CARNEVALE COL MORTO

È il giorno di carnevale 1928. Nel pomeriggio a Rogliano tutta la popolazione si è divertita a guardare la recita in piazza e molti bicchieri di vino sono stati riempiti e subito svuotati. Ormai è sera quando alcuni passanti vedono un uomo riverso su un mucchio di pietre accanto alla scalinata della chiesa di San Domenico. Si lamenta pronunciando frasi sconnesse e qualcuno si avvicina, pensandolo ubriaco, per aiutarlo a tornare a casa. Ubriaco lo è di certo, ma è completamente coperto dal sangue che gli scorre da numerose ferite. Lo riconoscono. Si tratta del ventinovenne Antonio Scalzo. Un paio di persone lo aiutano a rialzarsi e, sorreggendolo, lo accompagnano a casa, mentre un uomo corre ad avvisare i Carabinieri.
– Chi è stato? – gli chiede il Maresciallo Francesco Romeo mentre un medico sta medicando le sei ferite sul suo corpo, tre nella zona clavicolare destra, una al braccio destro, una nella zona lombo-sacrale destra e una all’addome dalla quale fuoriesce un’ansa intestinale.
– Ernesto Arabia – risponde il ferito.
– Perché lo ha fatto? – continua il Maresciallo senza ottenere risposta da Scalzo, ancora in evidente stato di ubriachezza.
Il medico invita il Maresciallo a sospendere l’interrogatorio perché la lesione all’addome è molto seria ed è opportuno che il ferito venga portato d’urgenza all’ospedale di Cosenza e così viene fatto, requisendo un’automobile.
Giunto in ospedale, Scalzo viene raggiunto dai Carabinieri del capoluogo e, forse perché i fumi dell’alcol stanno svanendo, si decide a fornire la sua versione dei fatti:
– Verso le 20,00 ero in via Olivitello a Rogliano e sono stato aggredito da Ernesto Arabia, Costantino Rizzuto, Francesco Domanico e Michele Stumpo. Il primo a colpirmi è stato Costantino Rizzuto e poi tutti gli altri. L’ultimo colpo me lo ha dato Ernesto Arabia quando ero già a terra. c’era anche Ernesto Domanico, il fratello di Francesco, che non mi ha colpito ma faceva la guardia e dopo mi ha pure accompagnato a casa. Con me c’era Santo Lucia che sa tutto, sa anche perché lo hanno fatto.
Il Maresciallo Michele Pelaia telefona subito al collega di Rogliano il quale si mette alla ricerca dei presunti aggressori e ne arresta subito tre: Costantino Rizzuto e i fratelli Domanico. Tutti e tre sono esterrefatti, giurando di non saperne niente e forniscono subito alibi facilmente verificabili. Quando vanno a casa di Michele Stumpo, scoprono che è in montagna a lavorare in un fondo di sua proprietà in compagnia di Carmine Altimari. Di Ernesto Arabia non ci sono tracce.
Qualcosa non quadra. Come avrebbe fatto Stumpo ad essere in due posti lontani tra loro alla stessa ora? La conferma che Scalzo ha imbrogliato c’è quando vengono verificati gli alibi degli altri tre e confermati da molti testimoni. Viene sentito Santo Lucia, alias Il Gobbetto.
– Con Scalzo ci sono stato, ma alcune ore prima però! Quando è successo il fatto io ero nella cantina di Rosario Sicilia, soprannominato Stocco. Entrarono delle persone le quali dissero che davanti la bottega di Gigliotti c’era Scalzo ferito e tutti andammo sul posto e arrivammo mentre il ferito diceva di essere stato finito da Ernesto Arabia. Io non so proprio spiegarmi perché Scalzo abbia detto quelle cose!
Il Maresciallo insiste parecchio ma il Gobbetto non cambia versione e viene rimandato a casa.
La mattina dopo, Ernesto Arabia si costituisce nel carcere di Rogliano e, davanti al Pretore che gli contesta il reato di tentato omicidio, ricostruisce gli avvenimenti:
– Con Scalzo non ho rapporti di amicizia, ma nemmeno di inimicizia. – esordisce, poi continua – Ieri, domenica, nel pomeriggio sono andato a guardare la recita a piazza San Domenico e poi, verso le 16,00, ho incontrato il mio amico Costantino Rizzuto che mi ha invitato a bere un bicchiere di vino nella cantina di Angelo Falbo. Dopo una mezzoretta siamo usciti e, arrivati davanti al botteghino di Sicilia, abbiamo incontrato Pasquale Zumpano; io mi sono messo a parlare con lui di lavoro e Costantino se ne è andato. Mentre parlavo con Zumpano, ho acceso una mezza sigaretta e lui la pipa. Fumavamo tranquillamente quando si è avvicinato Antonio Scalzo che mi ha detto: Dammi una sigaretta. Io gli ho risposto che avevo solo quel mozzicone e lui, di rimando, ha detto: Allora dammi questa che stai fumando e io gli ho fatto notare che era ormai finita e non potevo dargliela. Zumpano, accortosi che Scalzo era ubriaco, per non fare questioni gli ha detto se voleva fare due tiri alla pipa ma quello rifiutò e se ne andò indispettito. Dopo un po’ ci siamo avviati lungo il Viale Margherita e quando siamo arrivati nei pressi della farmacia Bendicenti, Zumpano continuò in direzione di Cuti e io tornai indietro verso l’Olivitello per rincasare. Era l’imbrunire. Una mezzoretta dopo aver cenato sono uscito per andare a comprare le sigarette in Piazza Morelli. Lungo il Corso Maggiore ho incontrato di nuovo Antonio Scalzo che mi ha fermato e mi ha detto: Perché non mi hai voluto dare una sigaretta? Io gli ho risposto che non ne avevo ma che se le avessi avute gliel’avrei certamente data. Scalzo ha cominciato a essere offensivo e arrogante fino al punto di dirmi: Ti taglierò il collo! Per evitare guai ho continuato per la mia strada, sono andato a comprare le sigarette nel botteghino di Ninna e sono tornato indietro verso casa. A Piazza San Domenico mi sono di nuovo imbattuto in Antonio Scalzo che era in compagnia di un giovanotto di cui non ricordo il nome. Scalzo, appena mi ha visto, si è avvicinato dicendomi: Tu sei un fessa perché non mi hai voluto dare la sigaretta. Se hai coraggio vieni con me che ti devo parlare! Io, per non fare la figura del vigliacco davanti a quel giovanotto, gli ho risposto deciso: Andiamo! Scalzo si è incamminato per la strada dell’Olivitello e io lo seguivo da dietro, mentre il giovanotto è rimasto dov’era. Quando siamo arrivati a Fontana Nuova ho notato che Scalzo ha cacciato di tasca un coltello e ho capito che stava per attaccarmi. Infatti si è girato di scatto e ha cercato di colpirmi verso il viso o il collo ma io ero preparato e ho schivato il colpo indietreggiando col busto e, a quel punto, ho tirato fuori dalla tasca il mio trincetto e l’ho colpito. Non ricordo quante volte, però. Posso solo dire che mi sono fermato quando l’ho visto a terra ferito. Poi sono andato verso casa, ho lasciato il trincetto vicino alla porta e me ne sono andato in campagna. Signor Pretore, chiunque al mio posto avrebbe fatto allo stesso modo per salvarsi, io mi sono difeso solamente!
– Quello che hai riferito non farebbe una grinza – sembra rassicurarlo il magistrato – se non ci fossero un paio di particolari… secondo i testimoni oculari i fatti sono andati diversamente e sul posto non c’erano coltelli, né i testimoni hanno visto Scalzo armato di coltello. Come la mettiamo?
Testimoni? Si, almeno dieci, tutti concordi nel ricostruire i fatti in modo sostanzialmente diverso: Antonio Scalzo ed Ernesto Arabia salgono lungo la gradinata della chiesa di San Domenico verso Fontana Nuova e il vecchio palazzo municipale, uno di fianco all’altro, zitti zitti. Arrivati davanti alla fontana, Arabia, senza dire una parola, estrae dalla tasca il trincetto e comincia a colpire Scalzo il quale cerca di scappare ridiscendendo la gradinata ma Arabia lo insegue e continua a colpirlo finché non lo vede cadere sul cumulo di pietre e quindi si allontana verso casa. Tra i testimoni c’è anche la moglie del custode del carcere che in quei momenti si trova davanti al cancello della prigione e vede Scalzo cadere sul cumulo di pietre e Arabia allontanarsi.
I medici avevano ragione nel ritenere la ferita riportata da Scalzo all’addome molto grave. Infatti, quattro giorni dopo i fatti, a causa della sopraggiunta setticemia, Antonio muore. Adesso è omicidio volontario.
L’avvocato Francesco Montera, difensore di Ernesto Arabia, però non ci sta a far passare il suo assistito per un assassino a sangue freddo e protesta vivacemente scrivendo un esposto al Giudice Istruttore: (…) sulla ferita al quadrante inferiore sinistro dell’addome di Scalzo vi fu versamento di vomito vinoso e di altre materie infettive. Chiediamo che siano disposte indagini per accertare, per quanto ne riconosciamo l’impossibilità dato che i consoci dello Scalzo, affiliato alla “malavita” hanno spiegato, e continuano tuttora, opera di intimidazione verso i testimoni: 1) da chi fu fatto sparire il coltello di cui era armato Scalzo Antonio; 2) Se Scalzo Antonio era di carattere violento, prepotente e provocatore, specialmente quando beveva del vino; 3) se Arabia Ernesto ha sempre tenuto buona condotta; 4) se è vero che Scalzo Antonio, in epoca di molto precedente al delitto, aveva percosso un ragazzo perché non aveva voluto dargli una sigaretta. Tali indagini da parte dei RR.CC. di Rogliano sono assolutamente necessarie per portare nel processo degli elementi utili all’accertamento della verità, ostacolata da un ambiente torbido e pericoloso al consocio civile; 5) se è vero che Arabia Ernesto, nel giorno del delitto, aveva bevuto del vino in quantità tale da renderlo ubriaco.
L’avvocato Montera specifica meglio in un altro esposto le cause che hanno portato all’insorgere della setticemia. Oltre al vomito, sulla ferita era presente del terriccio e, di più, la ferita è stata medicata con materiale sanitario non sterile, da escludere che la morte dello Scalzo sia dipesa dall’azione dell’ Arabia.
Comunque siano andati i fatti, in sostanza, la responsabilità della morte di Antonio Scalzo sarebbe da ricercare altrove.
I Carabinieri svolgono le azioni richieste dal difensore di Arabia e concludono che, in effetti, Scalzo era un tipo violento sempre pronto a menare le mani, che l’imputato è sempre stato un tipo tranquillo ma che quella sera non era affatto ubriaco, per ammissione dello stesso Arabia. Nessuno, però, avalla la tesi secondo la quale la ferita si sarebbe infettata per cause diverse dall’accoltellamento stesso.
E gli altri indagati? Per il momento restano in carcere. Non basta che Arabia si sia addossato la responsabilità dei fatti e che nessun testimoni li collochi sulla scena del crimine nel momento in cui viene commesso. Ci vorrà il 18 aprile perché il Giudice Istruttore, su richiesta del Pubblico Ministero, ne ordini la scarcerazione.
Ormai per Ernesto Arabia la strada che potrebbe portarlo dritto dritto in Corte d’Assise è più che spianata e infatti il 24 luglio 1928, la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro lo rinvia a giudizio per omicidio volontario ritenendo che la causa unica ed esclusiva della morte di Antonio Scalzo siano stati i diversi colpi di trincetto infertigli. Nella stessa sentenza, tutti gli altri imputati escono finalmente di scena per non aver commesso il fatto.
Nonostante la battaglia intrapresa dagli avvocati Pietro Mancini, Francesco Montera, Luigi De Matera e Luigi Fera, difensori dell’imputato, nel dibattimento non viene accertato nulla di nuovo se non che la vittima, per dichiarazione dei familiari, non avrebbe mai fumato e che Arabia, contrariamente a quanto egli stesso ha sostenuto, pare che fosse abbastanza brillo. Quest’ultima circostanza è utile alla difesa per invocare, oltre alla provocazione, anche l’attenuante dell’ubriachezza come ultima carta per evitargli una lunga condanna.
Il 10 febbraio 1930 la Corte d’Assise di Cosenza emette il verdetto: colpevole di omicidio volontario. La condanna, considerate le attenuanti generiche, la provocazione semplice e lo stato di ubriachezza è quantificata in cinque anni e dieci mesi, di cui un anno gli viene condonato, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento del danno alle parti lese.
I successivi ricorsi in Appello e in Cassazione verranno rigettati.[1]

 

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