Sono le dieci di mattina del 14 novembre 1916 quando Silvia Venere bussa alla caserma dei Carabinieri di San Marco Argentano, tenendo per mano suo figlio Mario di 11 anni. I due sono abbastanza scossi e il Maresciallo Rivoiro, che conosce bene la donna, prima di sentire cosa ha da dirgli, li fa sedere e fa portare loro dell’acqua. Silvia tira un lungo respiro, poi comincia a raccontare:
– Come sapete, mio marito Francesco Ranoia cinque anni addietro circa fu dimesso da una casa penale ove scontò due anni di reclusione per violenza carnale contro natura su di me ed in seguito a querela da me sporta. Partita poi io nel 1913 per una casa di pena a scontarvi tre anni di reclusione per mancato omicidio commesso sulla sua persona, egli incominciò da quell’epoca ad abusare del nostro figliulo Mario, che contava in allora otto anni, commettendo su di lui nella propria abitazione, mediante violenza e minaccia, atti carnali contro natura. Tali nefandezze, malgrado le grida di dolore del povero ragazzo, si compirono ugualmente quasi ogni notte e qualche volta anche di giorno e continuarono sino al 12 luglio scorso, epoca del suo richiamo alle armi. Successivamente l’oltraggiato fu affidato alle cure di una di lui mantenuta di questo paese, dalla quale, essendo stato maltrattato, fuggì presso un lontano parente in quel di Altomonte dove fu rintracciato e consegnato, or sono tre giorni, a me, ritornata appositamente da Montalbano Ionico ove faccio la domestica. In questi tre giorni di convivenza, il mio ragazzo mi ha raccontato l’odissea di tutte le sozzure ed oltraggi subiti dallo snaturato padre durante tre lunghi anni, precisando che ancora oggidì, sebbene sia passato del tempo, egli avverte dolori nelle parti anali, massime durante le sue defecazioni. E poiché io stessa dovetti, in passato, subire con violenza i medesimi oltraggi, ritengo rispondente a verità il racconto di mio figlio che, a suo dire, non palesò mai ad alcuno tali offese per le gravi minacce del padre.
Rivoiro si passa le mani sul viso e cerca di abbozzare uno sguardo di compassione ma si gira subito verso un suo sottoposto per farsi portare, anche lui, un bicchiere d’acqua.
– State tranquilli – li rassicura – faremo di tutto per risolvere la questione.
Lui conosce ogni particolare delle violenze subite da Silvia e crede fermamente al racconto fattogli, così prende carta e penna, relaziona al Pretore e partono le indagini.
Vengono sentiti i vicini di casa che ripetono sostanzialmente la stessa cosa:
Ho avuto occasione di sentire continuamente gridare il figlio di costui, Mario, vittima dei maltrattamenti del padre.
Sentivo che quasi tutte le notti il ragazzo Mario gridava, ma io ne ignoravo il motivo. Qualche volta ho interrogato il ragazzo ma lo stesso, per timore del padre, non diceva nulla.
Il padre non lasciava quasi mai solo il figlio e quindi non era agevole parlare con lo stesso.
Una notte ho inteso il ragazzo dire piangendo: Basta, papà!
Vidi il ragazzo Mario Ranoia con parte della faccia tumefatta ed avendogli chiesto che cosa gli fosse successo, mi rispose che l’aveva percosso il padre. Io gli suggerii di andare a denunziarlo ai Carabinieri ed egli mi rispose che non poteva farlo perché altrimenti il padre lo avrebbe ammazzato.
Un giorno, mossa a compassione del ragazzo, andai a casa del Ranoia per chiedergli che cosa avesse il figliuolo che piangeva forte ed egli mi rispose che non aveva voglia d’imparare la lezione e, in così dire, alla mia presenza prese un pezzo di legno e cominciò a percuotere il ragazzo.
