aiutato dalla propria moglie sopra menzionata. Lo Intrieri ci aggiunse che quando ebbe tale confessione il Cava era alquanto brillo.
Dopo 3 giorni, Voltolini mette a verbale altre notizie interessanti: questa mane, mentre ci trovavamo di servizio in contrada Serra di Caprio ove avvenne l’omicidio stesso, da persone interessate siamo stati informati come il detto Cava Michele fu Francesco, d’anni 44, verso le ore 17,30 del 26 andante, in detta contrada Serra di Caprio si abboccò colla moglie dello Smeriglio Francesco a nome D’Andrea Luisa, d’anni 17, alla quale rivolse le seguenti parole, avendo saputo che lo Smeriglio medesimo aveva deposto come testimone nanti questa Pretura in merito all’omicidio in questione: “Se tuo marito non starà zitto e non si farà gli affari suoi, io farò fare lui la stessa morte che fece Rocco Docimo”.
Viene rispolverata la storia del lembo di stoffa rossa quadrigliata di nero e il venditore ambulante che la commercia si dice sicuro di averne venduto un taglio a Rosa Docimo, circostanza confermata da Pasquale Bria che assicura: Vidi indosso a Docimo Rosa un giubbotto di “pellungino” rosso e nero simile al pezzo di stoffa che mi fu mostrato. C’è anche una testimone che assicura di aver sentito dire a Rosa, il giorno prima del fatto, una frase sibillina: Non aver paura di incontrare Rocco se sei con me perché me lo mangio a frangionate (a unghiate. Nda)!, ma nessuno parla più delle tre impronte di scarpe trovate sul luogo del delitto.
Il quattordicenne Giuseppe Cava, indicato da vari testimoni come un ragazzo svelto che sa quel che dice ed agisce con discernimento, viene convocato in Pretura e si difende strenuamente dicendosi estraneo ai fatti e assicurando di non aver mai parlato del fatto con Smeriglio Francesco. Se il suo accusatore dice quelle cose, lo fa perché è stato comprato dal padre dell’ucciso, che non lascia mezzi intentati per vendicarsi sulla mia famiglia. Anche sua madre, Rosa Docimo si difende con forza negando di aver preso parte all’omicidio, di aver pronunciato frasi minacciose riferendosi alla vittima e di non aver mai portato un corpetto rosso con righe nere di cosiddetto pelluncino. Poi difende suo figlio e anche lei sottolinea che se Francesco Smeriglio dice di aver ricevuto delle confidenze da Giuseppe, lo dice in virtù dei rapporti intimi tra di lui e la famiglia dell’ucciso, la quale non ha lasciato mezzi intentati e pure dopo lo svolgimento del processo per comprare dei testimoni a fine di complicare anche me nel procedimento.
Ma le parole di Francesco Smeriglio sono confermate da altri due testimoni che si trovavano sul posto proprio nel momento in cui Giuseppe avrebbe fatto la rivelazione all’amico e tutto sembra andare nella direzione auspicata dalla famiglia di Rocco Docimo. Sembra. Sembra perché all’improvviso si scatena il finimondo: spuntano come funghi testimoni che giurano di essere stati avvicinati da Antonio Docimo e sua moglie per convincerli a giurare il falso e anche Francesco Smeriglio si presenta davanti al Pretore per ritrattare la propria deposizione:
Debbo confessare la mia debolezza qual è quella di non aver saputo resistere alle insinuazioni di Docimo Antonio che mi ha indotto a dire cose non vere, mentre la verità gli è che non ho mai parlato dell’omicidio di Docimo Rocco con Cava Giuseppe, né mai ho avuto da lui nessuna confessione circa la sua partecipazione e quella della madre nella perpetrazione del reato – poi si spinge oltre e accusa altre persone di essere dei falsi testimoni.
Emerge dalle indagini che Pasquale Morano, sagrestano del convento di Sant’Antonio da Padova, ha tirato la cabala per vedere la scena dell’omicidio di Rocco Docimo e ha rivelato ai genitori della vittima che all’omicidio hanno preso parte anche Rosa Docimo, Giuseppe Cava e Gaetano Caruso, genero della donna.
