Cosenza, 9 settembre 1882. I tuguri del quartiere di Portapiana si aprono al giorno nascente e ogni vico, ogni anfratto, ogni interno viene illuminato dal sole della vita. Come in una di quelle piazze di bruegheliana memoria, numerosi microcosmi si ridestano dal torpore della notte. Il vicolo è rumore, colore ma, soprattutto, tanfo insoffribile di latrina. Rosina De Napoli ha il compito di svuotarle e pulirle tutte, ogni mattina: costruite in pietra arenaria di Mendicino, quasi ogni stabile ne ha una, ubicata solitamente in una stanzella su di un piano rialzato. Rosina ha quasi terminato il proprio giro quando, intorno alle 8, sente strazianti vagiti provenienti dal fondo dell’ultima, così sudicia, così imbevuta di materie fecali e urinarie che desta un senso indicibile di disgusto. La donna è lucida: chiede aiuto alla filatrice Marianna Aquino, la quale, si rivolge subito al muratore quarantaduenne Agostino De Rose che dovette sfondare il muro per poter estrarre da quella fogna un neonato ancora vivo e ben fatto. Mentre il muratore si reca dai Reali Carabinieri per denunciare l’accaduto, la trentacinquenne Chiara Mirabelli, anch’essa filatrice, ha la premura di prendere con sé il nascituro, legargli l’ombelico e lavarlo dalle immondizie. Poche ore più tardi sarà cura della stessa donna far ricoverare il bimbo, salvato così da sicura morte, presso il locale Brefotrofio, non potendo essere alimentato dalla madre. Già, chi è la madre?
È proprio Marianna Aquino, torchiata a dovere dalle guardie di pubblica sicurezza, a svelare che proprio quella mattina, sua cognata Caterina Gualtieri
[…] non erasi alzata per tempo, ed avea dichiarato che avendo dolore al petto e alla testa preferiva rimanere a letto, sospetto che la scorsa notte fosse sgravata […] Mi confessò di avere partorito un bambino ed averlo gettato per la vergogna nel cesso, soggiungendo di averlo procreato con certo Giacomo Scornajenchi, attualmente soldato.
Individuata la presunta rea, l’accusa è presto fatta: mancato infanticidio. Vengono ordinate tre perizie. La prima riguarda il nascituro. Di sesso maschile, evidenzia costituzione salubrissima e floridissima nutrizione. Due ferite però destano l’attenzione dei medici: una lividura nella regione clavicolare sinistra lunga nove centimetri con nel mezzo due abrasioni e un’altra di minore entità alla gamba. Prodotte da corpo contundente e lacerante, entrambe le ferite vengono giudicate guaribili in cinque giorni. La perizia sulla latrina si basa invece sull’entità del diametro di quel cesso: poteva benissimo intromettersi un bambino che restando in quella località doveva certamente morire per asfissia e inedia. La terza perizia è, infine, sulla donna. I medici che visitano Caterina Gualtieri due giorni dopo il fatto, la trovano gettata sul letto col viso alquanto pallido e gli occhi umettati di lagrime. Spogliato dalle vesti, quel corpo di donna evidentemente provato mostra un addome raggrinzito e nella regione del basso ventre pieghe trasversali numerosissime. I capezzoli delle mammelle sono prominenti, le glandule mammarie sviluppate. Infine i genitali: trovati bagnati da umori sanguigni, l’atrio vaginale oltre a essere dilatato si mostrava contuso e leggermente abraso ed insieme l’orificio dell’utero permetteva facilmente l’introduzione degli indici. La donna è, in breve, sgravata di fresco. Il verbale dei Reali Carabinieri è il preludio all’arresto della donna, immediatamente tradotta nelle carceri di Cosenza dove, il giorno successivo, viene interrogata del Giudice Istruttore del Tribunale, Alfonso Tucci.
Al far del giorno di sabato 9 andante mese, come mi destai ho avvertito dolori alla schiena e al ventre, mi alzai dal letto e mi recai al cesso per fare un bisogno corporale. Poco dopo seduta intesi cadere una qualche cosa in quel luogo senza che avessi inteso vagire.
Deducendo da ciò che era partorita, Caterina racconta al giudice di essere subito corsa a vestirsi giacché si trovava con la sola camicia. Confessa, inoltre, di sapere di essere gravida, ma che contava di dover figliare ai quindici di settembre. Le avvisaglie del parto erano cominciate però già ai primi del mese, con macchie continue alla vulva accompagnate da leggeri ma crescenti dolori a ventre e schiena. Fino a quando seduta come al solito al cesso, intesi che usciva una cosa che cercai di trattenere e di prendere. Le novità più rilevanti del racconto di Caterina riguardano quello che, pochi giorni prima, i Reali Carabinieri avevano definito frutto di illeciti amori con un tal Scornajenchi.
Confesso di avere avute relazioni illegittime per sole tre volte nel dicembre ultimo in persone che non voglio nominare. Come mi avvidi di essere incinta feci ciò noto all’individuo con cui aveva avuto commercio e lo stesso mi consigliò che sgravando dovessi esporre il neonato nella casa di nutrizione e questa pure era la mia intenzione. Quando dal cesso sono sortita per vestirmi nulla dissi alla detta Aquino, ma ciò feci per pudore, e per la stessa ragione negai sempre di essere incinta alle persone che mi domandavano. Ripeto di non volere indicare l’individuo che mi ha ingravidato e dichiaro che questo tale non fu affatto Giacomo Scornajenchi.
Le indagini proseguono. Nel frattempo, la voce pubblica rapida e implacabile porta all’attenzione del giudice istruttore notizia di un’altra possibile gravidanza volutamente occultata da Caterina. Sottoposta a nuovo interrogatorio il 29 dicembre è la stessa donna a far chiarezza su dicerie che potrebbero aggravare la sua posizione:
Anni dietro un tale Oronzio Campiorano del cui non conosco le altre generalità, si pose ad amoreggiare con me con l’intendimento di unirsi in matrimonio. Amoreggiando ne venne dopo che ebbi la disgrazia di avere con lui relazioni illecite e così mi sono ingravidata. Nei principi di gennaio dello scorso anno [1881] dopo fatto giorno mi sono abortita e ho fatto una bambina morta, ma non so dirvi se una di cinque ovvero di sette mensi; la avvolsi tra le fasce, la consegnai alla mia vicina Maria Pellegrino per farle dare sepoltura.
Il vaso è più che colmo, il fascicolo oramai formato. La macchina della giustizia è pronta in tutto il suo splendore a formulare il capo d’accusa. Il 16 febbraio del 1883 Caterina Gualtieri è condotta a Catanzaro dinanzi a Orazio Scalfaro, presidente della Corte d’Appello delle Calabrie, per udire le accuse a proprio carico ed essere rinviata a giudizio presso la Corte di Assise di Cosenza.
Caterina Gualtieri fu ingravidata a seguito di occulte relazioni con un giovine la cui identità non è però precisata. La donna fece di tutto per occultare la gravidanza a parenti e vicini e, al termine della gestazione, il 9 settembre del 1882, partorì dando alla luce un bambino in ottime condizioni di salute. Qui ha inizio quello che il presidente del collegio d’accusa chiama malvagio brutale disegno di gittare nel cesso quella infelice creaturina. Ma quell’incomodo chiamato semplicemente natura venne in soccorso del neonato: mentre puliva la latrina, Rosina De Napoli ne avvertì i vagiti e si affrettò ad allertare la padrona di casa, Marianna Aquino, cognata di Caterina. Queste affettuose donne, continua il requirente, si affrettarono a estrarre la creatura dal putridume di quella cavità con l’aiuto del muratore Agostino De Rose, campandola così da certa e sicura morte. La Aquino si recò quindi dalla snaturata madre per avvertirla dell’accaduto e questa accolse pietrificata, senza proferir verbo il suo racconto. Più tardi ritrovò le parole, sforzandosi di dare a credere che mentre adempiva al bisogno naturale del corpo, era stata sorpresa dal parto e questo [il neonato] precipitava nel cesso. Ma i bambini non vengono fuori così facilmente come fecce e orina. Con sapienti e scientifiche perizie, conclude il requirente, si acclarava che il neonato fu gittato nel cesso essendo fisicamente impossibile che avesse potuto essere l’effetto del caso, vale a dire di parto precipitoso nell’atto che la madre avesse accurato un bisogno corporale. L’intenzione omicida di Caterina Gualtieri è così dimostrata. Messa dinanzi a siffatte accuse la donna non trova altre parole.
Libera e sciolta ma guardata a vista dalla forza pubblica, il 5 maggio del 1883 alle 10.30, Caterina Gualtieri viene condotta davanti ai giudici della Corte d’Assise di Cosenza. Su richiesta del pubblico ministero si decide di procedere a porte chiuse: questa causa può essere pericolosa per la morale e cagione della natura del fatto. Sbarrate le porte si fa la conta dei componenti del collegio giudicante e dei testimoni. Ha quindi inizio il dibattimento, culminante nella richiesta del pubblico ministero ai giurati di un verdetto affermativo di colpabilità per tentato infanticidio. Tradotto: tre anni di carcere oltre al pagamento delle spese processuali. La richiesta di pena, relativamente mite, dipende tutta dalla concessione della scusante della causa di onore e dal beneficio delle circostanze attenuanti. Il difensore e l’accusata non fanno altro che rimettersi alla giustizia della Corte per quanto concerne l’applicazione della pena carceraria. Il 5 maggio 1883 il collegio giudicante conferma quanto chiesto dalla pubblica accusa: 3 anni di carcere compreso il di già sofferto. Alla ricerca di una più lieve condanna e considerando le attenuanti, Caterina e il suo avvocato decidono di ricorrere in Cassazione per l’annullamento della precedente sentenza. La concessione di una temporanea ammissione della donna in libertà provvisoria, fa sperare in un esito favorevole.
Il 6 giugno del 1883 Caterina Gualtieri, nubile, impossidente e analfabeta, viene condotta a Napoli. A mani legate. Per lei, donna di Portapiana, quartiere di vita, lavoro e amori proibiti, la capitale partenopea assume il volto fiero e inflessibile del giudice Avitabile che, a seguito di una lunga requisitoria, mette fine ad ogni quistione: il ricorso di Caterina, madre snaturata e quasi infanticida, è rigettato.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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