GLI AVEVO FATTO LE CORNA…

Sono circa le 6,30 del 13 novembre 1913, fa freddo e c’è solo la flebile luce dell’aurora. Gabriele Grande, un contadino di Scigliano, racchiuso nel suo mantello e con il cappello ben calato sulla testa, sta andando in campagna a zappare. Lungo il sentiero che dalla contrada Valli di Scigliano scende al Savuto, nota il signor Ciro De Marco che sta guardando qualcosa nei cespugli sotto la stradina.
– Salutiamo, don Ciro. Che state guardando – gli fa. 
– Mi pare che nelle frasche c’è una donna, sento dei lamenti leggeri leggeri, guarda anche tu…
Gabriele si sporge un po’, guarda giù tra i cespugli spogli di ginestra e biancospino e in effetti vede la sagoma di una donna impigliata tra gli arbusti. Sente anche dei lamenti e, senza perdere altro tempo, si cala lungo i quattro metri della scarpata.
Riconosce a stento la donna nella ventisettenne Leonilde Leonessa Esposito perché ha il viso devastato e coperto di sangue. Impigliato tra gli sterpi c’è un fazzoletto da donna bruciacchiato. Da solo non può farcela a portarla sulla strada, così don Ciro si affretta a chiamare un altro contadino, Antonio Pettinato, che si sta avvicinando lungo il sentiero. Più delicatamente che possono la tolgono da lì e la portano a braccia nella casa colonica dei suoceri di Leonilde, distante non più di trecento metri, poi, dividendosi i compiti, corrono in paese a chiamare il medico e i Carabinieri.
Siccome è chiaro che le ferite che la donna ha in testa sono state prodotte da colpi di arma da fuoco, arriva anche il Vice Pretore di Scigliano, Carlo Milano, il quale vorrebbe interrogare Leonilde ma deve rinunciare perché la poveretta è in stato di incoscienza. Chiamano un carretto e la fanno portare nel piccolo ospedale di Scigliano dove, quantomeno, il medico potrà ripulire le ferite e formulare una diagnosi.
Il dottor Eugenio Rizzo, dopo averla visitata, è molto scettico sulle possibilità che la donna si possa salvare e riferisce al Vice Pretore la situazione clinica:
– È in coma, non risponde. Qualche volta, se la si chiama gridando, si scuote. Ha il polso molto irregolare e lento, la pupilla dell’occhio destro è dilatata e dall’altro occhio è cieca da anni. Ha i capelli della regione temporale destra e della nuca bruciacchiati, questo significa che le hanno sparato più di un colpo a bruciapelo, ma allo stato non posso muoverla per stabilire il numero preciso di colpi. Ad occhio direi almeno tre. Se vi avvicinate – continua indicando la donna – un colpo l’ha sicuramente ricevuto in pieno viso, infatti il sopracciglio destro è bruciacchiato e la scottatura della pelle è evidente, come è evidente la scottatura del naso dove si possono notare i granelli di polvere da sparo sotto la pelle. Ora tolgo questo grosso grumo di sangue sulla tempia destra e vediamo che cosa c’è sotto… – continua togliendo il sangue raggrumato con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool – proprio come immaginavo… il foro di un proiettile…  proprio tra lo zigomo e l’orecchio… direi una pistola calibro nove… – il Vice Pretore si gira dall’altra parte trattenendo a stento un conato di vomito mentre il dottore, contraddicendo ciò che aveva affermato prima, sposta leggermente la testa della donna e si mette a pulire un altro grumo di sangue all’altezza della nuca – ed ecco qui il terzo colpo! Questo però o era a salve, o ha mancato il bersaglio, c’è solo il segno dello sparo e una piccola scottatura. Quindi, per concludere, direi che il colpo alla nuca e quello alla regione del sopracciglio destro sono andati a vuoto, l’altro è penetrato ed è ancora dentro. Non ha vita lunga.
