A Lago, così come in altri posti, tra le famiglie agiate c’è l’usanza di non disperdere il patrimonio familiare dividendolo tra i figli e perciò si ammoglia solo uno dei figli maschi, preferibilmente il primogenito, mentre gli altri si accontentano di convivere con concubine e di non legittimare la prole che essi procreano, destinando la propria quota dei beni ereditari ai figli del fratello coniugato legalmente.
E questa consuetudine viene rispettata anche nella famiglia Turchi, ma con una piccola variante. Ottavio, il prescelto, intesse trattative di matrimonio prima con la famiglia Cavallo di Amantea e poi, sfumato l’accordo con questa, con il barone De Dominicis di Cleto. Ma mentre l’ultimogenito Francesco se ne sta buono buono con la sua concubina, Domenico, il mezzano, si innamora pazzamente di una ragazza, Rosina Politano, e non ne vuole sapere di tenersela come concubina.
Ottavio conosce bene il fratello, sa che è un tipo violento e che se si mette una cosa in testa non c’è niente che possa fargli cambiare idea, così interrompe le trattative col barone De Dominicis e lascia che Domenico sposi Rosina. È il 1893.
Passano cinque anni ma a Domenico e Rosina i figli non arrivano e questo è un bel guaio per tutta la famiglia. Ottavio è molto arrabbiato perché già si sapeva che il fratello figli non ne avrebbe potuti avere in quanto durante il servizio militare aveva contratto un’orchite bilaterale che lo aveva reso sterile, così avevano detto i medici. Dopo un lungo tira e molla i due fratelli si mettono d’accordo e Ottavio ottiene il consenso a sposarsi con la promessa che i beni di famiglia saranno destinati ai suoi eredi.
Domenico, in cuor suo, pensa che la mancanza di figli non sia colpa sua ma della moglie e così comincia a tradirla con molte donne, finché non si imbatte in un bel fiore sbocciato all’improvviso nel paese: Nicolina Martillotti di diciotto anni. Lui di anni ne ha trentasei ma non c’è problema. I due cominciano ad amoreggiare e donna Rosina è molto preoccupata perché capisce che il marito ha proprio perso la testa per quella bella contadinotta, così, d’accordo con i cognati, fa in modo di allontanare Domenico dal paese, spedendolo a Firenze con una scusa. Questo dà modo alla famiglia Turchi di proporre un matrimonio al padre di Nicolina e organizzare il tutto in fretta e furia. Ma non hanno fatto i conti con la passione di Domenico. Qualcuno lo avvisa delle nozze imminenti e lui si precipita a Lago, appena in tempo per appostarsi lungo la strada che va dalla casa di Nicolina verso il centro del paese.
È la mattina presto del 13 settembre 1900. Nicolina Martillotti, sua madre Angela Maria Pascale e Giuseppe Longo, il ventitreenne promesso sposo, stanno andando al Municipio per il matrimonio civile, quello religioso lo faranno qualche giorno dopo come consuetudine, quando Domenico Turchi sbarra loro la strada con un coltellaccio in mano:
– Tua figlia Nicolina è mia. L’ho avuta per ben due anni come druda ed essa non deve sposarsi col Longo – minaccia con lo sguardo di chi sa il fatto suo – ritorna indietro altrimenti con questo coltello non ti faccio più proseguire per Lago!
– Ma… don Mico… non potete… non è giusto… voi siete sposato… – replica timidamente Angela Maria.
– Fai silenzio che t’impicco sopra un albero di gelso! – continua avanzando verso i tre col coltello spianato. Giuseppe Longo, fino a questo momento ignaro di tutto, capisce che in fin dei conti non vale la pena prendersi una coltellata per un matrimonio che sa di fregatura e gira i tacchi prima delle due donne, le quali adesso hanno il problema di dirlo al capo famiglia, indebitatosi per comprare il letto e qualche altra cianfrusaglia alla figlia.
Giuseppe Martillotti ha qualcosa da ridire a don Mico ma non va oltre qualche timida protesta e qualche ancor più timida minaccia perché sa che da quell’uomo può aspettarsi di tutto. Don Mico ha vinto. Dopo un paio di mesi va a casa di Nicolina, se la porta via insieme ai mobili acquistati per il matrimonio e con questi arreda una stanza nella casa colonica della sua proprietà in contrada Paliano. La sua vita adesso si divide tra le grazie di Nicolina e l’accondiscendente tranquillità della moglie, almeno così appare.
Si, perché alla fine del mese di luglio del 1901 Nicolina scopre di essere incinta. Incinta? Ma se don Mico è sterile, chi è il padre del nascituro? In paese le voci si rincorrono e, addirittura, durante la processione in onore della Madonna dei Morti, il 5 agosto, Nicolina e donna Rosina hanno un battibecco in proposito, con donna Rosina che accusa apertamente l’amante del marito di averlo tradito!
– Il bambino è mio e quando nascerà lo legittimerò lasciandolo mio unico erede – tronca don Mico, mettendo fine a ogni discussione. Da questo momento in poi passerà il suo tempo quasi esclusivamente nella casa colonica con Nicolina e col suo fido colono, il settantacinquenne Vincenzo Coscarelli.
La sera del 21 marzo 1902 don Mico, Nicolina e Vincenzo Coscarelli cenano nella casa colonica di Paliano e quest’ultimo, prima di andarsi a coricare in un basso della casa chiede alla donna di dirgli l’ora.
– Sono tre ore di notte – gli risponde.
– Non è possibile, è più presto – obietta Vincenzo. Poi, rivolto al padrone, continua – don Mico, prendete la vostra scatola e vedete che ora è.
– Sono due ore e mezzo di notte… è ora di andare a dare da mangiare all’asina – taglia corto, prendendo una lanterna accesa e porgendola alla donna – tu aspetta qua. Nicolina tu vieni con me che mi reggi la luce mentre metto la biada all’asina – ordina aprendo l’uscio e affacciandosi sul pianerottolo che immette alla scala esterna. La sua figura si staglia nel buio, rischiarata dalla seppur tenue luce della lampada. Nicolina si toglie il grembiule e un sopragrembiule con un tascone e si avvicina a don Mico.
Una potente detonazione scuote la quiete della campagna circostante e un lampo di luce rischiara la notte. Don Mico cade fulminato da una scarica di lupari che lo centra alle spalle e alla testa non lasciandogli scampo. Nicolina urla ed esce sul pianerottolo con la lanterna in mano, diventando così facile bersaglio della seconda scarica di pallettoni, tirata da mano ignota.
La ragazza cade a terra gravemente ferita ma riesce a trascinarsi in casa e a sedersi a terra, appoggiando le spalle al letto. Farfuglia qualcosa a Vincenzo che trema come una foglia e non capisce ciò che gli viene detto. Nicolina accarezza il suo pancione sentendo muovere la creatura che ha dentro ma dopo pochi minuti muore per l’emorragia interna causata dai colpi che le hanno perforato il polmone destro, il fegato e lo stomaco. Insieme a lei muore anche la sua creatura innocente.
Vincenzo non sa che fare. Teme che chi ha sparato sappia che in casa c’è anche lui e che potrebbe irrompere in casa per terminare la strage. L’unica cosa che gli viene in mente è di buttarsi a terra fingendosi morto. Resta così per quasi un’ora e poi, quando capisce che il pericolo è passato e che Nicolina e don Mico sono morti, esce e va a casa di Gaetano Porco, un contadino che abita a poca distanza.
Bussa e chiama ad alta voce finché l’uomo non si sveglia e gli apre la porta.
– Hanno ammazzato don Mico e Nicolina alla torre… io ero là… madonna mia… che paura!
– Calmati, ormai è passata… adesso stenditi e riposati che domani mattina avvisiamo chi di dovere – gli risponde Gaetano cercando di calmarlo.
La mattina dopo, di buon’ora, mentre Gaetano Porco va in paese ad avvisare i parenti delle vittime non prima di avere avvisato dell’accaduto un altro vicino, Giovanni Groe, Vincenzo va dai Carabinieri.
Quando il Brigadiere Nicola Prudente, comandante della Stazione di Lago, e il Pretore del mandamento di Amantea, Antonio Giannuzzi, arrivano sul posto, dalla posizione del cadavere di don Mico capiscono subito che chi ha sparato lo ha fatto dall’interno di una casupola semidiroccata a una quindicina di metri dalla porta della casa colonica.
– Dove eravate? – chiede il Brigadiere al vecchio.
– Sono arrivato verso le cinque e mezzo e li ho trovati così… – mente.
Le prime indagini, basate sulle dichiarazioni dei fratelli e della vedova di don Mico, si indirizzano subito verso Giuseppe Martillotti, il padre di Nicolina, l’unico, secondo i parenti, a nutrire rancore verso Domenico Turchi per la vecchia storia del mancato matrimonio di Nicolina. I Carabinieri vanno a casa dell’uomo ma non lo trovano.
– È andato a lavorare in campagna stamattina presto quando ancora non sapevamo niente della tragedia… – dice la moglie, ma è chiaro che non è la verità perché al lavoro non si è mai presentato e, anzi, quando un paio di giorni dopo i Carabinieri lo avvistano lungo la strada da Amantea, lui scappa e fa perdere le proprie tracce.
Tutto è contro Giuseppe. ci sono dei testimoni che giurano di averlo sentito minacciare don Mico e c’è il movente. Quello che potrebbe sembrare strano è il fatto che sia rimasta uccisa anche Nicolina: volendosi vendicare di don Mico, che bisogno c’era di uccidere anche lei, la propria figlia? Forse perché portava in grembo il figlio della colpa o c’è qualche altra cosa sotto? Intanto resta da chiarire se Martillotti ha avuto dei complici.
Indagando, i Carabinieri scoprono nelle diverse dichiarazioni di Vincenzo Coscarelli una contraddizione grave: mentre la prima volta affermò di avere dormito in un altro posto, in seguito dichiara di aver dormito in un casolare vicino e di avere udito le detonazioni, non dando importanza alla cosa poiché è frequente che in quella zona di notte si sentano dei colpi di fucile. Certamente sa molte più cose di quelle che dice e il sette aprile lo arrestano per complicità nel duplice omicidio. Vincenzo allora racconta di essere stato nella casa colonica e di avere assistito, impotente, all’uccisione di don Mico e di Nicolina. Racconta anche di essere andato a casa di Gaetano Porco e di avergli raccontato tutto.
– Ma perché non lo avete detto subito? Che cosa avete da nascondere?
– Sono un debole vecchio e sto quasi per morire; se sapessi qualche cosa intorno all’autore od autori degli omicidi in parola, non avrei ritegno di manifestare ogni cosa alla giustizia. Non ho niente da nascondere… Gaetano Porco mi ha consigliato così perché ha detto che noi siamo contadini ed è difficile spiegare perché ci troviamo in giro di notte…
Anche Gaetano Porco entra nella lista dei sospettati, soprattutto quando rivela di avere avvisato Giovanni Groe e questi gli avrebbe consigliato di farsi i fatti suoi. I Carabinieri arrestano anche loro perché li ritengono implicati nella strage.
Venuti a conoscenza di questi fatti, i cittadini di Lago fanno a gara a ricordare qualche episodio che possa legare l’uno o l’altro agli omicidi. Secondo la voce pubblica, Nicolina, appena stramazzato al suolo don Mico avrebbe esclamato (e il vecchio colono avrebbe udite le parole e riferite a chissà chi): Ah! Compare Giovanni che hai fatto, te l’hai cacciato don Mico? Altri sostengono invece che la povera Nicolina confidò a Vincenzo il nome dell’assassino subito prima di spirare.
La servetta di casa Turchi, improvvisamente, ricorda di aver sorpreso Giovanni Groe e Nicolina in atteggiamenti intimi davanti alla casa colonica di Paliano prima che questa uscisse incinta e di avere riferito tutto a don Mico, che si arrabbiò molto. Qualcun altro afferma di aver sentito don Mico e Giovanni litigare per questo fatto e don Mico avrebbe anche affermato di aver goduto la moglie di Groe.
Ecco, per il Brigadiere Prudente, il movente che incastra anche Giovanni Groe: la vendetta per le corna subite. Si, ma la domanda è sempre la stessa: perché uccidere anche Nicolina e la creatura che portava in grembo?
Al Pubblico Ministero è chiaro che un processo basato essenzialmente sulla voce pubblica non ha motivo di esistere e chiede il proscioglimento di Coscarella, Porco e Groe, lasciando come unico imputato il padre di Nicolina.
Poi, il tre luglio, Giuseppe Martillotta si costituisce direttamente nel carcere di Cosenza e viene interrogato:
– Il giorno 21 marzo ultimo fui a zappare col compaesano Giacomo Porco e mentre la mattina seguente lavoravo per conto di Vincenzo Porco, verso l’ora di colazione s’intesero delle grida ed avendo saputo che erano stati uccisi nella loro abitazione Domenico Turchi e mia figlia Nicolina Martillotti, e siccome io ero indifferente col Turchi per tutto quello che era successo prima, pensai che il doppio omicidio si sarebbe a me attribuito. Lasciai subito di lavorare e mi recai nel vicino comune di Belmonte per consigliarmi col Barone Venturini Del Giudice ma non lo trovai. Da quel giorno per potermi lucrare da vivere per me e per i miei sei figli, tutti in tenera età, girai in cerca di lavoro per diversi comuni della Provincia. Sapendomi ora ricercato dalla forza pubblica, mi sono costituito alla giustizia per protestarmi, come mi protesto, innocente della imputazione che mi si vuole attribuire. Io che sono stato sempre un debole contadino non ho mai maneggiato armi, non potevo certamente avere l’audacia di spingermi ad uccidere il Turchi ch’era un leone e poi come padre non avrei mai avuto il coraggio di fare stragge di mia figlia. In altra persona la giustizia deve ricercare l’autore del misfatto perché, come ho detto, io avevo perdonato tanto il Turchi quanto mia figlia e non avevo né il coraggio, né l’attitudine di consumare il misfatto. – poi lancia la sua accusa – Domenico Turchi, ammogliato, viveva in tresca con mia figlia, perciò era odiato dalla moglie e quando poi la ripetuta mia figlia era rimasta incinta ed il Turchi pubblicamente diceva che si avrebbe cresciuto il nascituro che doveva essere nominato suo erede, e se fosse morta la moglie avrebbe sposato la ripetuta mia figlia, divenne anche nemico dei fratelli propri, che così si vedevano sfuggire la proprietà di esso Domenico Turchi che poteva ascendere a sette od ottomila lire circa. All’uopo rammento che per detto pubblico appresi anche che alcune donne della contrada Paliano, avendo raccontato alla moglie del defunto Turchi che costui quando sarebbe partorita mia figlia avrebbe fatto festa perché aveva intenzione di allevare il nascituro per lasciargli tutta la sua proprietà, la detta Signora a tal racconto rispose che il marito non avrebbe veduto quel giorno. Inoltre il Turchi era un uomo prepotente ed offendeva quasi tutte le persone colle quali entrava in relazione.
Potrebbe essere una buona pista da seguire anche perché il movente che avrebbe spinto la vedova e i fratelli di don Mico a uccidere, giustificherebbe anche la morte di Nicolina e del suo bambino, ma il Brigadiere Prudente, nelle sue indagini, non trova alcun riscontro in merito. I riscontri vengono trovati, invece, per scagionare anche Giuseppe Martillotti perché viene accertato che non ha mai posseduto un fucile a due colpi, che non sa maneggiare armi di nessun tipo e, soprattutto, che la sua vista non è così buona da avergli permesso, eventualmente, di centrare di notte due persone a una quindicina di metri di distanza. Così anche il principale sospettato esce di scena, ma il Brigadiere Prudente non si arrende e porta nuove prove testimoniali che consentono alla Procura di riaprire le indagini. Anche questa volta, però, le accuse franano miseramente e tutti gli imputati ottengono un nuovo non luogo a procedere.
Tutto finito? No.
Passano nove anni e molte cose a Lago sono cambiate. Si sono succeduti altri tre Brigadieri al comando della stazione dei Carabinieri, il vecchio Vincenzo Coscarelli è morto, Giovanni Groe è emigrato in America così come Antonio Longo, il promesso sposo della povera Nicolina.
Appena arrivato in paese, il Brigadiere Centrone nota il grosso faldone relativo al duplice omicidio e nota subito che qualcosa non va. Chiede un po’ in giro e trova una persona che gli chiarisce molti dubbi. Studia minuziosamente tutti gli atti, li confronta con le confidenze ricevute e ne fa partecipe il nuovo comandante della Tenenza di Paola. Entrambi si convincono che ci sono tutti gli elementi per riaprire il caso e Centrone, presa carta e penna, il 4 luglio 1909, scrive al Procuratore del re di Cosenza:
Dalle accurate ed oculatissime indagini praticate in seguito ad invito del Sig. Comandante la Tenenza di Paola, lo scrivente ha potuto formarsi il convincimento che gli autori del duplice delitto siano stati i fratelli dell’ucciso Turchi Domenico, a nome Ottavio, maestro elementare, e Francesco, impiegato municipale; convincimento che è andato sempre crescendo per le risultanze e considerazioni che qui di seguito vengono esposte:
(…) allorquando la Martillotti rimase incinta egli ne era entusiasmato, accecato dalla contentezza di avere finalmente un figlio.
Tale stato di cose dispiacque ai fratelli Turchi Ottavio e Francesco, i quali vedevano perduta per essi la proprietà del fratello Domenico se si sgravava la Martillotti, il figlio della quale l’avrebbe indubbiamente ereditata a discapito loro, epperò tramarono d’impedire che ciò avvenisse.
L’impresa non era facile, data l’indole audace e prepotente del Domenico e l’amore infinito di costui verso la Martillotti; pur tuttavia la loro meta doveva senz’altro raggiungersi, e subito, superando qualunque ostacolo, considerando l’imminente nascita della prole odiata.
Qui giova premettere che il Turchi Ottavio è perfetto cacciatore e molto esperto nel maneggio delle armi da fuoco, avendo coltivato l’uso del fucile fin da giovanotto.
Affidare ad altri il compito di uccidere il fratello e la Martillotti sarebbe stata una vera imprudenza. Quindi la necessità di eseguire personalmente il mandato prefisso.
E con animo fermo e degenerato, il Turchi Ottavio, accompagnato dal fratello Francesco, dovè compire il misfatto la notte fatale dal 21 al 22 marzo 1902.
Come tale convincimento sia entrato nel sottoscritto lo dimostra la seguente circostanza che nell’interesse della giustizia si ritiene far noto:
Persona confidente, che non vuole essere conosciuta, ma che forse chiamata dai Magistrati direbbe ogni cosa, un giorno, parlando con lo scrivente accademicamente, gli palesò di sapere come precisamente la notte dal 21 al 22 marzo 1902, l’Ottavio Turchi pernottò, contrariamente al solito, alla contrada Acquafredda – dove ha altri beni – e che egli (confidente) vide – assieme ad altre persone finora non nominate – la mattina del 22 marzo suddetto verso ora di colazione, tornare in paese, contro ogni abitudine, il Turchi Francesco, armato di fucile dalla via Capo la Terra.
Per chiarire tali circostanze, lo scrivente fa noto che la contrada Acquafredda è vicina a quella Paliano e che la via Capo la Terra è l’unica che mena in paese dallo stradale Amantea-Lago, il quale può benissimo essere raggiunto, da chi voglia, dal tratto del fiume Liceto, che devesi assolutamente attraversare per andare da Lago alla contrada Paliano.
Se quanto sopra esposto valga a fare riaprire l’istruttoria dell’efferato duplice delitto rimasto impunito, questo Comando, salvo migliore divisamento dell’Autorità competente, ravvisa prima di tutto la necessità di catturare senza indugio i fratelli Turchi simultaneamente, ma in modo però che essi non abbiano in veruna guisa possibili concerti tra loro.
E la necessità della cennata cattura verrebbe consigliata sia per cogliere all’improvviso, dopo tanto tempo, a giustificare quanto ebbe a dire il confidente suaccennato, sia perché la giustizia possa indagare senza ostacoli sul delitto, giacché se i fratelli Turchi subornassero la ripresa delle investigazioni, senza alcun dubbio sarebbero di vero intralcio alla giustizia, essendo ben capaci di trovar modo di far deviare ogni indagine come nelle istruttorie passate, creando voci e prove tali da non dar campo di assicurare favorevolmente il naturale sfogo della giustizia.
È altresì convinzione del sottoscritto che qualunque altro modo di investigare riuscirebbe vano per assodare le vere responsabilità nel delitto in argomento.
La sicurezza nell’esposizione dei fatti e le nuove risultanze investigative convincono anche il Procuratore del re e vengono subito emessi i due provvedimenti restrittivi. Ottavio Turchi viene sorpreso alle nove di mattina dell’8 luglio lungo la via principale del paese e portato in caserma. Nello stesso momento Francesco Turchi viene prelevato dal suo ufficio.
Vengono anche perquisite le loro abitazioni e trovate armi compatibili con quella usata per uccidere.
Donna Rosina, interrogata, difende a spada tratta i cognati, contrariamente a quanto fanno i genitori di Nicolina che ribadiscono le accuse fatte nove anni prima e il fatto nuovo è che qualche vecchio testimone che prima accusava il padre della ragazza, adesso accusa la vedova di avergli suggerito le dichiarazioni da fare agli inquirenti. Sembra che le cose stiano prendendo davvero la piega giusta per arrivare alla verità.
La Tenenza dei Carabinieri di Paola insiste col magistrato perché venga messa agli arresti anche donna Rosina perché, ritenendo ormai accertato essere stata lei a subornare i testimoni, è quantomeno complice dei cognati. D’altra parte, scrive il Tenente Toni, coll’arresto della Politani verrebbe circoscritta l’azione subornatrice verso chi ormai potrebbe dire la verità.
E anche a donna Rosina vengono messi i ferri ai polsi, non prima, però, di essere riuscita a fare un misterioso viaggio a Cosenza di qualche giorno, accompagnata dall’avvocato Leopoldo Cupelli.
Il Brigadiere Centrone, da parte sua, pone l’attenzione sui testimoni che accusarono i primi quattro arrestati e mette sotto torchio quelli che erano, e sono ancora, i più intimi di donna Rosina: Angela Palermo, Pasquale Sesti e Teresa Presta. Ma deve osservare con amarezza che qui sono tutti ormai reticenti a deporre quanto è a loro conoscenza per la vasta rete di parentele e amicizie della famiglia Turchi, di cui Ottavio vuolsi sia Massone.
Ma quello che non viene dall’esterno, arriva dall’interno della famiglia e i fratelli Turchi adesso accusano apertamente la cognata, donna Rosina, di essere stata la mente di tutto e che ha dato incarico a Giovanni Groe di compiere la strage. Partono delle richieste di rogatoria per sentire cosa hanno da dire Antonio Longo e gli altri paesani emigrati ma ci vuole tempo e nessuno ha voglia di farsi nemici. Solo Longo racconta di aver saputo che l’esecutore materiale del duplice delitto fu Giovanni Groe ma non ha prove concrete.
Centrone, scavando scavando, riesce anche a spiegare quello che adesso sembra essere stato un atteggiamento quanto meno passivo del Brigadiere Prudente: anche lui era diventato intimo di donna Rosina perché si era messo a corteggiare una nipote e, per ingraziarsela, si mostrava molto accondiscendente alle richieste della signora.
Il 19 febbraio 1910 il Tribunale di Cosenza,osservando che nessuna circostanza può far ritenere probabilmente prossima la definizione dell’istruttoria, il cui prolungarsi indefinitamente, in ispecie pel necessario espletamento delle rogatorie all’estero, consiglia far cessare la preventiva carcerazione tanto dei due Turchi che della Politano.
La Procura fa ricorso ma il 2 marzo successivo la scarcerazione è confermata anche dalla Corte d’Appello di Catanzaro e tutti gli sforzi per arrivare alla verità svaniscono. La famiglia Turchi stringe le maglie della propria rete di relazioni e tutto si blocca definitivamente e passeranno altri sei anni di inutili tentativi finché il 21 febbraio 1916 la Sezione d’Accusa, viste la requisitoria del Procuratore Generale e la richiesta dell’avvocato Tommaso Corigliano, difensore degli imputati, decide per il non luogo a procedere contro i fratelli Ottavio e Francesco Turchi per non aver commesso i fatti loro attribuiti e per non avervi concorso e contro Rosina Politano per estinzione dell’azione penale in quanto l’imputata nel frattempo è deceduta.[1]
La roba e l’onore sono salvi.
I CAMINANTI-Quando gli zingari rubavano galline
[1] ASCS, Processi Penali.
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