IL CORNUTO IMMAGINARIO

– Puttana! – sono le dieci di sera del 10 agosto 1910 quando Francesco Bisceglie, Tartariellu, settantaseienne contadino di Donnici Superiore, sveglia la moglie insultandola e dandole una rasoiata dietro l’orecchio sinistro. Per fortuna la ferita è superficiale e non ci sono ulteriori conseguenze.
Ma questo, per la settantaduenne Giuseppina Carvelli, è l’ennesimo episodio di una vita passata a sopportare le angherie di suo marito e non ce la fa davvero più. Lui la accusa di continui tradimenti ora con uno e ora con l’altro. Pensa, addirittura, che tre dei suoi quattro figli siano figli di altri uomini, ma tutti in paese giurano sull’onestà passata e presente di Giuseppina. Ne è convinta anche Raffaella Bisceglie, la sorella di Francesco, che ha sempre abitato con loro e che non usa mezzi termini quando i Carabinieri la interrogano in merito alla rasoiata:
– Da parecchio tempo ha dato manifesti segni di alienazione mentale tanto che commette stranezze di ogni genere. Egli ha sempre bastonato la moglie e la maltratta sempre ed urge anzi ricoverarlo in un manicomio.
Che Francesco abbia qualche problema è risaputo in paese e anche il Giudice Istruttore Giannuzzi se ne rende conto quando lo interroga:
– Non solo mi tradiva, ma aveva tentato anche di farmi assassinare. Immaginate che qualche anno fa, quando mi ero dato alla latitanza perché la giustizia mi cercava in seguito alla querela che mia moglie mi aveva fatto, mentre la notte vagavo per i campi una mano invisibile mi dava dei colpi sul petto, tanto da farmi cadere a terra. Qualche giorno dopo questo episodio mi mandò a chiamare un certo Gaetano Ricca, che adesso è morto, e quando io mi mossi per andare all’appuntamento, la stessa mano invisibile mi costrinse a fermarmi. Qualche giorno dopo incontrai Gaetano Ricca, gli chiesi che cosa volesse da me e lui mi rispose: Ti ha aiutato Gesù Cristo, volendo dire che se non avessi avuto l’impedimento della mano invisibile e fossi andato all’appuntamento, mi avrebbe ammazzato e certamente lo avrebbe fatto per istigazione di mia moglie, perché, signor giudice, dovete sapere che lei, nonostante i suoi anni, ha ancora delle voglie giovanili e mi tradisce continuamente.
Giannuzzi lo guarda stupito, poi ha pietà di quello che gli sembra solo un vecchietto un po’ strambo che l’ha combinata grossa ed in attesa di predisporre gli atti per farlo sottoporre a perizia gli concede la libertà provvisoria.
Francesco torna a casa ma non trova più la moglie che ha avuto ospitalità a casa della figlia Rosina, a Vico di Aprigliano, distante pochi chilometri, dove resta quasi un anno, poi si ammala e torna a Donnici, ospite della famiglia di Pietro De Simone, non lontano dalla casa del marito, pensando che il marito si sia calmato. Ma si sbaglia. Francesco ora sospetta che Giuseppina se la faccia con De Simone e col padre. Non avendo accesso alla casa dove abita la moglie, pensa bene di comprare un litro e mezzo di petrolio e della miccia, per mezzo dei quali, una notte della fine di agosto 1911, appicca il fuoco alla porta dei De Simone con l’intenzione di provocare un incendio e far morire arsi tutti gli abitanti della casa. Anche questa volta, per fortuna, i suoi piani falliscono perché la padrona di casa sente nel sonno l’odore acre del fumo, sveglia il marito e insieme riescono a domare le fiamme che avevano già quasi distrutto il portone.
Francesco viene subito arrestato e subito di nuovo rilasciato, mentre la moglie torna a Vico di Aprigliano dalla figlia. Questa volta anche Raffaella, la sorella di Francesco, si è stancata della situazione e segue la cognata, lasciandolo da solo a badare ai suoi fantasmi.
Ma l’età, i continui maltrattamenti, le paure e gli strapazzi degli ultimi giorni fanno ammalare Giuseppina e dopo appena una settimana, l’8 ottobre, muore.
Raffaella torna a vivere col fratello perché pensa che, essendo venuta meno la causa, i fantasmi, la mano invisibile e tutto il resto che tormenta la mente di Francesco dovrebbero pian piano dissolversi e lei è pronta ad aiutarlo. Invece no, si sbaglia. I fantasmi restano tutti lì e lo spingono contro di lei, colpevole di averlo lasciato da solo per assistere la puttana.
Le discussioni, più o meno animate, sono quotidiane, ma Raffaella non se ne cura più di tanto, deve aiutare il fratello e tira avanti. Fino al 14 ottobre.
Francesco è più agitato del solito. La mattina presto si siede sulla scala di casa e si mette ad affilare due rasoi. Una conoscente, Maria Ricca, passa davanti a lui e sapendo della sua stranezza, in tono scherzoso gli chiede:
– Che fai con quei rasoi? Vuoi ammazzare di nuovo Peppina? – riferendosi alla moglie già morta.
Non sai quanto mi pento di non averlo fatto! – le risponde, serio, facendole gelare il sangue nelle vene.
Dopo poco si allontana da casa e vaga senza meta per i campi, tornando che è già buio. Raffaella ha già mangiato, ha lasciato apparecchiato e si è coricata. Il fratello si siede, giochicchia un po’ col lumino a olio che manda una luce sempre più incerta e tremolante, poi si alza senza toccare cibo, spegne il lume e si mette anche lui a letto.
Non c’è intimità nell’unica stanza di cui è composta l’abitazione: sul lato destro della porta d’ingresso c’è il letto matrimoniale nel quale dorme Francesco; sul lato sinistro c’è il lettino di Raffaella; di fronte all’ingresso una finestrella e nell’angolo un focolare; nel centro un tavolino e quattro sedie.
– Non mi dovevi svergognare così – la voce di Francesco rimbomba nel silenzio della notte.
– Finiscila e dormi – lo rimprovera la sorella.
– Non te ne dovevi andare con la puttana, mi hai lasciato da solo senza nessuno che mi curasse per andare ad assistere quella…
– Adesso basta! Dormi e lascia in pace i morti! Tua moglie era onestissima, sei tu che hai la mente malata e vedi tradimenti dappertutto.
– Ah! Allora io sarei pazzo? Dillo chiaramente.
– Si, sei pazzo! Io sono tornata per assisterti, ma se continua così me ne andrò di nuovo. Adesso calmati e dormi.
– Io non mi calmo un cazzo! – urla mettendosi a sedere nel letto – tu mi hai abbandonato e io dovrei calmarmi? – Raffaella non può vedere i suoi occhi furenti nel buio, ma può ascoltare il suo sbuffare dalle narici come un toro imbestialito.
– Calmati adesso… può darsi che io abbia sbagliato in qualcosa… – abbassa il tono per cercare di ammansirlo perché sa che è un uomo malato e capace di tutto – adesso dormiamo, ne parleremo domani mattina…
– Io non ne voglio parlare domani mattina! Io so soltanto che mi hai abbandonato per assistere la puttana! – urla ancora più forte. Poi si alza, nel buio tende una mano verso il muro alle spalle del letto, lo tasta tre o quattro volte e finalmente sente nella sua mano il manico della scure – Io non ne voglio più parlare perché adesso ti ammazzo! – continua a urlare. Raffaella capisce che il fratello sta facendo sul serio quando sente il rumore della scure che tintinna sul ferro del letto. Si alza di scatto e, nel buio, cerca di raggiungere la porta per scappare, ma Francesco è già lì con la scure alzata, pronto a percepire gli spostamenti della sorella per colpirla.
Non appena avverte un movimento accanto a sé vibra il primo fendente che colpisce la sorella alle spalle. Raffaella cade e Francesco è sopra di lei e la colpisce ripetutamente alla cieca fin quando non sente più il respiro della sventurata. Poi con calma, sempre al buio, si riveste, apre la porta ed esce. Prima di allontanarsi mette la chiave nella toppa, richiude la porta e si dirige verso la città.
Le prime luci dell’alba lo raggiungono proprio davanti la caserma dei Carabinieri in Piazza Carmine. Bussa e non appena il piantone gli apre e lo vede sporco di sangue, confessa:
– Ho ucciso mia sorella, è a Donnici…
Quando il Giudice Istruttore Gaetano Rossi, accompagnato dal Maresciallo Luigi Meggiorin e dai medici legali Michele Perris e Alessandro Adriani, arriva davanti alla casa di Francesco Bisceglie, trova già un sacco di gente inferocita ad aspettarli.
La scena che appare ai loro occhi è terrificante. Il cadavere, completamente nudo e bocconi, è straziato e coperto di sangue. Il viso è una orribile macchia nera di ecchimosi e sangue raggrumato, il cranio è spaccato e ne fuoriesce della materia cerebrale; lesioni, contusioni e sangue secco sono su tutto il corpo. Per terra un lago di sangue raggrumato nel quale sono immersi un lenzuolo, un cuscino, un sacco vuoto, un orecchino d’oro e altri oggetti. Larghe macchie di sangue si notano anche sul materasso e su una sedia. Ai piedi del letto matrimoniale la scure, rossa di sangue.
Il cadavere viene portato nella cappella del cimitero e i due medici, dopo averlo lavato accuratamente, riscontrano sulla schiena almeno quindici colpi di scure, dati col taglio e col dorso, e un numero imprecisato di colpi, presumibilmente calci. Anche le braccia e le gambe sono martoriate.
Ma è la testa quella a presentare le lesioni mortali. Rasati i capelli, i medici osservano sulla parte posteriore una ferita che, spaccato l’osso, ha spappolato il cervello, un’altra ferita che ha scheggiato l’osso, un’altra ancora dietro l’orecchio sinistro, quasi del tutto staccato. Colpi di scure si sono abbattuti anche nella zona parotidea sinistra, sulla guancia sinistra, sul mento e sullo zigomo dello stesso lato. Entrambi gli occhi sono tumefatti e quasi fuori dalle orbite. Almeno altri dieci colpi di scure, tra taglio e dorso. Tutti i colpi, dicono i medici, sono stati inferti con violenza inaudita.
– Mia sorella abitava con me e mia moglie, prima che questa morisse. Mia sorella andava appresso a quella puttana di mia moglie ma non so se le facesse da ruffiana. La cosa certa è che andava appresso a lei e si disinteressava di me. Ho sbagliato, signor Giudice, – dice Francesco quando Gaetano Rossi lo interroga – ho sbagliato perché prima di uccidere mia sorella avrei dovuto uccidere mia moglie che invece è morta tranquilla nel suo letto.
L’assassino viene rinchiuso nel carcere di Cosenza e dopo dieci mesi il Pubblico Ministero scrive la sua richiesta:
Letti gli atti
Poiché emerge chiaramente dagli atti che il Bisceglie è in condizioni mentali non perfettamente normali ed è necessario ai fini di giustizia accertare il suo stato psichico per le ulteriori provvidenze da emettere, ai sensi degli artt. 46 e seguenti del Cod. Penale,
Chiede che il Giudice Istruttore sottoponga l’imputato ad analoga perizia psichiatrica presso un manicomio o un istituto di antropologia criminale.
Cosenza, 18
giugno 1912
Quattro giorni dopo ne viene disposto il ricovero in una struttura psichiatrica. Quella prescelta è il manicomio giudiziario di Aversa nel quale fa il suo ingresso l’11 agosto.
I primi giorni di novembre, nell’ufficio del Giudice Istruttore arriva una scarna comunicazione da parte del direttore del manicomio:
Aversa, addì 29 ottobre 1912
Per conveniente notizia, partecipo alla S.V. Ill.ma la morte del detenuto giudicabile al margine indicato, imputato di omicidio in persona della sorella Raffaela e qui ricoverato dall’11 agosto 1912 in seguito ad ordinanza emessa da V.S. Ill.ma il 22 giugno 1912.
IL DIRETTORE
È tutto finito. I protagonisti di questa triste vicenda sono tutti e tre morti, in un modo o nell’altro.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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