Quindi in molti hanno sentito il pianto di Mario e sanno che il padre quotidianamente lo batteva selvaggiamente, ma nessuno sa, o dice di non sapere, degli abusi sessuali. La prima a parlarne è Gennarina Pacello, la mantenuta di Francesco Ranoia, che cerca di alleggerirne la posizione:
– Ho convissuto more uxorio con Ranoia Francesco per circa dieci mesi e cioè fino a quando non è stato chiamato sotto le armi ed in tale periodo di tempo ho preso cura del figlio del Ranoia, Mario, che conviveva con noi. Un giorno, parmi nel Gennaio di questo anno, siccome era giunto al mio orecchio che il ragazzo era stato violentato dal padre, io dimandai a lui se ciò fosse vero ed il ragazzo mi rispose affermativamente. L’indomani, però, avendo nuovamente insistito col ragazzo perché mi dicesse la verità, egli negò che il padre l’avesse violentato, ma mi disse che il padre si era limitato a mettergli il membro tra le cosce, senza introdurglielo nell’ano. Diverse volte il Mario Ranoia, sempre durante la mia convivenza col padre, si allontanò da casa rimanendo fuori per diversi giorni e quindi non è improbabile che altri gli abbia usato violenza.
In verità altri testimoni negano di aver mai sentito piangere Mario e qualcuno si spinge ad affermare che le accuse del bambino siano state fatte per istigazione di sua madre.
Il Pretore dispone una perizia medica, della quale viene incaricato il dottor Ernesto Sarpi, il quale certifica che Mario presenta l’orifizio anale alquanto divaricato ed imbutiforme. La mucosa apparentemente è rosea con le pliche non del tutto scomparse. Divaricando le stesse si rilevano due sfrangiature. Tali sfibramenti o lacerazioni datano da epoca non remota, giacché le stesse hanno un alone iperemico marginale e sanguinano facilmente. Giudico che il Ranoia ha subito congiungimento carnale in data non superiore a due mesi e che perdura tuttora la malattia locale. La violenza c’è stata, ma qualcosa non quadra. Se i segni della violenza risalgono al mese di settembre, non può essere stato il padre a compierla perché è al fronte dal mese di luglio e con questa perizia la deposizione della mantenuta è confermata e le cose per Francesco Ranoia sembrano mettersi bene: Mario ha mentito. Il Giudice pensa bene di farsi ripetere il racconto che ha già sentito e chiedergli delle spiegazioni.
– Dopo che hanno arrestato mamma sono rimasto da solo con papà. Un giorno mi sbottonò i pantaloni e, adagiatomi sul letto, mi introdusse il pene nell’ano. Da allora continuamente, sia di giorno che di notte, abusò di me contro natura, nonostante le mie grida e le mie preghiere. Una mattina, mentre mio padre era ancora a letto, io a tavolino svolgevo un componimento d’italiano che mi aveva dato la sera innanzi, mi chiamò e mi invitò a ricoricarmi. Appena nel letto mi attirò a sé con le reni rivolte a lui. Avvertii subito il contatto del suo membro eretto presso il mio orifizio anale. Mi disse, tenendomi abbracciato: Bello di papà non ti muovere che ti faccio piano piano. Intanto spingeva ed io soffrivo e soffrii tanto che gridai. Mio padre mi percosse. Quando mi lasciò mi accorsi che dall’interno dell’ano mi fuoriusciva della materia biancastra. Poco dopo andai a soddisfare un bisogno corporale e nel pulirmi notai delle macchie di sangue. Nella notte poi nuovamente si congiunse meco. Questa volta soffrii di più perché mio padre spingeva ancora più oltre il suo membro. E così ogni giorno per circa tre anni, facendomi continuamente soffrire, quantunque oramai il suo membro vi penetrava con grande facilità. Solo nel 1915, e propriamente nel mese di settembre, avendo accolto in casa una donna, tal Pacello Gennarina, cessò di congiungersi carnalmente con me. Nel luglio 1916, poi, fu richiamato alle armi ed io fui affidato alla sua mantenuta. Poiché costei mi maltrattava me ne fuggii ed in seguito fui consegnato a mia madre.
– Come spieghi che il dottor Sarpi ha certificato che la violenza è stata a settembre?
– Egli da un anno, come ho già detto, non mi toccava più e quindi io non so spiegare come va che il medico Sarpi riscontrò delle lesioni nel mio ano. Certo io non mi sono congiunto carnalmente con nessun altro dopo essere stato vittima di mio padre e senza dubbio, come mi ha trovato il medico Sarpi, così mi ha lasciato mio padre. Il dottor Sarpi ha detto così perché amico di mio padre!
– Possibile che per tre anni tu non hai mai raccontato a nessuno quello che ti stava capitando?
– Io non potevo parlare con nessuno, sia perché mio padre mi sorvegliava e sia perché non vedevo quasi nessuno a cui narrare quelle cose. Per circa tre anni io sono stato vittima di mio padre e sono stato lasciato in pace soltanto quando mio padre finì in tresca con una mantenuta ma io, sebbene avessi potuto, non le ho detto mai quello che mio padre mi ha fatto.
– Dì la verità, è stata tua madre a dirti di accusare tuo padre.
– Quello che ho narrato è perfettamente l’esposizione dei fatti e non vi ho aggiunto nulla di mio. – risponde Mario sdegnosamente – Mia madre non mi ha mai istigato ad accusare mio padre che mi percuoteva sempre per ogni nonnulla.
Affermazioni del genere, fatte da un bambino, lasciano certamente perplessi gli inquirenti i quali, a più riprese, chiedono spiegazioni a Sarpi che da parte sua conferma ogni volta la propria diagnosi. Ma il Giudice Istruttore non è convinto e fa sottoporre Mario a una nuova perizia, incaricando questa volta i dottori Francesco Valentini e Adolfo Tafuri dell’Ospedale di Cosenza.
Anche i due medici sostengono che Mario non abbia subito coito abituale. È probabile vi siano stati tentativi di coito per cui tutte le parti esterne in contatto col glande siano state spinte in fondo, onde la forma ad imbuto descritta. Non vi sono elementi per potere affermare l’esattezza o meno del giudizio del Dott. Sarpi; ma tenendo presenti le perizie dello stesso si può convenire con lui che le lesioni da esso riscontrate siano state l’effetto dell’introduzione, probabilmente incompleta, dell’asta virile, una volta tanto e nell’epoca dallo stesso stabilita.
Una volta tanto, e che sarà mai stato per lamentarsi tanto!
Nonostante gli esiti delle due perizie (peraltro eseguite a sette mesi di distanza l’una dall’altra) non siano confortanti per l’accusa, le indagini vanno avanti per scoprire se Venere ha istigato suo figlio ad accusare il padre, che rischia la vita al fronte e al quale nessuno, per il momento, chiede conto di nulla.
Vengono interrogati per rogatoria, a questo proposito, il sessantottenne Luigi Santoro da Montalbano Ionico e sua sorella Giulia, ottantenne, datori di lavoro di Silvia Venere.
– Silvia lavorava per la famiglia Cerulli e quando questa si trasferì a Potenza nel mese di settembre 1916, conoscendola per una giovane onesta e buona sotto ogni riguardo, la presi a servizio per badare a mia sorella Giulia che le vuole molto bene. Nel mese di novembre Silvia fu avvertita dalla madre tramite lettera che suo figlio, dopo il richiamo alle armi del padre, si era reso irreperibile. Volle andare in cerca del figlio e io la feci andare. Ritornò nel dicembre col figlio, che aveva trovato a fare il pastore, ed io non trovai nessuna difficoltà a ricevere in casa anche il figlio, dato che la Venere mi era necessaria per accudire a mia sorella ottantenne. Mi pervennero un paio di lettera da Ranoia Francesco con le quali mi pregava d’interporre i miei buoni uffici per indurre la moglie a rappaciarsi con lui. Ne chiesi alla Venere ed essa mi rispose che erano cose che oramai doveva vedersi la giustizia. Nulla mi volle dire di ciò che occorse tra lei e il marito.
– Non mi ha mai detto niente dei suoi rapporti col marito, essendo la Venere una giovane molto riservata. Ho avuto sempre a lodarmi della Venere che è persona onesta – giura Giulia Santoro.
Poi Silvia si presenta dal Giudice con un pacco di lettere scritte dal marito.
– Mi ha scritto parecchie volte lettere sottomissive nel senso che chiede scusa di quello che ha fatto al figlio e vorrebbe che le cose si mettessero a tacere – dice consegnando il pacchetto.
Si tratta di cinque lettere, un biglietto, quattro cartoline postali e un biglietto postale indirizzati sia alla moglie che al figlio, ma anche alla famiglia Santoro.
Napoli
1-2-1917
1-2-1917
Tu pensa che non tutti gli uomini morranno per la guerra; pensa ciò che stai facendo! Ve mia sposa non ho stimato a Mario per quel che con bugie facesti scrivermi dallo stesso, che per tali scuse lo rapisti che vuol dire l’infamante processo che stai fabbricando contro di me??
Se tu fai ancora queste infamità, come la pensi? Credi che io morissi per non poterti raggiungere? Ah! Mal ti fai i conti! Devi capire che se io dovessi morire non potresti più colpirmi con le tue incolpazioni, come per altro tanto, nulla riuscirai a farmi finché son vivo, anzi ti dico che tutta la tua franchezza dura tanto per quanto io starò sottoposto agli attuali artigli del militarismo: appena ne sarò svincolato, e che tu credi di avermi tessuta la rete per essere ancora rovinato da te, senza una mia sodisfazione; credilo però, che lo giuro sulle sacre ceneri di Orazio (il loro primo figlio morto quasi subito dopo la nascita. Nda) che andrò in carcere, ma con le mani intrise del tuo perfido sangue! Né sarò guardingo delle tue azioni, so tutta la tua qualità; non più riuscirai a spararmi, né mandarmi in carcere senza ammazzarti!
E Mario se non vuole esserti compagno di sventura, unisse a te il rispetto, che sarete perdonati
Poi scrive alla famiglia Santoro e mitiga i toni cambiando bersaglio. Adesso se la prende col figlio.
7-2-1917
Reparto sicurezza – Ospedale Principale Trinità, Napoli[1]
Illustrissimi Signori
Rivolgo a loro il senzo addolorato della mia idea
Rilevo dal vero quanto segue
Sia costei, la quale è in loro servizio, come io, siamo due esseri sventuratissimi!!!
Io non compiango solo me stesso, ma anche costei! Si, povera infelice! Ancora vien trascinata da cattivi pensieri! Ah! Compatisco la sua ignoranza! Eppure come fra se stessa, ambisce una condizione agiata in finanze, ma tale condizione è trasformata dall’ignoranza! L’agiatezza che l’animo suo cerca è quella della bontà! L’agiatezza che in costei manca è quella della riabilitazione. Costei mai capì cosa è la pace, il bene e l’amore!
Loro, da magnanimi signori, capacissimi a convertirla, certo la sapranno indurre alla retta via. la povera disgraziata ha solo l’idea venticatrice ma non quella dell’onore! se fosse stata donna di buon senzo non avrebbe permesso al figlio dire delle perfide sciocchezze, anzi l’avrebbe ammonito, come se per un’altra sillabe che il ragazzo vorrebbe ancora pronunziare, essa lo dovrebbe severamente punire, come ho fatto io, qualora lo stesso figlio credeva darmi piacere facendosi da me sentire parlare male della madre. Una sola parlata che il birichino mi fece, mi aveva fatto fare una trista cospirazione contro la madre, che per suo rapporto mi fece credere come la stessa madre aveva passata una notte con un suo cugino a letto. Io non stentai a credere ciò che il ragazzo le accusò, che tuttavia la furibonda mi aveva sparato per sua insensazione, non perché badò ciò che faceva.
Perciò ancora minacciai la stessa disgraziata, ma pensando come il figlio, mi fa ora un’accusa anche a me, la quale non è, sento il dovere di ritirare le mie esaggeratezze, rimprovererò Mario! Che coi mali rapporti sarà più ben voluto della madre e di me, ma si farà odiare! (A figlio! Se non fosse stato per questa accusa a me rivolta, tua madre doveva essere uccisa ed io carcerato! Ma Dio non vuole)
(A te Silvia! Se un destino esiste su di Mario, costringelo a confessare come avvenne, che niente di altro, sospetto sospetto che avrà commesso delle indicenze con suoi compagni; se non vorrà chiarirlo, puniscilo a mio ordine se vuoi che tutto il passato si scordasse.
Egli è manchevole di due accuse, una contro di me e l’altra contro di te.
Via! mi pare che tutto finirà volendoci del bene. la pace sia pei popoli in guerra, come pure per noi! Lo giuro sarò con te! Non più insidie!!!)
Signori gentilissimi mi scusano se due cartoline scrissi esaggerato, ora son persuaso che tutto il male di una attristita famiglia abbia fine con la riabilitazione e mi affido a loro che son stango di sventure
Le suppliche di Francesco non commuovono Silvia che ha già sperimentato il primo pentimento del marito e non ci sarà risposta alla proposta di riappacificazione, peraltro ribadita in altre due lettere indirizzate ai Santoro e, d’altra parte, le minacce di morte nei confronti di moglie e figlio non mettono in buona luce l’imputato il quale, finalmente dimesso dall’ospedale, viene interrogato negli uffici della Procura del re di Napoli prima di partire per il fronte greco. È l’11 giugno 1917.
– Nego la imputazione di violenza carnale in persona di mio figlio. Trattasi di calunnia orditami da mia moglie la quale, altra volta, mi sparò contro cinque colpi di rivoltella e fu condannata. Se i fatti di che mi s’imputa fossero veri, il mio figliuolo avrebbe parlato a tempo, quando fra il 1915 ed il 1916 scappò senza motivo di casa ed io ebbi bisogno di quattro giorni di tempo per rintracciarlo. È vero che della stessa cosa egli mi accusò presso la mia mantenuta ma io feci comprendere a costei che se avessi avuto voglia di sfogare torbidi desideri, avrei tentato di servirmi del fratellino di lei anziché del mio figliuolo. Ho qualche volta battuto il ragazzo anche di notte poiché volevo farlo studiare e, quando partii soldato, egli frequentava la terza elementare e so pure che ebbe il passaggio senza esami per la classe quarta. Non è vero che non lo facessi parlare con nessuno.
– Siete stato già condannato per reati sessuali?
– Fui processato per violenza contro natura in persona di mia moglie e questa stette sei mesi inferma; ora, s’io avessi abusato del mio figliuolo, il medesimo sarebbe morto…
Padre e figlio vengono messi a confronto e Mario ripete le sue accuse in faccia al padre che si mostra incerto nella sua replica.
Quando nei primi giorni di aprile del 1918 il Giudice Istruttore riguarda tutti gli atti in suo possesso, ha ancora dei dubbi sugli esiti delle due perizie mediche e chiede ai dottori Valentini e Tafuri di spiegarsi meglio e questi correggono leggermente il tiro ma la sostanza non cambia:
Lo stato imbutiforme dell’ano riscontrato dal Dott. Sarpi e da noi indicano che quella regione fu sottoposta a ripetuti tentativi di introduzione dell’asta virile, quindi ad atti lascivi continuati. Non si può ritenere che il ragazzo abbia subito atti di pederastia abituale con la penetrazione completa del pene nel retto perché le pliche raggiate e l’elasticità dello sfintere non erano sparite.
Pochi giorni dopo, ricevuta la notizia che Ranoia è detenuto nel carcere militare di Salonicco per insubordinazione e sta per essere trasferito in quello di Bard in Val d’Aosta dove sconterà una condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione, la Sezione d’Accusa decide di sospendere il procedimento penale fino a quando verranno a cessare le ragioni della sospensione stessa.
Ci vorrà il 2 giugno del 1919, quando la guerra è ormai alle spalle, per riprendere il procedimento contro Francesco Ranoia con l’emissione di un mandato di cattura nei suoi confronti, mandato che verrà eseguito cinque mesi dopo. Probabilmente la condanna militare e il ricovero nell’ospedale degli autolesionisti contribuiscono a convincere gli inquirenti della sua colpevolezza, vista la sua indole violenta.
Anche Silvia si dà da fare e chiede che venga tolta la patria potestà al marito. È il 10 gennaio 1920 e non c’è tempo per discutere dell’argomento perché se ne discuterà in Corte d’Assise, in quanto arriva anche il rinvio a giudizio di Francesco per:
1. avere con violenza e con abuso della patria potestà costretto il proprio figlio Mario a congiunzione carnale dalla quale derivarono lesioni personali guarite in giorni ottanta
2. avere usato maltrattamenti al proprio figlio Mario.
Il 30 giugno 1921 Francesco Ranoia viene condannato a 11 anni e 2 mesi di reclusione. Il ricorso Per Cassazione verrà rigettato.
Ancora non è finita. Ranoia chiede il condono di sette anni di pena in base all’articolo 5 del R.D. 2 settembre 1917 che riserva un trattamento speciale ai militari in servizio, ma la Corte d’Assise di Cosenza, il 29 dicembre 1921, respinge la richiesta per mancanza di documentazione.[2]
Mario adesso ha 15 anni e non è più un bambino da tempo.
Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta
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[1] L’Ospedale della Trinità era destinato, durante la Prima Guerra Mondiale, al ricovero dei militari che avevano commesso atti di autolesionismo. Da notare che nell’Ospedale della Trinità fu ricoverato, nello stesso periodo, anche San Pio da Pietralcina. Nda.
[2] ASCS, Processi Penali.
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