I DELITTI DI VIA PADOLISI – 2^ parte

Sette anni sono lunghi da passare in carcere da innocente e per giunta in quella sorta di lager che è il carcere di Pianosa. Ciò che consola Pietro Fera durante le lunghe giornate passate ad ascoltare il rumore delle onde che si infrangono sulla costa rocciosa è solo il pensiero che quando uscirà godrà del rispetto che merita chi rispetta la regola di omertà della mala e che, soprattutto, troverà ad aspettarlo, grata per il suo silenzioso sacrificio, la sua amante Franceschina Bruno. Ed è solo quest’ultimo pensiero che gli attenua la voglia di vendetta contro il fratello dell’amante, Luigi Camposano, al posto del quale sta scontando la condanna con la promessa mai mantenuta di pagargli le spese di giustizia.
Sette anni invece sono brevi per Franceschina che si è sposata con un certo Giuseppe Mazzola, palermitano trapiantato a Cosenza per motivi di lavoro e sono brevi anche per Luigi Camposano il quale peggiora sempre più il suo già pessimo carattere.
Luigi era nato il 21 settembre 1925 nel carcere di Reggio Calabria dove la madre era stata rinchiusa con l’accusa di omicidio poi, ancora bambino, fu portato a Cosenza dai parenti materni (dove già si trovava sua sorella uterina Franceschina) e ben presto manifestò la sua indole violenta e ribelle a ogni regola morale. Nel 1938 la Questura ottenne che Luigi fosse rinchiuso nell’Istituto di Rieducazione di Pisa dal quale uscì nel 1942 dopo aver imparato a fare il calzolaio. Dopo che Pietro Fera andò in carcere al posto suo, Luigi si trasferì a Tivoli dove continuò nel suo cammino di malandrino. A Tivoli conobbe un’operaia, Rosa Marotta, e cominciò a vivere alle sue spalle, riempiendola quotidianamente di botte, tanto che le autorità del posto, dietro le numerose denunce della povera donna, nel 1949 disposero il suo rientro coatto a Cosenza col divieto di mettere piede nella cittadina laziale. Rientrato in città inizia una relazione incestuosa con sua sorella e, ancora non contento, torna furtivamente a Tivoli dove ha il tempo di picchiare selvaggiamente per l’ultima volta la povera Rosa Marotta che ci rimette l’occhio sinistro.
Poco tempo prima di uscire dal carcere, Pietro viene a sapere del matrimonio dell’amante e ci rimane male, ma se ne fa subito una ragione per la felicità del prossimo ritorno alla libertà. Che non nutra rancore nei confronti di Franceschina e del marito lo conferma il fatto che, appena tornato in città, ferma Giuseppe Mazzola e gli fa gli auguri, anche se ormai sono passati sei anni dal matrimonio. Giuseppe, da parte sua, sa tutto della disavventura di Pietro e gli dimostra solidarietà in presenza di Luigi Camposano, davanti al suo banchetto da ciabattino sistemato nell’androne del palazzo dei telefoni, ed è in questa occasione che Fera rimprovera per la prima volta il suo vecchio sodale.
– Nemmeno un centesimo mi hai mandato… nemmeno un pacchetto di sigarette… sei un miserabile! – gli dice con calma, senza mostrare risentimento
– Che soldi ti dovevo mandare che sono stato disoccupato? – si giustifica Luigi.
– Ormai l’ho pagato io il tuo delitto – continua Fera – e meriteresti di essere ammazzato, ma non lo farò. Però devi sapere che sono sempre in tempo per andare in Questura e chiarire la cosa, mandandoti in galera per tutta la vita come sarebbe giusto. Ora aggiustami le scarpe che sono rotte – termina.
Allonga ca ‘un tiegnu tiempu… – gli risponde Camposano con atteggiamento da malandrino.
Fera sbianca in viso ma mantiene la calma. Poi, come se niente fosse, si siede al banchetto e si accomoda le scarpe da solo. La cosa finisce lì e per parecchi mesi i due non torneranno più sull’argomento.
Nel frattempo, Pietro ha un ritorno di fiamma per Franceschina e fa di tutto per diventarne di nuovo l’amante ma non c’è niente da fare, per lei è tutto finito, ha un marito e suo fratello come amante. È già troppo!