Il pretore tenta ancora più volte a farle dire qualcosa ma solo verso sera Leonilde farfuglia poche parole quasi senza senso, o almeno così sembra:
Panettiere… panettiere…  Cosenza… mio marito Santo…
Il mistero viene parzialmente svelato quando il Vice Pretore interroga i suoceri di Leonilde:
– Mi chiamo Maria Rosa Damiano fu Domenico, ho 70 anni. Mio figlio Santo sposò circa sei anni fa Leonilde, una trovatella. L’ha sposata perché era incinta, non perché era un buon partito. Dopo meno di un anno emigrò in America lasciandola ad abitare nella casa colonica con me e mio marito. Il bambino che nacque morì quasi subito e lei si è sempre comportata bene. Alla fine di settembre scorso, però, mi confessò di essere incinta, ma non ha voluto dirmi con chi aveva avuto la relazione illecita. Una quindicina di giorni fa mio marito le disse che se ne sarebbe dovuta andare via  perché ormai non poteva più nascondere la pancia e sarebbe scoppiato uno scandalo. Così, tramite una nostra nipote che abita a Cosenza, stabilimmo che fosse andata in città per ricoverarsi al brefotrofio e partorire lì. Ma, come ci ha scritto nostra nipote Nicolina, mancava ancora troppo tempo al parto e non la presero. Non potendo ritornare qui, Nicolina la mise a lavorare in una panetteria. Cinque o sei giorni fa Leonilde mi mandò a salutare per mezzo di un paesano e mi mandò a dire che si trovava bene e che guadagnava 15 lire al mese. Stamattina, quando l’hanno portata a casa, non potevamo capire come fosse stata possibile una cosa del genere. Non potevamo e non possiamo nemmeno capire che cosa ci faceva vicino casa, sapendo di non poter tornare qui! Io sono andata sul posto dove l’hanno trovata e ho raccolto il sacco con tutte le sue cose e accanto al sacco c’erano le sue scarpe. Abbiamo cercato di farle dire qualcosa ma non ha mai risposto, si lamentava e basta. Non ho alcun sospetto su chi abbia potuto spararle. Mio figlio, per parte sua, ha scritto una lettera dall’America che ci è arrivata otto giorni fa, eccola…
Il Vice Pretore prende la busta dalle mani della donna, la apre, tira fuori il foglietto con poche righe e lo legge
Hiarvatha (Utah)[1] li 14 Ottobre 1913
Carissimo padre
Rispondo con un poco di ritardo alla vostra gradita lettera e dove mi sono rallegrato nel sentire che godeti una ottima salute e così ti posso assicurare di me. Caro padre aveva risorvuto se mi ne venire e per questa vernata non mene vengo. Basta vi prego de mi fare assaperequalche cosa che si fa al paese, credo che siamo capiti se voleti fatto ancunaltra lettera
Basta
Saluto don carro piciolo e a voi unito con la mia madre mi fermo tuo affezzionato figlio
Santo Mancuso
Credo che ci siamo capiti. Queste parole attirano l’attenzione del Magistrato. Ma c’è un altro particolare a cui subito dopo pensa: come mai Santo non manda i saluti alla moglie? Quindi chiede alla donna se crede alla possibilità che il figlio sia tornato dall’America, avvisato del tradimento della moglie, per ucciderla.
– Io non lo so, nelle lettere che gli abbiamo mandato non abbiamo mai fatto cenno al tradimento della moglie…
Poi è la volta di Luca Mancuso, il suocero di Leonilde:
– Da quando è rimasta con noi si è comportata bene, ma dal mese di giugno scorso ho cominciato a sospettare che avesse una relazione, anche perché mi è arrivato all’orecchio che Leonilde aveva confessato ad altre donne di essersi data a uno di cui non fece il nome. Quindici giorni fa le ho detto che doveva andarsene perché non potevo sopportare l’offesa che aveva fatto a mio figlio e a me e, soprattutto, che partorisse il figlio della colpa in casa mia! Non so perché sia tornata e non ho sospetti su nessuno…
Quindi, gli enigmi sulla panetteria e su Cosenza sono chiariti, ma perché Leonilde ha nominato il marito che si trova dall’altra parte del mondo? Forse per chiedergli perdono prima di morire, sarebbe la risposta più logica.
Contro ogni previsione, la mattina successiva, Leonilde esce dal coma e gli inquirenti si precipitano all’ospedale per farle qualche domanda. Seppure debolissima e farfugliando, risponde, lasciando tutti di stucco:
Mi ha sparato mio marito Santo Mancuso
– E perché lo ha fatto? Le chiede il Vice Pretore
Gli ho fatto le corna
– Ma, fammi capire… tu eri a Cosenza e lui in America…
– Lui era a Cosenza, mi è venuto a cercare e mi ha trovata a Cosenza… stavo portando una tavola di pane… mi ha detto che ce ne tornavamo al paese…
– E poi?