Michele Cava querela Antonio Docimo e sua moglie per subornazione di testimoni.  Antonio Docimo querela a sua volta Michele Cava accusandolo dello stesso reato di cui è accusato dal rivale e le accuse reciproche tra testimoni, accusatori ed accusati rischiano davvero di provocare una guerra fratricida in paese. Tutto il procedimento penale si ingarbuglia in modo inestricabile: non bastano più di cento deposizioni, una decina di confronti e altrettanti esposti e memoriali per rimettere ordine alle cose.
Ma poi prevale la ragione e ci si rende conto che tanto Michele Cava quanto Antonio Docimo usano dei mezzi onde fare deporre ai testimoni quello che vogliono, come si ritiene nel pubblico, perciò è convinzione generale che i detti dei testimoni che entrambi danno in nota non siano l’espressione della verità, ma rappresentano il loro volere, sintetizza il teste Pietro Docimo.
In queste condizioni l’esito del procedimento sembra indirizzarsi verso un nulla di fatto e Antonio Docimo presenta un altro esposto col quale denuncia che i testimoni da lui indicati non sono escussi serenamente e pazientemente e delle dichiarazioni che potrebbero rendere poco o nulla si ascolta e si raccoglie. I testimoni Nicola Amendola e Domenico Intrieri sono pronti a dichiarare dinanzi a qualunque persona che essi volevano raccontare tutti i fatti a loro conoscenza e che non hanno potuto farlo perché si è ritenuto inutile ascoltarli. Inoltre il Brigadiere di Rose e il Carabiniere Loreto, che erano stati indicati dal sottoscritto come testimoni perché sono in conoscenza di moltissime circostanze rilevantissime, non sono stati interrogati sui veri fatti della causa e specialmente sulle rivelazioni avute dal testimone Smeriglio, che ora è stato subornato dai prevenuti che lo hanno preso al loro servizio.
E forse non ha tutti i torti, infatti Nicola Amendola e Domenico Intrieri adesso vengono interrogati e sono gli unici testimoni che non cambiano versione. Intrieri continua a sostenere di avere ricevuto da Michele Cava le confidenze circa le modalità e le responsabilità dell’omicidio di Rocco Docimo, così come Amendola sostiene di avere ricevuto le confidenze di Rosaria Cava, figlia di Michele, secondo la quale nel delitto sarebbe implicato anche il proprio marito, Gaetano Caruso. Ma, con la confusione che c’è sui testimoni comprati, sono davvero credibili? È questo il dubbio degli inquirenti. Di certo non si dovrebbe sospettare dei due Carabinieri i quali possono portare come prova il rapporto nel quale evidenziano la circostanza di avere saputo delle rivelazioni di Giuseppe Cava a Francesco Smeriglio ben prima che Antonio Docimo avesse presentato la denuncia, circostanza, questa, per altro confermata da Pietro Docimo e Rocco Pirri i quali continuano a sostenere di avere appreso le confidenze di Giuseppe nel mese di aprile e di averle raccontate ad Antonio Docimo solo successivamente.
In questo frattempo Pasquale Docimo, altro figlio di Antonio, trova il tempo di malmenare colui il quale, nel bene e nel male, è il testimone chiave del Processo, Francesco Smeriglio e si becca una condanna a cinque giorni di reclusione.
È il colpo di grazia all’istruttoria: la Procura del re di Cosenza invia gli atti alla Procura Generale del re di Catanzaro con la richiesta di non farsi luogo a procedere nei confronti di Giuseppe Cava e Rosa Docimo.
Scrive il Procuratore Generale associandosi alla richiesta:
Osserva che il convincimento pel concorso di Giuseppe Cava e di Docimo Rosa nell’omicidio di Docimo Rocco è rimasto profondamente scosso dalle contraddittorie affermazioni, dinieghi e mancanza di sincerità da parte dei testimoni escussi. Gli elementi di prova notati coll’opposizione di questo Ufficio hanno perduta ogni importanza per le sollecitazioni ricevute dai genitori dell’ucciso sopraeccitati dal desiderio della vendetta.
È vero che la condotta del padre e figlio Cava e di Docimo Rosa non fu corretta, e fecero del loro meglio per difendersi dall’accusa, ma essa è più sensibile di quella dei coniugi Docimo e Bria.
Che pertanto è il caso di confermare l’ordinanza della Camera di Consiglio del Tribunale di Cosenza.
Detto, fatto. Il 29 settembre 1899 la Sezione d’Accusa proscioglie gli imputati per insufficienza di indizi di reato.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.
Ricostruire questa vicenda è stato molto difficile perché gli atti sono dispersi in quattro faldoni diversi.

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