Il pomeriggio del 5 ottobre 1952 Pietro Fera va a vedere un film al cinema Italia col suo amico e compare Ernesto Ferraro. Escono alle 20,00 e vanno a bere un bicchiere nella cantina all’angolo tra Via Rivocati e Piazza Riforma, poi si fermano a Piazza Nicola Misasi a comprare delle caldarroste al banchetto di Orlando ‘u castagnaru. Lì vicino c’è anche il banchetto dove Giuseppe Mazzola e Luigi Camposano vendono ficu palette, fichi d’India. Ci sono anche gli altri amici Vito Antonio Carulli e Luigi Ferraro, il padre di Ernesto.
Jamuni vivimu ‘nu bicchiere – propone Pietro a tutta la compagnia e così, tutti insieme, vanno nella cantina che sta accanto al Distretto Militare.
Bevono tre litri di vino offerti da Pietro ma Giuseppe Mazzola e Vito Antonio Carulli lo precedono alla cassa e Pietro se ne risente un po’ e invita gli amici (Luigi Ferraro e Orlando ‘u castagnaru intanto salutano e se ne vanno) ad andare al Bar del Popolo a bere un caffè, questa volta a spese sue. Mentre consumano, a Pietro viene un’idea:
Peppì – dice rivolto a Mazzola – si mi paghi ‘na pasta, cumpru ‘na buttiglia ‘i Strega e na vivimu ccà!
– A disposizione! – risponde quello precipitandosi alla cassa e comprando non una, ma dieci paste e Pietro, da parte sua, compra la bottiglia di Strega ma il proprietario del bar, dato che è quasi mezzanotte, non consente loro di consumare paste e liquore nel locale e gli amici se ne vanno.
Jamu ara chiazza ‘i San Giuvanni – propone Pietro.
No, picchì ni l’hamu ‘i vivere fora? Si passanu ‘e guardie fannu questioni… Jamu ara casa ‘i Peppinu canatima
propone Luigi Camposano e tutti sono d’accordo.
La comitiva, così, arriva davanti la porta al numero 15 di Via Padolisi. Luigi entra in casa per svegliare la sorella e gli altri restano fuori al buio per qualche minuto a cantare canzoni oscene. Poi entrano e la festicciola ha inizio. Accendono la radio ma non danno musica, così mettono dei dischi. Tra vino e liquore sono tutti un po’ brilli e Pietro comincia a corteggiare Franceschina e chiede al marito della donna di mettere il disco di “Malafemmena” ma a questa richiesta Luigi Camposano si oppone fermamente e Pietro comincia a canticchiare le parole che dovrebbero far sciogliere i sentimenti della donna:
Femmena,
tu sì a cchiù bella femmena,
te voglio bene e t’odio
nun te pozzu scurdà…
Sì ‘nu mmerda! – urla Camposani all’indirizzo di Pietro
Jamu fora! – gli risponde Pietro. I due escono e cominciano a discutere animatamente –  Fera gli rinfaccia gli anni di galera fatti per amore della sorella al posto suo. Da dentro si sentono solo le voci concitate ma non si vedono le loro figure, la zona non è illuminata e il lampione più vicino è a molti metri di distanza. Preoccupati che possa accadere qualcosa di brutto, escono anche Giuseppe Mazzola ed Ernesto Ferraro che cerca di intromettersi per calmare gli animi
Vavatinni, mmerda e fatti i cazzi tua! – lo minaccia Camposano dandogli uno spintone e quello, volendo evitare guai, se ne torna in casa.
Dopo qualche minuto Pietro e Luigi rientrano ma, nonostante dicano di aver chiarito le loro cose, sono ancora visibilmente alterati. Infatti dopo pochi minuti, per un niente i due si azzuffano di nuovo ma vengono separati.
Tu ‘un sì n’uomine, si ‘na mmerda! – dice Pietro Fera all’avversario che si lancia di nuovo contro di lui ma Ferraro lo trattiene e Vito Antonio Carulli trascina fuori da casa Pietro Fera. Con una mossa rapidissima Giuseppe Mazzola chiude la porta mentre Luigi Camposano si divincola dalla presa di Ferraro mordendogli a sangue un braccio e si lancia verso l’uscita.
Lassatimi ca l’è ammazzare! – urla cercando di spostare il cognato che si è messo a difesa dell’uscita. Ma la porta è assalita anche da Pietro Fera dall’esterno con poderose spallate mentre urla all’indirizzo di Camposano:
Apra, curnutu e miserabbile, apra ca m’è fattu sett’anni ppi tia! – poi la porta cede e i due riescono a guardarsi negli occhi. Luigi Camposano corre verso uno stipo della cucina e si arma di un grosso coltello e lo brandisce contro Pietro che, a sua volta ha estratto il suo coltello a serramanico. Ma non ci può essere lotta alla pari, il suo è solo un temperino in confronto ai venticinque centimetri del coltello di Luigi e così preferisce darsi alla fuga giù per la Traversa Padolisi.
Fammi passà sinnò ammazzu puru a tia! – sibila al cognato che gli si para davanti sulla porta di casa, puntandogli il coltellaccio alla gola. Mazzola si sposta e Luigi si lancia all’inseguimento di Pietro Fera e lo raggiunge proprio dove la Traversa Padolisi sbuca nel Vico 2 Padolisi.
I due, menando fendenti a destra e a manca, risalgono la gradinata del Vico, poi Pietro, vedendo che l’avversario sta perdendo l’equilibrio, cerca di colpirlo con una coltellata dall’alto verso il basso ma Luigi è più veloce e lo colpisce nel cavo ascellare recidendogli di netto un’arteria.
Pietro barcolla, il coltello gli cade dalle mani, cerca disperatamente di buttarsi addosso all’avversario ma le forze gli mancano e riesce solo ad aggrapparsi alla camicia di Luigi che si lacera mentre lui cade bocconi contro un muro, poi pian piano scivola giù lungo le scale mentre un rivolo di sangue scorre nella cunetta.
È quasi l’una di notte quando la pattuglia della Polizia, che ha appena controllato i sorvegliati speciali Luigi Pennino e Umile D’Acri, sta risalendo lungo Corso Telesio. Un uomo in evidente stato d’agitazione esce correndo dal Vico 2 Padolisi, nota gli agenti, si mette a urlare e si sbraccia per richiamarne l’attenzione. È Giuseppe Mazzola.
Curriti… curriti… ‘mmazzatilu! – gli fa rientrando precipitosamente nel vicolo.
Michele Cioria e Lorenzo Boschi, gli agenti, lo seguono lungo le scale e notano sul bordo destro del vicolo un rigagnolo di sangue che scorre lungo il muro e va a finire nel tombino situato all’incrocio tra il Vico 2 Padolisi e la Traversa Padolisi. Continuano a salire e, davanti al civico N.6, si trovano davanti il cadavere di Pietro Fera immerso in una pozza di sangue dalla quale parte il rigagnolo che hanno appena notato. Qualcosa sotto il ginocchio del cadavere riflette la luce fioca dell’illuminazione pubblica. È la lama del coltello della vittima. Gli agenti, richiamati dalle urla di Mazzola, continuano a salire lungo la gradinata che per molti metri ancora è tutta imbrattata di sangue. All’altezza del civico 8 vedono, impressa sul muro, l’impronta insanguinata di una mano e poco più su uno straccetto intriso di sangue. Poco distante, col coltellaccio ancora in mano, Luigi Camposano sta guardando il cadavere con gli occhi pieni di odio, come se avesse voluto continuare a colpirlo, incurante della presenza dei due agenti e della guardia giurata Raffaele Mirabelli, nel frattempo sopraggiunto sul posto.
L’agente Cioria impugna la sua pistola e intima a Camposano di buttare il coltello. Luigi  obbedisce e poi, con un gesto flumineo, si strappa letteralmente la camicia, la fa a pezzi e la lancia vicino al coltello.
– A terra! – gli intima Cioria puntandogli contro la pistola. Luigi si siede sul gradino di una casa ma gli occhi sono costantemente puntati sul coltello a un passo da lui. Sbuffa e bestemmia contro il cognato che ha chiamato le guardie, mentre l’agente dà un calcio al coltello allontanandolo.
‘Ngulacchitemmuartu! Si ti pigliu t’ammazzu… mmerda! – urla all’indirizzo di Mazzola mentre tenta, con una mossa a sorpresa di prendere il coltello e lanciarsi contro il cognato ma, finalmente, una delle guardie si decide a raccogliere da terra il coltello e metterlo al sicuro, così come al sicuro cercano di mettere anche Luigi Camposano. Lo
afferrano per le braccia ma lui si dimena come un indemoniato, sbatte violentemente con le spalle alla porta cui è poggiato, tira calci, urla e strepita – Sparatimi… ammazzatimi… – in cinque gli si buttano addosso e, con grande fatica, riescono finalmente ad ammanettarlo.
Camposano e Mazzola, che ha la camicia sporca di sangue e quindi è sospettato anche lui, vengono portati in Questura dove trovano, anche lui in stato di fermo, Ernesto Ferraro.
– Io non c’entro! – protesta Giuseppe Mazzola – lo vedete come mi ha ridotto quando ho cercato di fermarlo? – continua mostrando i tagli alle braccia e le escoriazioni al viso, all’orecchio destro e a tutte e due le gambe – voleva
ammazzare anche a me che lo stavo tenendo per non fargli fare fesserie!
– Sarebbe stato capace di ammazzare tutti quelli che gli si mettevano davanti… mi avete arrestato e questo è il ringraziamento per essere corso in Questura per avvisare la Legge – è lo sfogo di Ernesto Ferraro.
I due, però, escono subito di scena perché è chiaro che non c’entrano niente. Ma gli inquirenti restano a bocca aperta quando Giuseppe Mazzola spiega quello che secondo lui è il movente della lite fatale. Nonostante gli informatori, in quei sette anni niente era giunto alle loro orecchie circa il vero assassino di Michele Gencarelli. Il vincolo dell’omertà ha funzionato alla perfezione ma ora che una piccola crepa si è aperta si scopre che tutti, ma proprio tutti, sapevano ciò che era accaduto al povero Gencarelli, tranne la Questura e i Carabinieri.
Ma Questura e Carabinieri, svolgendo le indagini, si convincono ben presto che è proprio la continua minaccia di Fera al suo vecchio sodale di denunciarlo per l’omicidio commesso a far maturare in Luigi Camposano l’idea di sbarazzarsi di Pietro Fera per sottrarsi al ricatto. Quindi ipotizzano che l’invito a consumare la bottiglia di liquore in casa della sorella sia stata solo una messa in scena per scatenare la lite e avere la possibilità di uccidere il rivale, invocando poi la legittima difesa o, almeno, la provocazione grave. Ma non aveva fatto bene i conti con la crepa nel muro del silenzio.
Il Pubblico Ministero, invece, non è affatto d’accordo con questa ricostruzione dei fatti e continua, nonostante tutto, a sostenere che, siccome c’è una sentenza passata in giudicato che riconosce Pietro Fera come unico responsabile dell’uccisione di Michele Gencarelli, non è possibile cercare il movente del nuovo omicidio nel ricatto di cui parlano Questura e Carabinieri. Il vero movente è la gelosia di Camposano verso Fera che cercava di tornare a essere l’amante di Franceschina Bruno, sua sorella e amante incestuosa.
Un vero guazzabuglio da cui sembra difficile districarsi.
Torna da Genova, dove è residente, anche la moglie separata di Pietro Fera per costituirsi parte civile; vorrebbero giustizia, questa volta giustizia vera, anche gli eredi di Gencarelli ma resteranno ancora una volta delusi.
Luigi Camposano è rinviato a giudizio per omicidio volontario e condannato a quattordici anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno alla vedova per unmilioneottocentomilatrecento Lire.
La Corte d’Appello di Catanzaro, accogliendo la richiesta subordinata della difesa di Camposano, rappresentata dagli avvocati Luigi Gullo e Orlando Mazzotta, tendente a derubricare il reato in omicidio preterintenzionale perché “si desume dall’unicità del colpo che, se fu mortale, fu determinato dallo scontro dei due corpi in colluttazione e dove la pressione del Fera fu forse più violenta e più decisa di quella del Camposano, il quale certamente ebbe la sensazione che l’avversario non fosse morto (ricordare l’atteggiamento in cui fu trovato dagli agenti di P.S.) e tuttavia non reiterò i colpi ed anzi, sorpreso e disperato per quanto era avvenuto, si stracciò la camicia addosso e gridò: Fatemi morire. (…) Se egli lo avesse voluto uccidere lo avrebbe fatto quando i due, usciti fuori dopo le prime escandescenze del Fera, parlottarono a parte, nel buio di Via Padolisi” , modifica il capo d’accusa  e lo condanna a dieci anni e sei mesi.
Il ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile per decorrenza dei termini.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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