– Mi ha sparato e sono caduta… era notte…
– C’era qualcuno con voi?
– No… Barbara Astorino, madre di Nicolina Damiano, ha visto mio marito a Cosenza e gli ha detto di non toccarmi…
Poi Leonilde cade in una specie di torpore nel quale pronuncia frasi sconnesse, di nessuna utilità per le indagini. Intanto ormai è tutto chiaro. Santo Mancuso è tornato ed è l’autore del tentato omicidio della moglie e partono le ricerche per catturarlo.
Passa un altro giorno e Leonilde sta ancora meglio. Adesso, nonostante un proiettile calibro nove nel cervello, è in grado di raccontare come sono andati veramente i fatti:
Mercoledì a mezzogiorno mentre io trasportavo una tavola di pane, in Cosenza presso il Carmine, per conto di una tale donna Angelina Pristina, panettiera, al servizio della quale io mi trovavo, improvvisamente incontrai mio marito Mancuso Santo il quale mi disse che da lunedì era tornato dall’America e si trovava da tre giorni in una locanda. Mi fece proposta di tornarmene insieme con lui a Scigliano pur dicendomi di sapere il mio fallo e dichiarandomi di volermi perdonare. Io allora portai il pane nella bottega della panettiera, sita presso il ponte del Carmine ed alla panettiera stessa dissi che era venuto mio marito e me ne ritornavo insieme con lui a Scigliano. Uscii dalla bottega, raggiunsi nuovamente mio marito ed insieme con lui andai alla locanda che non saprei ben precisare non conoscendo bene la città. Stetti con lui parecchie ore, poi uscendo andai da Astorino Barbara che trovavasi in un deposito di fichi secchi al Carmine ed insieme con lei andammo nuovamente alla locanda e la Barbara raccomandò a mio marito di non maltrattarmi. Tornai dalla panettiera per riprendere le mie robe, che raccolsi e misi in un sacco, e poi con mio marito partimmo da Cosenza dopo tramontato il sole. Lungo la via non pronunziò contro di me alcuna parola di minaccia e mi diede a portare una valigia che aveva nella locanda e che mi misi sulla testa insieme col mio sacco. La valigia era nera e nuova, non so se di pelle o di tela e pesava una decina di chili. Seguimmo la strada nazionale fino al ponte nuovo sul Savuto tra Marzi e Carpanzano, da là seguimmo il corso del fiume e quindi risalimmo per il vallone denominato Silvio e per il viottolo che attraversa la proprietà di Virno Saverio arrivando, ma non posso precisare a che ora della notte, al crocevia tra il viottolo stesso e l’altra via dei Valli, che mena anche al Savuto. Qui mio marito mi fece posare la valigia e le robe che portavo sulla testa perché mi fossi riposata ed allora fece insistenze con me per sapere con chi avessi avuto illecite relazioni, essendosi anche accorto lungo la via che io ero incinta. Sia nella locanda che lungo il viaggio non ebbi contatto con mio marito. Io non volli declinare il nome di colui che aveva avuto con me relazioni, ed egli allora aprì la valigia che era posata per terra, estrasse una rivoltella ed improvvisamente mi tirò tre colpi. Caddi nella via e non ricordo nulla. Lungo la via non incontrammo alcuna persona che ci avesse riconosciuti.
– Se non lo hai detto a tuo marito, quel nome lo devi dire a me…
– A maggio o a giugno, ho avuto relazioni illecite con Fulvio Pietrisani, soprannominato Cane Cane, e sono rimasta incinta.
Ma se Santo è tornato dall’America con una pistola calibro nove nella valigia nonostante avesse scritto che, caso mai, sarebbe tornato solo dopo l’inverno e invece era a Cosenza per uccidere la moglie, si tratta di tentato omicidio premeditato e le cose si complicano. E si complicherebbero ancora di più se si scoprisse che ha avuto dei complici. Il Vice Pretore prova a chiedere a Leonilde se ha sentito dire al marito qualcosa riguardo a questo aspetto. E Leonilde parla:
Nel ritorno che feci da Cosenza insieme con mio marito, come ieri narrai, per via egli mi disse che era stato prima a Scigliano nella casa dei suoi genitori e non avendomi qui trovata ritornò in Cosenza, ove aveva saputo che io dimoravo.
Ma Santo ha detto anche dell’altro a Leonilde:
Il figlio di Assunta, a nome Cariati Serafino, da Scigliano, aveva scritto al figlio di Ferdinando Mancuso, a nome Gabriele, in America dicendogli che io fossi gravida e di ciò ne fu informato mio marito, credo, per mezzo del Gabriele Mancuso, che trovasi colà. E perciò mio marito se ne ritornò appositamente dall’America. Egli mi raccontò anche tutto questo da Cosenza a Scigliano.
Quindi Santo, prima di andare a Cosenza a cercare la moglie è stato dai genitori i quali, già nel primo interrogatorio hanno negato di avere notizie dal figlio e ora, sentiti nuovamente dal Magistrato, continuano a negare, giurando che non è vero che Santo il giorno prima di sparare alla moglie è stato a casa, loro non lo vedono da anni. Per arrestarli, eventualmente, c’è tempo.
Nel frattempo, il Maresciallo Maggiore Alberto Rivoiro, comandante della stazione di Scigliano, prima chiarisce i termini della tresca tra Leonilde e Cane Cane, poi fa un giretto a Cosenza per trovare altre informazioni utili alle indagini e quindi stende un lungo rapporto.
È da premettere che la Leonilde, dopo la partenza del marito per l’America, effettuatasi quattro anni addietro, gli si mantenne nei primi tempi fedele; successivamente e precisamente sulla fine del 1912, per malattia, fu ricoverata in questo ospedale, dove, malgrado cieca di un occhio e di forme più brutte che belle, simpatizzò per l’infermo Pietrisano Fulvio d’ignoti d’anni 42, di lei cognato, ammogliato con sette figli. Dimessi che furono dal nosocomio incominciarono una tresca che non tardò a produrre i suoi frutti: la Leonilde conta presumibilmente 5 mesi circa di gravidanza. (…) Il maresciallo maggiore Rivoiro Alberto, si portò in Cosenza, dove, fra altre persone interrogate di Scigliano colà residenti, per assodare se avessero visto il Mancuso Santo, sentì anche la Nicolina Damiano sull’improvviso ritorno in Lupia della Leonilde. La medesima asserì aver saputo dalla propria madre Barbara Astorino fu Francesco d’anni 65 qui nata, colà dimorante secolei che la Esposito Leonilde era partita per Scigliano perché così aveva voluto il costei marito ritornato dall’America. La Barbara, a sua volta, ha affermato che alle ore 16 circa del 12 andante sulla pubblica via di Cosenza, s’incontrò con la Leonilde, la quale le disse che il rispettivo marito era ritornato dall’America e che la voleva ricondurre a Lupia, aggiungendo ch’egli si trovava alla locanda di Marino Giuseppe, tenuta in fitto da Perri Maria Antonia fu Francesco d’anni 50. L’Astorino che conosce personalmente il Mancuso Santo, s’accompagnò colla Leonilde per andarlo a salutare, e difatti lo trovò in locanda e vide quando partirono entrambi a piedi per Lupia: lei portava sulla testa un mezzo sacco d’indumenti personali e sopra a questo la valigia di cuoio nero di lui e con una mano portava i propri stivalini, preferendo camminare scalza. Era già buio. Nella circostanza la Barbara a cui non era sfuggito lo stato di gravidanza della Leonilde, lo consigliò di partire all’indomani a giorno fatto e raccomandò al costei marito di non maltrattarla. (…) La locandiera Maria Perri ha dichiarato che da due giorni prima dell’incontro del marito colla moglie, alle ore 10 del mattino, il Mancuso Santo, ch’essa non conosceva, l’aveva pregata di tener in consegna la valigia nera ritirata poi il 12; che durante i due giorni egli non s’era più fatto vedere né tampoco aveva dormito, consumato il pranzo nella sua locanda; che il giorno 12 essa apprese essere il Mancuso marito della Leonilde per averlo saputo dal cliente Nicola Micciulli fu Angelo d’anni 47 da Lupia. In quella circostanza il Mancuso che evidentemente aveva in animo di uccidere la moglie, non voleva essere visto dal Micciulli che forse egli aveva riconosciuto – e perciò fare nella locanda – mentre questi cucinava dei pesci – egli voltava sempre la faccia dalla parte opposta. (…) All’alba del giorno 13 dello stesso mese un tal Fava Gregorio d’ignoti, di anni 17, allevato da Francesco Rocca da Pittarella, dimorante nella torre colonica denominata Terranova, in territorio di Grimaldi, vide passare, anzi si fermò colà, Mancuso Santo di Luca il quale richiese del pane e del formaggio che il Fava gli diede. Allora stesso il Mancuso disse al Fava che egli aveva ucciso la moglie e gliene faceva confessione perché non si fosse incolpato qualche altro. Dopo, come mi riferì il Fava, il Mancuso pigliò la via di Malito.
