L’AMANTE DEL PADRE

È il 19 settembre 1921 e il sole sta ancora spuntando quando Antonio Rotondaro sta andando con i suoi tre muli alla Chiusicella, uno dei fondi che la sua famiglia possiede nei dintorni di Roggiano Gravina. La notte appena finita l’ha passata nella stalla perché il padre, Francesco, lo ha cacciato di casa per l’ennesima volta. I rapporti tra loro non sono idilliaci. Antonio, che ha ormai diciotto anni, non gradisce che il padre, quarantaquattrenne, si porti in casa l’amante e soprattutto che le faccia fare la padrona di casa mentre Antonio, la sorella quindicenne Maria Teresa e la loro madre Maria Rosa debbano starsene buoni buoni a vezzeggiare Concetta Cipolla, vedova cinquantenne. Preferiscono di gran lunga che il padre-padrone se ne vada a dormire dall’amante, almeno possono starsene in santa pace a casa.
La storia va avanti da una quindicina di anni e ai bambini il padre racconta che quella è una loro zia che va in casa per aiutarli. Maria Rosa, da parte sua, sopporta tutto con pazienza, “per queste due creature” dice a sé stessa per giustificarsi  con le donne del vicinato che la rimproverano:
– Commà, io al posto tuo da mò che sarei andata dai Carabinieri! Tu, invece, fai comandare in casa tua una puttana! Il marito le manda i soldi dall’America e lei prende pure quelli di tuo marito e ingrassa!
Perché questo è il giudizio che i paesani danno di Concetta Cipolla, che non teme le ire del marito, se mai venisse a sapere della tresca. Lui le manda i soldi e non vuole sapere niente altro. Poi Concetta rimane vedova e comincia a far dormire in casa l’amante.
Gli anni passano e i figli crescono. E siccome i figli non sono ciechi, si accorgono che quella che gira per casa non è propriamente una zia. Antonio, sentendo in giro storie di onore calpestato che viene lavato col sangue, comincia a litigare col padre perché ponga fine a quello scempio, cattivo esempio per la sorellina e disonore per lui e la madre. Il padre, per tutta risposta, ogni volta che c’è una discussione lo bastona e lo caccia di casa. Quando la moglie comincia a prendere le difese del figlio, Francesco bastona anche lei e li caccia di casa tutti e due. Non vuole sentire ragione: chi non accetta la realtà dei fatti può andarsene.
Forse per sfidare la moglie e il figlio stabilisce che Concetta può disporre liberamente dei frutti che producono gli alberi della Chiusicella. Per Antonio questo è davvero troppo ma non sa bene che fare e allora le liti diventano quasi giornaliere ma poi la situazione sembra calmarsi quando Francesco comincia a dormire quasi ogni notte a casa dell’amante. Non è così, però, la sera di domenica 17 settembre. Padre e figlio litigano per l’ennesima volta e Antonio
deve andare a dormire con gli animali, come abbiamo già visto.
Ma cosa ha in mente il ragazzo quel lunedì mattina mentre se ne va in campagna con i muli per dar da mangiare ai maiali?
Si sente avvilito, impotente, incapace ma anche incazzato più del solito. Un turbinio di sensazioni contrastanti gli attraversano il cervello e non si accorge nemmeno della gente che lo saluta. Però si accorge già da lontano che Concetta sta raccogliendo un cesto di fichi nel suo podere. Ma è ancora il suo o è già della donna?
L’ira ha il sopravvento e accelera il passo per dirgliene quattro. La raggiunge vicino al porcile dove scorre un ruscello melmoso. Lei ha già il cesto sulla testa e sta per imboccare la strada di Santa Maria la Scala:
– Lascia i fichi – le intima.
Concetta, senza mettere giù la cesta, afferra un rametto di un albero e lo spezza, poi gli risponde a tono:
– Io lascio i fichi solo quando ti avrò spezzato in due come questo ramo! – e, come se non badasse più al ragazzo, imbocca il cancello che dà sulla strada.
– Lascia i fichi, ti ho detto! – le urla.
Concetta si gira, posa il cesto per terra ed estrae dalla tasca del grembiule un grosso coltello da cucina.
– Vieni a prenderteli! – lo sfida e, così dicendo, gli si avventa contro.
Antonio si ripara con le mani nude dai fendenti e il sangue comincia a scorrergli dai tagli. Poi riesce a far perdere l’equilibrio alla donna e le è sopra.
È giovane, è forte, le blocca la mano armata e stringendo più che può riesce a farle cadere il coltello. Concetta si dibatte come una furia, lo graffia, ma ormai è disarmata e il coltello è saldamente nelle mani di Antonio, che comincia a colpirla con furia cieca. Non risparmia nessuna parte del corpo, colpisce, colpisce, colpisce.
Vincenzo Patitucci, che abita lì vicino, sente le urla della donna e, nonostante sia debole per la malattia di cui soffre, si avvicina ai due e assiste ai colpi. Cerca di convincere il ragazzo a smetterla:
– Totò, basta, abbi pietà, così l’ammazzi… smettila e dammi il coltello – lo implora – ti rovini la vita così…
– Vattene! Vattene che ammazzo pure te! – gli urla con una voce che non è più la sua, mentre lo guarda con gli occhi di fuori.
Il povero Vincenzo capisce che non può nulla contro quella furia scatenata e si allontana in cerca di aiuto, mentre Antonio continua a colpire e colpisce anche quando ormai Concetta non è che un giocattolo rotto nelle sue mani. Spezzato da diciotto coltellate.
Poi si alza, grondando sangue e sbuffando ancora rabbia. Butta il coltello nel ruscello e si allontana a passo svelto nella campagna. Non bada nemmeno ai tagli che ha sulle mani. Sa solo che si deve allontanare da lì, se dovesse arrivare il padre lo ammazzerebbe a revolverate, perché il padre gira sempre armato e morto lui sarebbe come avere portato nella tomba anche la mamma e la sorella, sole in balia del padre-padrone. In quei momenti non riesce a realizzare che ha ammazzato un essere umano e che quasi sicuramente passerà il resto della sua vita in carcere.
Poi una voce lo fa uscire dallo stato mentale di semincoscienza in cui era caduto.
– Totò, che hai fatto? Che è successo? – gli chiede Francesco Paladino quando vede Antonio, tutto sporco di sangue, che si inoltra nel suo fondo.
Addio compà, non so se ci rivedremo… – gli risponde ormai consapevole del proprio destino.
– Ma che dici? Fermati! Vieni qua… che è successo? Fermati, fatti aiutare… – ma Antonio non si ferma e sparisce tra gli alberi.
Una pattuglia di Carabinieri sta perlustrando una zona a un paio di chilometri dalla Chiusicella quando viene avvisata che c’è una donna morta lì vicino. Quando i due carabinieri arrivano sul posto si trovano davanti una scena raccapricciante: il cadavere martoriato di Concetta Cipolla quasi del tutto immerso nel fango e contornato da una grande quantità di fichi bianchi. 
Subito scattano le ricerche ma di Antonio non c’è traccia. Molti testimoni raccontano al Pretore di San Marco Argentano delle liti familiari causate dalla relazione adulterina e il Pretore si convince che a scatenare la furia omicida di Antonio sia stato il padre e lo fa arrestare come istigatore del delitto. Lui nega anche di aver mai avuto una relazione con la morta e dice, a differenza di tutti gli altri, che il figlio è un buono a nulla e che, si, qualche volta lo ha allontanato da casa, ma era solo per cercare di educarlo alle buone maniere. È chiaro che quella del Pretore è una mossa azzardata e presto Francesco sarà scarcerato ma resterà imputato a piede libero.
Antonio si costituisce negli uffici della Procura di Cosenza due giorni dopo, accompagnato dal suo avvocato.
Il paese si schiera con lui, la madre e la sorella. Ha fatto bene a fare quello che ha fatto e avrebbe fatto ancora meglio ad ammazzare anche il padre.
Alla fine delle indagini, sei mesi dopo, Antonio viene rinviato a giudizio per omicidio volontario e il padre prosciolto per insussistenza del reato.
Antonio aspetterà in carcere fino al 2 luglio 1923, giorno in cui la Corte d’Assise di Cosenza lo assolverà.
La formula è quella che di solito si usa dei delitti d’impeto, legati in qualche modo all’onore:
Sussiste, a favore dell’imputato il fatto che si trovava in quel momento in tale stato d’infermità di mente da togliergli la coscienza e la libertà dei propri atti.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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