Sono le undici del 2 gennaio 1927 quando il dottor Nicola Magliari di Cosenza bussa alla porta della caserma dei carabinieri. Ad aprire è il maresciallo maggiore Michele Pelaia. Il medico gli spiega brevemente che ha visitato un certo Gennaro Giordano di ottant’anni, ferito accidentalmente da una fucilata in faccia, così gli è stato riferito, e ha consigliato ai figli di ricoverarlo nella casa di salute Cascini perché ritiene indispensabile e urgente un intervento chirurgico.
– Che impressione avete avuto voi, a prescindere da quello che vi hanno detto? – gli fa il maresciallo.
– Onestamente non so perché, forse è solo la mia impressione… tutti gridavano e facilmente potrei sbagliarmi, ma un’occhiata più approfondita la darei. Una cosa è certa: se non si sbrigano a operarlo, il vecchio non ce la può fare!
Il maresciallo e due carabinieri si precipitano nella clinica per provare a interrogare il ferito prima che sia troppo tardi. Lo trovano con la faccia quasi completamente bendata. Dalla bocca esce un fiotto costante di sangue e Pelaia capisce subito che è inutile fargli delle domande. Concentra, invece, la propria attenzione sui parenti che stazionano nel corridoio e che con i loro lamenti disturbano tutti i malati. Per farsi spiegare come sono andati i fatti e anche per togliere un po’ di gente dalla clinica, il maresciallo porta in caserma i due figli maschi del vecchio, Antonio di quarantasette anni e Carmine di cinquantuno, e i due generi, Pietro Filice e Michele Presta. Tutti sono concordi nell’affermare che il vecchio voleva suicidarsi e aveva preso il fucile carico appeso al muro e, mentre stava per spararsi era arrivato il figlio Antonio che cercò di disarmarlo. Ne era nata una colluttazione durante la quale disgraziatamente era partito un colpo che centrò il vecchio in pieno viso, riducendolo in fin di vita.
– Ohi marasciallu miu! Ohi patre miu! Chi m’avìa de venire! – comincia urlare Antonio prendendosi a pugni e graffiandosi il viso a sangue – Ohi chiru patre miu bbuanu e bravu… nente n’ha fattu mancare! Sempre cullu risu n’ha pigliatu! A mia avìa de cogliere a shcuppettata! Ohi marascià, facitimi jire all’abbrazzare a tata miu!
Pelaia è un vecchio marpione e lo osserva attentamente ricavandone l’impressione che Antonio stia recintando una parte già preparata. Ordina al brigadiere Iorfrida di fare allontanare tutti gli altri e rimane solo con Antonio.
– Hai detto che sei arrivato mentre tuo padre stava per spararsi, come mai non è intervenuto nessun altro prima di te?
– Un c’era nullu…
– E se non c’era nessuno come fanno a dire che hanno sentito un colpo? E poi non riesco a capire come è possibile che un pezzo d’uomo forte come te non sia riuscito a disarmare un vecchio come tuo padre…
– Chi ni sacciu marascià! Parìa nu liune!
– Chi è andato a chiamare il dottore Magliari? E perché nessuno è venuto ad avvisare noi?
– Canatimma è jutu…
– Ma non eri da solo in casa?
– Si… ma… pù sunnu venuti… – farfuglia cominciando a perdere la propria sicurezza.
– Chi è venuto? – Pelaia ormai è convinto che ci sia qualcos’altro sotto e morde sul collo – tuo padre abita da solo?
– Tutti sunnu venuti… Mamma e papà stannu ccu mia e muglierma…
– Tutti chi? E tua moglie e tua madre dov’erano?
– Tutti… un c’eranu…
– E dov’erano andate? – Antonio crolla la testa e non risponde, poi inizia di nuovo a picchiarsi.
Pelaia decide di andare immediatamente a fare un sopralluogo, non prima però di aver chiuso Antonio in camera di sicurezza.
L’abitazione dei Giordano, una casa colonica in contrada Timpone degli Ulivi, è composta da una piccola stanza di ingresso che funziona anche da cucina, da una seconda stanza usata come soggiorno e, in ultimo da una terza stanza dove sono sistemati due letti matrimoniali in uno dei quali dormono i vecchi genitori e nell’altro Antonio e sua moglie. Quando arrivano i carabinieri in casa ci sono solo la vecchia madre, quasi cieca e con facoltà mentali molto indebolite, tanto che nemmeno si è resa conto di ciò che è successo, e la moglie di Antonio, Maria Presta. Pelaia le fa qualche domanda e Maria gli fornisce la propria versione dei fatti:
– Verso le sei e mezza mi sono alzata e stavo andando nell’altra stanza per vestire il mio bambino, quando ho sentito mio suocero che diceva “Vi ammazzo… vi ammazzo” e dopo qualche istante due colpi di fucile venire dalla camera da letto. Sono corsa immediatamente e ho visto mio suocero sul letto in una pozza di sangue e il fucile a terra ai piedi del letto. C’era mio marito che mi ha detto: “Ho cercato di strapparglielo dalle mani perché mi voleva sparare e sono partiti due colpi…”.
Due colpi? Qualcosa non quadra, finora si è parlato di un solo colpo. Pelaia raccatta il fucile che è ancora a terra e constata che la donna ha ragione: nella doppietta ci sono due cartucce esplose. Comincia ad approfondire le indagini e non tarda a scoprire che i rapporti tra padre e figlio erano abbastanza tesi da alcuni mesi, da quando, cioè, Antonio era tornato senza un centesimo dall’America e avrebbe preteso che il padre gli avesse donato ogni suo avere per poterne disporre a suo piacimento. Il vecchio, sapendo che il figlio non era farina da ostie, rifiutò e, anzi, disse al figlio di trovarsi un’altra sistemazione e di andarsene da casa. Ma Antonio non solo non se ne andò, ma continuò ad adoperarsi per ottenere il proprio scopo.
Pelaia torna in caserma per chiedere spiegazioni ad Antonio e questi, non appena il maresciallo si presenta alla sua vista, estrae dal panciotto un coltellino a serramanico
– M’ammazzu! – urla mentre il maresciallo tenta di lanciarglisi addosso per disarmarlo, ma non arriva in tempo. Antonio, con un colpo fulmineo, si taglia la gola da un orecchio all’altro. Pelaia urla e accorrono altri carabinieri che tamponano alla meglio quell’orrendo squarcio. Per sua fortuna basta solo attraversare Piazza Carmine per arrivare all’ospedale e lì i medici lo sottopongono a un delicato e lungo intervento chirurgico, salvandogli la vita.
In quegli stessi momenti, due uomini, Domenico Pacifico e Luigi Filice, si presentano in caserma e dicono di sapere delle cose molto importanti circa il tragico fatto. Pelaia torna in fretta e furia nel suo ufficio e ascolta quello che hanno da dire. Dice Pacifico:
– Stamattina fui uno dei primi ad accorrere nella casa di Gennaro Giordano. Quando entrai lo vidi per terra tutto insanguinato che, lamentandosi, diceva: “Mi ha ammazzato… mi ha ammazzato… mi ha ammazzato mio figlio Antonio”.
Giovanni Filice aggiunge:
– Stamattina verso le dieci, a Timpone degli Ulivi ho incontrato diverse persone che trasportavano un uomo ferito. Mi sono avvicinato e ho visto che si trattava di Gennaro Giordano, mio conoscente, il quale gridava: “mi ha ammazzato… mi ha ammazzato mio figlio Antonio”.
A questo punto Pelaia, con il vicebrigadiere Iorfrida, corre alla clinica Cascini e trova Gennaro in un momento di lucidità: vuole approfittarne per riuscire a fargli dire il nome dello sparatore. Con il vecchio c’è un’infermiera, la signorina Franceschina Fameli, e il maresciallo la trattiene nella stanza per assistere come testimone e così raccoglie le parole del povero vecchio:
– Marascià… stamatina… ara casa mia… figliuma Totonnu m’ha sparatu pecchì vò ca li dugnu a robba mia…
Gennaro non passa la notte. Verso le tre spira per la gravità delle ferite alla testa.
Pelaia interroga di nuovo Carmine Giordano che ripete:
– Verso le sette ero fuori per soddisfare un bisogno corporale quando udii due colpi di fucile sparati nella casa dei miei genitori e, preoccupato, sono corso a vedere. Nella stanza da letto c’era mio padre in mutande e camicia, senza calze, riverso nel letto, orrendamente ferito in faccia. Nella stanza, oltre a mio padre, c’era solo mio fratello Antonio al quale ho chiesto cosa era successo e lui mi ha risposto che nostro padre aveva preso il fucile per tringuliare e che per evitare che accadesse qualcosa di brutto aveva cercato di disarmarlo ed erano partiti i colpi. Mentre Antonio mi raccontava ciò, mio padre, lamentandosi, diceva: “signu muartu… signu muartu…”.
– Secondo te come mai tuo padre era in mutande? – gli fa il maresciallo.
– Beh… mio padre era solito coricarsi in mutande, camicia e senza calze.
– Quindi tuo padre era ancora coricato nel letto quando sono partiti i colpi… che sono stati due, vero?
– No, mi sono sbagliato, mio padre era per terra quando sono entrato nella stanza… i colpi sono stati due…
– E perché prima hai parlato di un solo colpo?
– Uno? Mi sarò sbagliato…
– Vedremo… – fa, sibillino, Pelaia – per adesso rimani qui in camera di sicurezza!
– No! Unn’è fattu nente! È stata ‘na disgrazia! – urla mentre i carabinieri lo portano in cella.
– Andiamo a prendere la nuora e facciamola riposare un po’ al fresco, così vediamo se si schiarisce le idee – fa il maresciallo rivolto al vicebrigadiere Iorfrida.
In casa Giordano ancora è tutto come la mattina della disgrazia e Pelaia si mette a osservare con attenzione il letto dei due vecchi. Nota subito che sul muro dietro il letto, proprio all’altezza del cuscino, ci sono i segni lasciati dai pallini. “Se stavano lottando come dicono i figli quei fori dovrebbero trovarsi più in alto…” pensa. Poi guarda il lenzuolo disfatto e intriso di sangue, lo rimette a posto e ha la conferma che non si tratta di una disgrazia ma di omicidio: il lenzuolo, all’altezza del cuscino, è sforacchiato e intriso di sangue. Questo dimostra che il vecchio era coricato con la faccia coperta dal lenzuolo. Pelaia torna in città e corre in ospedale dove Antonio è ricoverato con la gola squarciata.
– Dimmi la verità – gli fa nella sala del pronto soccorso dove ancora l’uomo si trova dopo essere stato ricucito.
– Signu statu iu… – gli risponde con un filo di voce.
Il caso sembra risolto. Carmine Giordano e la moglie di Antonio vengono rilasciati ma Antonio, qualche giorno dopo davanti al Giudice Istruttore, ritratta. Ammette le continue liti con il padre che lo accusava di dilapidare i pochi averi della famiglia, dice che anche quella mattina avevano litigato ma giura che i colpi sono partiti accidentalmente durante la colluttazione.
– Due? Tu hai detto uno…
– Dua, marascià…
L’esito dell’autopsia però lo smentisce. I medici osservano che a produrre l’orrenda ferita che ha portato via mezza faccia al povero Gennaro Giordano è stato un solo colpo di fucile sparato a non più di quaranta centimetri di distanza e che, soprattutto, “non si ritiene possibile una colluttazione fra il defunto ed il suo uccisore, in quanto che l’arma lunga adoperata nella esplosione del colpo avrebbe certamente subito una deviazione e probabilmente anche senza offendere l’ucciso Giordano”. Ma la difesa di Antonio non è d’accordo e chiede una nuova perizia. E di perizie supplementari ne verranno fatte due dal momento che non c’è unanimità di giudizi tra i tre periti e i dubbi non saranno fugati.
Resta anche il dubbio se dal fucile partì un solo colpo oppure due. L’evidenza direbbe due colpi ma se uno certamente ha colpito il vecchio, dove sono le tracce dell’altro? La perizia fatta sul fucile chiarisce tutto: è categoricamente esclusa la possibilità che da quell’arma siano potuti partire due colpi consecutivi in modo accidentale.
Antonio Giordano viene rinviato a giudizio il 27 giugno 1927 e il processo comincia il 13 dicembre 1928.
Il dibattimento è veloce. Spuntano però molti testimoni i quali sostengono che il vecchio da un po’ di tempo dava segni di squilibrio mentale e i due figli del morto sostengono di avere segnalato il fatto alle autorità. Anzi, Antonio Giordano sostiene di avere avvisato il marchese Eugenio Caselli il quale avrebbe dovuto informare le autorità. Il marchese viene citato come testimone ma siccome abita a Napoli non si presenta e a nessuno viene in mente di disturbarlo. Di tutto questo però la Corte non trova alcun riscontro.
Il 14 dicembre la Giuria popolare emette il verdetto: assoluzione. Antonio non ha ucciso volontariamente il padre.[1]
Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta
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[1] ASCS, Processi Penali.
N.B. non risulta ricorso in appello da parte della Procura.
N.B. non risulta ricorso in appello da parte della Procura.
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