Ormai è tutto chiaro, si cerca solo di capire se Santo sia riuscito a tornare in America o si nasconda da qualche parte. È solo questione di tempo per scoprirlo.
Ma è questione di tempo anche per la povera Leonilde. Le sue condizioni si aggravano dopo il temporaneo miglioramento e, devastata dalle infezioni, il 23 novembre muore. Con lei muore anche la bambina che ha in grembo, ma quella cosina non conta ai fini processuali. L’omicidio è uno solo, non due.
Quando tutto lascia pensare che Santo sia riuscito a sfuggire alla cattura, il 9 dicembre si va a costituire direttamente negli uffici della Procura del re di Cosenza.
Ad interrogarlo è il Giudice Istruttore Antonio Giannuzzi:
– Signor Giudice – inizia con tono arrogante – mi chiamo Santo Mancuso e ho ventisette anni. Sono tornato dall’America[2], ho trovato mia moglie incinta e l’ho ammazzata – continua esplodendo in una grassa risata – sono tornato dopo quattro anni con l’intenzione di rivedere i miei genitori e la mia famiglia. Non sapevo che quella era incinta. Quando l’ho incontrata per caso a Cosenza che portava una tavola di pane sulla testa le ho chiesto che cosa ci faceva lì e lei mi ha risposto che era a Cosenza perché mi aveva svergognato ed era incinta. Io non le ho detto niente per rimproverarla, le ho detto solo che ce ne dovevamo andare al paese e lei mi ha seguito volentieri. Durante il viaggio mi ha raccontato che mi aveva fatto le corna con mio cognato Cane Cane. Quando siamo arrivati alla contrada Valli ho deciso di ucciderla, ho preso dalla valigia la rivoltella che avevo portato dall’America e le ho sparato. Poi, convinto che fosse morta, sono andato in paese sperando di incontrare mio cognato per ammazzare anche lui ma non l’ho incontrato e mi sono dato alla latitanza. Aggiungo che nessuno del paese mi ha avvertito del tradimento di mia moglie e se non me lo avesse detto lei, io avrei continuato a ignorarlo.
Santo può dire quello che vuole. Tempi, fatti, circostanze, testimoni, tutto dice che sapeva e che è tornato apposta per uccidere. Omicidio premeditato. È con questa accusa che il 22 febbraio 1914 la Sezione d’Accusa lo rinvia a giudizio.
Il dibattimento si aprirà il 19 ottobre 1915 e il Pubblico Ministero sorprenderà tutti chiedendo di derubricare il reato da omicidio premeditato a omicidio semplice, col beneficio della provocazione grave.
È l’anticamera dell’assoluzione che verrà decretata il giorno dopo, 20 ottobre 1915.
Un anno, dieci mesi e undici giorni è il tempo di permanenza in carcere di Santo Mancuso, reo confesso di omicidio.[3]

 

I CAMINANTI-Quando gli zingari rubavano galline

[1] La grafia originale è pessima. Non c’è certezza che la località indicata nella lettera sia quella giusta, anzi c’è il fondato sospetto che la località sia inesistente. NdA.
[2] Nell’interrogatorio Santo indica come unica residenza durante la sua permanenza negli USA lo Stato della Pennsylvania, contrariamente a quanto fatto scrivere nella lettera di cui abbiamo narrato.
[3] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento