IL PRETE

– Renditi conto che non posso essere io a venire a casa tua, dovrai essere tu a venire da me e così nessuno sospetterà niente dal momento che in casa c’è mia sorella – a parlare è don Baldassarre Candreva, trentaquattrenne prete reggente della parrocchia di Serra di Leo in territorio di Mongrassano. La donna che lo sta ascoltando mentre si riveste è Risina Sicilia, ventisettenne contadina del posto con un figlio di 4 anni non riconosciuto dal padre. È la primavera del 1911.
La tresca va avanti così per quasi nove anni, durante i quali don Baldassarre, per allontanare ogni sospetto sui suoi incontri con Risina, mette in giro la voce che la ragazza si è invaghita di lui e che lo ossessiona quasi quotidianamente presentandosi a casa con ogni scusa possibile ma che lui, per il ministero che esercita, non vuole averci niente a che fare.
– Quella? Quella è una malafemmina e mi ripugna il fatto che abbia messo gli occhi su di me! – ripete continuamente agli amici coi quali si trova a discorrere.
La realtà è ben altra invece. È lui ad essere accanitamente incapricciato di Risina.
– Ma che vai dicendo in giro? Tutti dicono che mi hai chiamato malafemmina e puttana, se è questo che pensi di me, non ne voglio sapere più niente!
– Non dare peso a quello che dico perché lo dico per evitare che sospettino di noi, vuoi farmi perdere il pane?
Risina gli vuole bene, abbozza e sopporta tutto pur di stargli vicino. Ma quando don Baldassarre chiede il Regium Exequator, il nulla osta reale per l’assegnamento della parrocchia, oltre alle solite e ossessive raccomandazioni di stare attenta quando bussa di sera alla sua porta, va dai Carabinieri a raccontare che lei lo ha circuito, che non vuole più vederla nei dintorni di casa, che perciò l’Arma la deve diffidare dal continuare a disturbarlo e Risina viene convocata in caserma per essere aspramente redarguita; davanti al Maresciallo, abbassa gli occhi vergognandosi e non reagisce, ma è molto indispettita e indignata.
– C’era proprio bisogno di fare questa sceneggiata? Non ti bastava avermi avvisata di essere più guardinga del solito? Mi hai fatto davvero sentire come una donnaccia mettendomi in piazza. Volevi tenere tutto segreto e invece adesso lo sanno tutti! Bravo! Visto che le cose stanno così non verrò più da te. Se hai qualcosa da dirmi dovrai essere tu a venire a casa mia!
Don Baldassarre spera che Risina non faccia sul serio, ma dopo otto giorni durante i quali la donna non si fa vedere, preso da un moto di orgoglio incarica donna Fortunata Gliosci di andarle a riferire di non farsi vedere mai più.
Risina, da parte sua, in quegli otto giorni ha avuto modo di meditare sulla sua condizione e decide di troncare ogni rapporto col prete perché, riconosce tra sé e sé, maturata nell’età e nella riflessione, avevo capito che nessun interesse avevo a continuare sulla vecchia via. perché nessun beneficio, né alimenti, né altro avevo mai avuto.
Ma davvero si può pensare che la travolgente passione di don Baldassarre possa svanire da un giorno all’altro? L’assenza di Risina lo consuma e confida a una fedele parrocchiana, Maddalena Gliosci, che no, non può finire tra lui e Risina e che, stante la reciproca affezione che li lega, non si sarebbero lasciati mai e che fra 7 o 8 giorni si sarebbero riveduti.
Ma Risina non molla e, davvero, non ne vuole più sapere. Dal loro primo incontro sono passati nove anni. Don Baldassarre adesso ha 44 anni ed è diventato titolare della parrocchia di Serra di Leo, Risina 34 e suo figlio Giovanni 14.
È il 27 gennaio 1920. Dopo il tramonto don Baldassarre va in casa di Fortuna Gliosci, cugina di Risina, dove ha appuntamento con don Matteo Bevilacqua, parroco di Mongrassano, don Carmine Ferrante, parroco di Cavallerizzo, e don Francesco Gliosci, parroco di Ioggi, nonché fratello di Fortuna. Al riparo da occhi e orecchie indiscrete, i quattro amici si mettono a giocare a carte, bevono un paio di bottiglie di vino in allegria, poi si salutano e ognuno si avvia verso casa per la cena.
Anche Risina esce da casa dopo il tramonto per andare a ritirare dell’olio in casa di Vincenzo Filice, fattore del barone Micieli e lascia il figlio seduto accanto al fuoco. Si ferma lì un paio di ore a chiacchierare, ma soprattutto per fare in modo da non incontrare gente che la vedesse con il recipiente pieno, in modo da evitare altre richieste di olio a Filice, che così sarebbe stato in grande difficoltà col padrone.
Giovanni si è appisolato davanti al fuoco e viene svegliato di soprassalto dai colpi violenti picchiati sulla porta. Quando apre si trova davanti la figura nera di don Baldassarre con gli occhi iniettati di sangue:
– Dov’è tua madre? – gli chiede nervosamente
– Non lo so… io stavo dormendo al fuoco quando è uscita…
– Dimmi dov’è andata, bastardo figlio di nessuno! – gli urla in faccia
– Non lo so… ve l’ho detto… dormivo…
Il prete mette la mano nella tasca della tonaca, tira fuori una rivoltella e la punta in faccia al ragazzo:
– Dimmi dov’è se no ti ammazzo! – Giovanni istintivamente mette le mani davanti al viso per proteggersi proprio mentre don Baldassarre lo colpisce sopra una spalla col calcio della rivoltella.
– Ma che vi ho fatto? Perché mi fate questo? – dice cominciando a piangere terrorizzato.
Il prete sembra calmarsi, rimette in tasca l’arma e si siede al fuoco dopo essersi tolto la mantellina.
– L’aspetterò!
Sono ormai le 20,00 quando Risina è davanti alla porta di casa e trova molto strano il fatto che sia chiusa perché generalmente lei e il figlio la lasciano aperta. “Giovanni si sarà coricato” pensa mentre cava dal grembiale la grossa chiave di ferro e apre la porta. Per poco non le cade di mano la canella dell’olio quando vede la figura nera illuminata sinistramente dai bagliori tremolanti del fuoco. Non ha nemmeno il tempo di chiedere il perché di quella visita che don Baldassarre le è addosso e comincia a tempestarla di colpi col calcio della rivoltella. Risina si ripara come può e comincia a gridare. Anche Giovanni grida per chiedere aiuto ai vicini e nello stesso tempo cerca di sottrarla a quella furia scatenata, ma don Baldassarre è più forte ed è armato. Due colpi in testa col calcio dell’arma e il ragazzo stramazza a terra sanguinante. Risina, sebbene sia stordita per i colpi ricevuti, cerca di lanciarsi sul prete che è più lesto di lei e la colpisce nuovamente in testa, facendola cadere a terra.
Il respiro di don Baldassarre è affannato, sbuffando come un toro che sta per caricare, guarda dall’alto la donna a terra, ormai inerme. Stringe nervosamente in pugno la rivoltella dalla quale gocciola del sangue. Risina si mette le mani davanti al viso per proteggersi. Giovanni guarda la scena impietrito. Sono solo pochi istanti ma sembra è un’eternità che sono fermi nelle loro pose. Poi il prete solleva un po’ il braccio armato verso Risina e la stanza viene illuminata dal lampo della revolverata. Giovanni si tappa le orecchie istintivamente mentre respira l’odore acre della polvere da sparo bruciata. Si rannicchia in un angolo sperando di diventare invisibile. Don Baldassarre si gira verso di lui, sorride beffardamente e gli spara un colpo al petto.
Una mamma non può restare impassibile mentre gli uccidono il figlio davanti agli occhi e, sebbene gravemente ferita, trova la forza di rialzarsi e di lanciarsi addosso all’aggressore che adesso deve occuparsi di lei che lo tiene per le spalle e cerca di trascinarlo lontano da Giovanni.
– Aiutatemi! Correte che ha ammazzato mio figlio! Non la deve passare liscia! – urla con quanto fiato ha in gola.
E un vicino accorre subito. Risina, rinfrancata dai richiami di Francesco Caparelli, sembra riacquistare le forze, ma il prete riesce a divincolarsi, le punta la rivoltella al cuore e tira il grilletto. Per un attimo tutto sembra essere silenzio. Risina sa che è ormai morta, ma quel rumore, quel clic ripetuto più volte le fa capire che la rivoltella non ha sparato, che si è inceppata, è viva e riprende a urlare. Caparelli è ormai a pochi metri da casa, don Baldassarre capisce che per lui è finita e, prima di cercare di scappare, fracassa letteralmente la rivoltella sulla testa della donna che cade a terra svenuta.
Francesco Caparelli non può credere ai suoi occhi quando dalla porta di Risina vede uscire il suo parroco il quale con noncuranza lo saluta e si allontana per i vicoli bui del paesino.
I Carabinieri arrivano subito ma di don Baldassarre non ci sono tracce.
La mattina del 28 gennaio il Maresciallo Giacinto Cioci, comandante della stazione del quartiere Sbarre di Reggio Calabria, aspetta il treno per Sibari nella stazione di Torano Castello. Accanto a lui due uomini stanno parlando del fattaccio della sera precedente. Cioci è fuori servizio ma il senso del dovere è forte, si informa sui fatti e i due uomini gli dicono che forse il prete è stato visto dirigersi verso la stazione ferroviaria di Mongrassano. Quando arriva a Sibari, nell’attesa che arrivi il treno che lo porterà nella città dello Stretto, va a riferire ciò che ha saputo al comandante del posto fisso di Sibari, Maresciallo Adolfo Grandinetti. Telegrafano ai colleghi di Mongrassano, i quali rispondono trasmettendo i connotati di don Baldassarre. Sono quasi le 13,00 e il treno arriverà nel giro di una mezzoretta. Lo sguardo di Cioci va verso il piazzale esterno della stazione e gli sembra di vedere una macchia nera. Si avvicina di qualche metro nascondendosi dietro i cessi pubblici e guarda meglio. Si, è proprio un prete. Al diavolo il treno! Lascia tutto e avvisa il collega, poi insieme si avvicinano all’uomo che li vede e cerca di svignarsela, ma i due Marescialli sono più veloci e lo bloccano.
– Si, sono don Baldassarre Candreva, ma di quanto mi state dicendo non so niente. Manco dal paese da qualche giorno perché sono stato a Cosenza e ora sto andando Rossano a trovare un parente ammalato…
Grandinetti e Cioci sanno benissimo che sta mentendo e gli fanno notare quelle strane macchie sulla tonaca che sembrano essere di sangue. Il prete sbianca in viso e i Carabinieri lo portano in camera di sicurezza. Nel giro di qualche ora sarà al sicuro nel carcere di Cosenza.
Le ferite di Risina e di suo figlio Giovanni sono molto gravi e i medici temono per la loro vita. La donna, oltre alle numerose lacerazioni e contusioni sulla testa provocate dai colpi inferti col calcio della rivoltella, ha una ferita da arma da fuoco con foro di entrata tra la settima e l’ottava costola di sinistra e foro di uscita nella regione lombare di sinistra e i medici ancora non sanno se la pallottola nel suo tragitto abbia leso degli organi. In quelle condizioni pensano sia meglio non muoverla per portarla nell’ospedale cittadino e procedere a un intervento chirurgico, che potrebbe anche aggravare la situazione, attendendo l’evolversi della situazione nella speranza che tutto volga al meglio. Giovanni sta anche peggio perché, oltre alle ferite lacero-contuse sulla testa e sul viso, la pallottola che lo ha colpito è entrata all’altezza della mammella sinistra ed è uscita accanto alla scapola ma dal foro di entrata, ad ogni respiro, oltre a sangue venoso, escono delle bollicine di aria, segno che il polmone è stato perforato. Anche per lui è sconsigliato il trasporto in ospedale e si attendono gli eventi.
Una volta che don Baldassarre è rinchiuso nel carcere di Colle Triglio, gli inquirenti scoprono che quella non è la prima volta che il parroco ha a che fare con la giustizia, infatti ha collezionato già tre procedimenti penali per lesioni e minacce, subendo una condanna a 15 giorni di carcere e due assoluzioni per insufficienza di prove. Ma nonostante tutto don Baldassarre continua a ripetere che con i ferimenti di Risina e Giovanni non c’entra niente. Solo dopo qualche giorno, davanti alle testimonianze di tutto il paese, ammette qualcosa:
La sera del 27 gennaio io ero a casa di Fortuna Gliosci insieme con i parroci Bevilacqua Matteo, Ferrante Carmine e Gliosci Francesco; abbiamo bevuto del vino, così, per stare allegri. Il vino mi fa male, mi fa perdere completamente l’uso della ragione, di modo che io agisco senza avere la padronanza di me stesso. In tali condizioni mentali io mi sono trovato in quella sciagurata sera. Uscito dalla casa di Gliosci Fortunata mi avviavo per andarmene a casa a ritirarmi. Son passato dinanzi la casa di Risina Sicilia, donna con la quale ho avuto dei rapporti carnali, ed ho pensato di passare da lei e parlarle di affari. Non trovai in casa la Risina e trovai invece il figlio Giovanni. Dovetti quindi aspettare per parlare con la Risina. Nell’attesa il vino bevuto continuò a lavorare e mi trasse totalmente fuori di me. Quando la Risina rincasò io ero del tutto incosciente. A stento ho riconosciuto la donna ed immediatamente mi sono avventato contro di lei e la ho percossa sulla testa con la rivoltella, di cui vado armato con la debita licenza delle autorità. Su tutto quello che dopo è avvenuto, e che vostra giustizia mi contesta, e cioè sulle ferite d’arma da fuoco da me prodotte alla Sicilia ed al figlio io niente potrei dire, appunto perché di niente mi ricordo. La Sicilia Risina stessa potrà attestare che quando io ho bevuto ad oltranza perdo completamente la forza del volere, agisco senza coscienza e dopo non ricordo quello che ho fatto. La Risina può essere esaminata in proposito e se è donna di coscienza dirà la verità.
Don Baldassarre è un furbacchione e cerca di scamparla anche questa volta con la scusa dell’ubriachezza, forse contando sulla compiacenza degli altri preti e sull’ascendente che ha sui suoi fedeli, ma cade in una grossolana contraddizione: se, come afferma, al rientro di Risina era del tutto incosciente, come fa a ricordare di averla colpita in testa col calcio della rivoltella? E se non ricorda nulla di ciò che è successo dopo, come fa ad essere sicuro di essere stato lui a sparare contro la donna e il figlio di lei?
Gli inquirenti sentono che sta mentendo e i suoi amici, a meno che non mentano per non perdere la faccia davanti ai fedeli, confermano la loro sensazione:
– Oltre ai quattro sacerdoti – dice Fortuna Gliosci – c’era anche l’altro mio fratello Luigi e in cinque hanno bevuto due bottiglie di vino. Non mi accorsi se era ubriaco e, se non aveva bevuto prima di venire da noi, non era possibile che si fosse ubriacato a casa nostra.
Era un po’ brillo ma non ubriaco – dice don Carmine Ferrante.
– Bevemmo due bottiglie in cinque. Per quanto mi sono accorto io, nessuno di noi uscì ubbriaco dalla casa Gliosci – giura don Matteo Bevilacqua.
Il Candreva non era ubbriaco e non poté ubbriacarsi per quel poco vino bevuto, essendo stato diviso in parti uguali tra i presenti – precisa don Francesco Gliosci.
Ma c’è anche chi, come Riccardo Caparelli, Angelo Gambardella e Pasquale Viola, incontratolo per strada nel tragitto da casa Gliosci a casa di Risina e avendogli dato la buonasera, don Baldassarre rispose con voce e modi tali che fra noi pensammo e dicemmo che il Candreva doveva essere facilmente ubbriaco.
A questo punto il Giudice Istruttore contesta a don Baldassarre che i suoi amici lo hanno smentito e lui ribatte:
Insisto nel dire che nel momento del fatto io versavo in istato di ubbriachezza e mi sorprende come gli anzidetti testimoni possano riferire il contrario! Preciso che attesi Risina per circa due ore in compagnia del figlio. Come la vidi entrare mi sentii annebbiare il cervello a causa dello stato di ubbriachezza in cui quella sera versavo e senza sapere quel che facessi mi avventai contro la donna e poi non ricordo più nulla – quindi, se fosse vero quello che dice, dopo due ore di attesa di cui ricorda tutto, il vino fa effetto solo alla vista della povera Risina! La toppa che cerca di mettere non è dello stesso colore e la situazione per lui si fa sempre più grave. Di contro ammette la lunga relazione, ma attribuisce a Risina la responsabilità di aver voluto continuarla a tutti i costi –dopo che le avevo mandato a dire che si fosse astenuta dal venire a casa mia, in quanto preferivo che la gente non parlasse ma ciò malgrado, dopo pochi giorni la Sicilia riprese le sue visite ed io non mi opposi perché in sostanza sentivo di essermi affezionato a lei e ritengo che questa affezione fosse reciproca. Ma le voci continuavano e io volli definitivamente troncare ogni contatto. Risina, una sera, cominciò a scagliare sassolini alla mia finestra. Ad un certo punto io volli affacciarmi ma la Sicilia, avendo sentito che dalla strada si avanzava qualcuno, salì la scala della mia abitazione. Che dovevo fare? Per evitare lo scandalo – continua – chiamai la persona che stava passando, Giacobbe Lecce, e fattolo venire sopra gli domandai se aveva conosciuto la Sicilia Risina ed alla sua risposta affermativa io gli dissi che intendevo essere lasciato in pace da quella donna e gli ho fatto anche vedere i sassolini che la Sicilia aveva scagliato poco prima sulla mia finestra
Il tempo passa e per fortuna le condizioni dei due feriti vanno migliorando a vista d’occhio, ma solo dopo settantadue lunghi giorni vengono entrambi dichiarati clinicamente guariti, sebbene a Giovanni rimanga un indebolimento della funzione della parte inferiore del polmone sinistro. Pazienza, dopo quello che hanno passato un piccolo fastidio è accettabile.
Anche per don Baldassarre le cose sono ormai chiare e viene rinviato a giudizio per duplice mancato omicidio. La Sezione d’Accusa, su richiesta del Procuratore Generale del re, non ammette l’aggravante della brutale malvagità e il prete può tirare un sospiro di sollievo perché la pena adesso sarà certamente più lieve del previsto.
Alla lettura della sentenza, il 14 marzo 1921, don Baldassarre può ritenersi soddisfatto: la giuria gli da ragione ammettendo che ha agito in stato di ubriachezza volontaria tale da scemare grandemente l’imputabilità, senza escluderla. In tutto fanno 4 anni, 1 mese e 26 giorni di reclusione.
L’11 luglio 1921 la Corte di Cassazione dichiarerà inammissibile il ricorso di don Baldassarre e la condanna è definitiva. [1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali

 

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