CHI HA UCCISO DON VINCENZO?

È ancora notte quando, il 25 gennaio 1911, don Vincenzo De Napoli, sessantaquattrenne parroco della frazione Petrisi di Scigliano, sente bussare con forza al portone di casa. Si alza per andare ad aprire, convinto che sia il nipote Francesco Angotti di ritorno da Martirano, ma la nipote Concettina lo dissuade
– Non aprire, non può essere Ciccio, lui quando torna di notte non bussa mai perché fa il giro dell’orto e poi non hai sentito che tutti i cani del vicinato abbaiano da ore? Lascia stare che può essere qualche malintenzionato, torniamo a letto.
Don Vincenzo si convince e torna a dormire, così come Concettina.
Aurelia Maria Concettina De Napoli ha trentasei anni, è figlia del fratello di don Vincenzo e abita con lui da quando di anni ne aveva due, da quando, cioè, i suoi genitori sono partiti per l’America e l’hanno lasciata lì. In paese girano molte voci sul conto di zio e nipote: si dice che i due siano stati (e forse lo sono ancora) amanti e che dalla loro relazione sia nata anche una bambina, subito soppressa. Si dice anche che don Vincenzo, per mettere a tacere queste voci, l’avesse promessa a uno scultore di Serra San Bruno, Francesco Salerno, ma che questi, accortosi del raggiro rifiutò il matrimonio adducendo come scusa di essere affetto dalla sifilide. Si dice anche che don Vincenzo avesse finalmente trovato l’uomo giusto per Concettina in Francesco Angotti e che questi avesse accettato per farsi mantenere coi guadagni del futuro zio Prete. Se ne dicono tante altre che sarebbe difficile raccontare tutte, ma pare che nel letto di don Vincenzo siano passate molte donne che frequentavano la sua casa per farsi leggere e scrivere le lettere dei mariti emigrati. