È l’otto gennaio 1903 e sono da poco passate le cinque del pomeriggio. Raffaele Solimeno, capo delle Guardie Daziarie di Cosenza, sta facendo un giro di sorveglianza tra i vari casotti del dazio sparsi lungo le vie d’accesso alla citta. Quando arriva al casotto dello Zumpo ci trova la guardia Antonio Marano che sta camminando avanti e indietro pensieroso.
– Tutto a posto? – gli chiede.
– Signorsì! – gli risponde Marano accennando a un saluto militare.
Solimeno continua il suo giro di perlustrazione e ripassa dal casotto dello Zumpo verso le sei e mezza, diretto a Portapiana dove avrebbe dovuto incontrare la messaggera postale per la consegna della corrispondenza e il controllo dei pacchi. Marano non è più fuori dal casotto ma è seduto dentro. I due si scambiano un cenno di assenso e Solimeno procede oltre.
Quando, sono ormai le otto e mezzo di sera, il capo della guardie ripassa dal casotto dello Zumpo, nonostante la fioca luce della lampada a gas, nota subito che qualcosa non va. Il muricciolo di pietra dietro al casotto sembra crollato e non vede Marano. Si avvicina cautamente e i suoi occhi vedono una scena orribile: Marano è steso a terra bocconi proprio all’ingresso del casotto con la testa fracassata e un macigno sulla schiena. Le pietre che mancano dal muricciolo sono sparpagliate intorno al cadavere e c’è sangue dappertutto. Nel casotto c’è il cappello della guardia e lo scaldino è rovesciato. Evidentemente l’aggressione è cominciata lì dentro. C’è anche, pochi passi fuori, il cappotto di Marano, semisepolto sotto le pietre. Che sia un macabro messaggio indirizzato a qualcun altro?
Solimeno si toglie il cappello e si passa le mani tra i capelli. All’inizio non sa cosa fare, colto da un conato di vomito, poi si mette a correre verso la caserma dei Carabinieri e li avvisa con la voce interrotta dal fiatone e dal pianto, quindi corre ad avvisare il Direttore del Dazio.
Sul posto arrivano subito i Carabinieri e i funzionari della Questura e concordano sul fatto che si è trattato di una vera e propria lapidazione, dal momento che moltissime delle pietre intorno al cadavere sono sporche di sangue. Il timore di qualche macabro rituale sembra attenuarsi. Da un esame più approfondito, però, si scopre che oltre i numerosi colpi di pietra inferti su tutto il corpo, si notano sulla parte posteriore della testa cinque profonde ferite dovute a colpi di scure che hanno provocato lo sfondamento del cranio e quindi la morte.
– Secondo me non è dovuto a questioni di contrabbando – osserva l’agente Ferdinando Ciaccio che di queste cose se ne intende, essendo il principale artefice dell’inchiesta che ha portato alla scoperta di una vasta organizzazione criminale organizzata e al processo contro un centinaio di affiliati iniziato proprio in quei giorni[1] – chi ha ucciso in questo modo orrendo, e sicuramente è stata più di una persona, doveva provare un odio profondo contro la guardia…
Ma chi era Antonio Marano, cinquant’anni suonati, per meritare una fine così orrenda?
– Era un donnaiolo e troppo facilmente parlava e sparlava di donne – è la voce unanime che gli inquirenti raccolgono subito tra i colleghi del morto. E problemi con donne Marano ne aveva creati anche a Paola dove prestava servizio prima di essere trasferito nel capoluogo.
L’intuizione di Ciaccio e le parole dei colleghi indirizzano subito le indagini verso la pista della gelosia e dell’onore e il mattino successivo davanti all’ufficio del Pretore di Cosenza c’è una lunga fila di persone da interrogare.
– Io e Marano abbiamo condiviso una stanza nella locanda di Filomena Caruso per circa quattro mesi – racconta la guardia daziaria Gaspare Nicotera – e posso dire che eravamo diventati amici. Tempo fa mi ha raccontato che quando era di servizio nel casotto vicino a Villa Quintieri ebbe una relazione con una certa Rosina Matragrano che abita lì vicino. Qualche mese fa, quando ero io di servizio al Quintieri, mi chiese di riferire alla Matragrano di andarlo a trovare al casotto di Cancello Greco ma la ragazza mi rispose che mi dovevo fare i fatti miei. Lui mi pregò di riferire nuovamente alla ragazza che voleva vederla e anche questa volta la risposta fu la stessa di prima e Marano ci restò molto male.
– Circa un mese e mezzo fa – riferisce Francesco Brunelli, Direttore del Dazio – Giovanni Matragrano, anche lui guardia daziaria e padre di Rosina, mi venne a trovare in ufficio per chiedermi di parlare con Marano e invitarlo a non dare fastidio alla figlia. Io, conoscendo le frequentazioni della ragazza, gli risposi che era meglio far possedere la figlia da Marano piuttosto che dal carrettiere Pietro Grande, un tipo poco raccomandabile, ma Matragrano mi rispose che a Marano non gliel’avrebbe data mai perché era troppo volubile e l’avrebbe certamente abbandonata. Quando parlai con Marano mi disse che non aveva mai infastidito Rosina e non aggiunse altro. Ma Giovanni Matragrano insisteva continuamente con me dicendo che Marano continuava a molestare la figlia peggio di prima. Nella sua voce si percepiva una rabbia che non prometteva niente di buono e avvisai di nuovo Marano ma lui confermò le sue parole e se ne andò. Nel frattempo molte guardie mi avvisarono che Marano si era perdutamente innamorato di Rosina e che per questo motivo non era il caso di metterlo di servizio nella zona della Riforma perché per controllare la ragazza non badava al servizio. Infine, una settimana fa ho visto Matragrano e Marano discutere animatamente e dalle poche parole che ho sentito ho capito che stavano parlando di Rosina.
– Un paio di settimane fa – a parlare è il capraio Francesco Vinci – verso mezzogiorno stavo tornando dal pascolo con le mie capre e passai davanti alla bottega del pentolaio Antonio Matragrano e siccome siamo amici e vicini di casa mi sono fermato a parlare con lui. Mi raccontò che sua sorella Rosina aveva litigato con la guardia Marano per questioni di gelosia. Matragrano era esasperato dall’insistenza di Marano e all’improvviso, con tono minaccioso, ha detto: E chi sa qualche volta… e io gli ho risposto che quelle erano cose che si doveva vedere lui personalmente. Poi mi ha chiesto in prestito la mia scure senza dirmi a cosa gli sarebbe servita e io gli ho risposto che non l’avevo e che l’aveva mia madre ma che, sicuramente, non gliel’avrebbe data.
Gli inquirenti accertano anche che a causa delle pressioni di Marano su Rosina Matragrano ci sono state frequenti scenate di gelosia da parte di Pietro Grande e i guai che ne sarebbero potuti venire furono scongiurati solo per l’intervento della madre di Rosina e della guardia daziaria Gabriele Capozzi. Marano, per sottrarsi alla vigilanza della locandiera e convivente di Pietro Grande, Filomena Caruso, lasciò la stanza nella locanda e prese in fitto una stanzetta a Santa Lucia, convinto che così anche Rosina si sarebbe sentita più libera e sicura di accettare le sue proposte. Grande, da parte sua, aveva disdetto la casa dove incontrava Rosina e le aveva intimato di non farsi più vedere perché gli avevano riferito che la ragazza aveva avuto delle relazioni con Marano.
Tutto ciò, secondo gli inquirenti, aveva fatto nascere in Rosina, suo fratello Antonio e Pietro Grande un odio implacabile contro Marano. Rosina lo odiava perché la stava allontanando da Pietro che avrebbe voluto sposare, Antonio lo odiava perché, dovendo quanto prima sposarsi, non voleva portare la moglie in una casa disonorata dalla sorella e Pietro lo odiava perché, sinceramente attaccato a Rosina, vedeva in lui la causa della rottura della loro relazione.
Queste risultanze e le dichiarazioni dei testimoni bastano al Pretore per emettere dei mandati di cattura contro Antonio Matragrano, Rosina Matragrano e Pietro Grande per omicidio premeditato.
La morte di Antonio Marano, sostiene il Pretore, fu vista come una liberazione per Rosina, come una prova d’amore della sua amante per Pietro Grande e come un dovere per vendicare l’onore della famiglia per Antonio.
– Mi sono lamentato spesso con Rosina per la sua vita troppo libera e indipendente. Mi sono lamentato con lei anche per le troppe voci sul suo conto circa la sua relazione con Marano. Tutte le mie lamentele hanno portato alla fine della mia relazione con Rosina, ma non l’ho ucciso io. Nel pomeriggio dell’otto gennaio sono stato nella cantina di Nicola Panza a via Rivocati e poi sono tornato a casa dove c’era Rosina, erano circa le cinque. Abbiamo mangiato della pasta e fagioli e poi sono uscito di nuovo per andare alla cantina di Salvatore Balestrieri vicino alla stazione. Ci sono rimasto il tempo di bere un bicchiere e poi sono uscito quando è arrivato il treno delle nove – racconta Pietro Grande.
– A che ora sei uscito da casa? – gli chiede il Pretore.
– Saranno state le sei…
– E dalle sei alle nove meno qualcosa che hai fatto?
– Io e Rosina abbiamo parlato un’oretta e poi sono uscito…
Non sa dire altro e restano, nella migliore delle ipotesi, almeno due ore di buco, proprio quelle nelle quali è avvenuto l’omicidio.
– Convivo illecitamente con Pietro Grande da circa due anni. L’otto gennaio Pietro tornò a casa verso le sei di pomeriggio e dopo aver mangiato della pasta ci coricammo e restammo a letto per un paio di ore. Verso le otto e mezzo Pietro si alzò e uscì di casa e non so che cosa abbia fatto. Io sono innocente, signor giudice!
Ma Pietro non aveva allontanato Rosina, disdetto la casa e preso una stanza in affitto? La ragazza cerca di chiarire questo punto:
– Recentemente Pietro aveva disdetto la casa in via Rivocati nella quale convivevamo, per andare ad abitare da solo in una stanzetta che il suo padrone gli aveva offerto gratuitamente e avevamo stabilito che io sarei tornata a casa di mio padre senza però interrompere la nostra relazione. Io mi sarei presa comunque cura di lui provvedendo alle faccende domestiche. Se Pietro aveva deciso di lasciare la casa era stato solo per risparmiare le otto lire di pigione. Non è affatto vero, quindi, che Pietro lasciò la casa per separarsi da me a causa delle mie sgregolatezze e tanto meno per la corte che mi faceva Marano.
Pietro Grande, interrogato di nuovo per chiarire questo aspetto, fornisce una versione diversa:
– È vero che recentemente avevo manifestato l’intenzione di lasciare una volta per tutte Rosina e avevo disdetto la casa dove convivevamo. Ero arrivato a questa determinazione perché ero nell’impossibilità di mantenere Rosina. Come potete vedere, i miei abiti sono laceri nonostante il mio padrone mi dia quarantacinque lire al mese. Se fossi stato da solo avrei certamente potuto provvedere meglio a me stesso. Dopo aver disdetto la casa non avevo ancora trovato un’altra sistemazione. Questo è tutto.
Gli inquirenti prendono atto delle contraddizioni tra le versioni dei due amanti e chiamano a deporre Antonio Matragrano che attacca a parlare come un fiume in piena:
– Ho lavorato fino alle quattro del pomeriggio nella bottega di Antonio Florio e poi sono tornato a casa per mangiare ma non c’erano che fichi secchi e un po’ di pane e mi sono arrangiato con quelli, poi sono uscito a fare una passeggiata e verso le cinque e mezzo sono andato a casa del mio futuro suocero ma non c’era nessuno in casa e sono andato in Piazza Piccola al Teatrino delle Marionette. Dopo un po’ sono tornato a casa del suocero e verso le otto e mezza tornarono anche mia suocera, la mia fidanzata e mia cognata che avevano lavorato fino a quell’ora alla filanda di Rendano. Le donne si misero a preparare la cena e io andai un momento a Fontana Nuova per comprare un po’ di scarafogli nella bottega di Carmine Reda e possono testimoniarlo sia lui che il suo garzone Cicciu ‘U ‘Nzalataru. Portati a casa i ciccioli, mi hanno mandato a riempire gli orciuoli alla fontana e mi hanno visto Giovannina ‘A Pezzente e un tale soprannominato Zaretta – il Pretore lo interrompe e gli rivolge una domanda secca:
– Perché insisti a precisare minuziosamente tutti ciò che hai fatto la sera dell’otto gennaio senza che nessuno te lo abbia chiesto? – Antonio lo guarda perplesso, poi risponde:
– Per dimostrare che sono innocente…
– Allora visto che insisti molto su alcuni orari, dovresti sapermi dirmi dove e a che ora è stato trovato morto Marano.
– Non lo so proprio… nessuno me lo ha detto… io so solo che mi accusate dell’omicidio…
– Che rapporti c’erano tra tua sorella e Marano?
– Lo ignoro. Io trattavo poco con mia sorella per via della sua vita sregolata e poco mi importava se convivesse con uno o con un altro… se avessi voluto vendicare l’onore della famiglia lo avrei fatto anni fa quando Rosina si fece possedere da Luigi Matera restando incinta, o quando si concesse prima a Ciccio Pasqua e poi a Pietro Grande! Signor Giudice, credetemi, sono davvero innocente!
– Ci sono un paio di particolari che non quadrano. – osserva il Pretore – Quando ti hanno arrestato hai detto alla Questura che sei andato alla filanda di Rendano a prendere la tua fidanzata e le altre donne, invece adesso dici che eri a casa di tuo suocero e le donne sono arrivate da sole. Qual è la verità? Che hai fatto davvero in quei momenti? – poi continua – A noi risulta che una quindicina di giorni fa, davanti a testimoni, hai affermato di sapere benissimo quali erano i rapporti tra Rosina e Marano e hai anche detto delle parole di minaccia… come la mettiamo?
– È tutto falso…
Gli inquirenti cercano conferme. Scoprono che Antonio andava ogni sera a prendere la fidanzata alla filanda ma la sera dell’otto gennaio non lo ha visto nessuno. Anche le dichiarazioni della fidanzata e delle altre due donne non fanno che aumentare le contraddizioni emerse nel racconto dell’indagato e ad aggravarne la posizione. E anche il fatto che Antonio si trovasse a casa dei suoceri, a questo punto, potrebbe essere una menzogna e le dichiarazioni che confermano questa circostanza potrebbero essere false.
Giorni dopo, Rosina fa scrivere una lettera alquanto sospetta alla madre, nella quale le dice di togliere alcuni capi di abbigliamento da una cassa e di ripulire il letto. Le guardie avvisano la Questura e nella perquisizione che ne segue vengono sequestrati un paio di calzoni lavati di recente ma che presentano delle macchie di sangue e, nascosto sotto il materasso, un sacco di tela con larghe macchie di sangue. Gli indizi aumentano.
– Non so di che natura siano le macchie sui pantaloni, ma di certo posso dire che il sacco è sporco del mio sangue perché lo metto sul materasso quando ho le mestruazioni – dichiara Rosina.
La perizia che viene disposta, eseguita a Napoli, da ragione agli imputati. Quelle sui pantaloni non sono macchie di sangue, mentre per quelle sul sacco l’affermazione che esse siano di provenienza mestruale non è in opposizione con i risultati delle ricerche ma, anzi, contribuiscono in altissimo grado ad avvalorarla.
Passano i mesi e, di proroga in proroga, non si riesce a trovare nessuna prova o almeno un indizio più concreto contro i tre imputati. Non si riesce nemmeno a trovare la scure usata per l’aggressione. Anzi, gli investigatori si imbattono in numerosi testimoni che man mano sembrano confermare pezzo dopo pezzo gli alibi degli indagati e si scopre anche che Pietro Grande non è affatto quel tipo geloso e rancoroso che sembrava essere: quando la moglie lo lasciò per un altro restò assolutamente indifferente.
C’è anche chi mette in relazione la morte della guardia Marano con una possibile vendetta contro un certo Giuseppe Cittadino di Paola, per questioni d’onore[2]. Marano, in sostanza, sarebbe stato scambiato per Cittadino e ucciso al posto suo, ma i connotati dei due sono incompatibili, tarchiato e con folti capelli e barba neri Marano, alto, magro con capelli e baffetti chiari Cittadino e la pista viene abbandonata. Poi il 16 luglio arriva una lettera firmata da Giovanni Matragrano, padre di Rosina e Antonio, nella quale sembrano esserci novità importanti: una tale Mariarosaria Caruso di Paola ha riferito alla Questura di essere venuta a conoscenza che c’è una donna, Mariantonia De Seta, che sa chi ha ucciso Marano! Sarà vero? Dagli accertamenti fatti, a Paola non è mai esistita una donna con quel nome e non se ne fa niente.
Quando, il sei agosto, il Procuratore del re e il Pubblico Ministero si presentano davanti ai giudici della Camera di Consiglio del Tribunale di Cosenza, devono arrendersi all’evidenza dei fatti:
Pel complesso delle circostanze surrilevate, gl’indizii concorrenti a carico dei prevenuti non sono sufficienti a convincere della loro responsabilità e devesi, allo stato, dichiarare non farsi luogo a procedimento penale, uniformemente alla requisitoria del P.M.[3]
Non si saprà mai perché Antonio Marano è stato ucciso.
[1] L’intera storia della nascita, della scoperta e del processo alla prima organizzazione criminale di Cosenza è raccontata nel mio GUAGLIUNI I MALA VITA, Pellegrini 2012.
[2] Giuseppe Cittadino sarà in effetti ucciso qualche tempo dopo. A questo proposito si può leggere la storia “Cronache di poveri amanti” già pubblicata nel blog. NdA
[3] ASCS, Processi Penali.
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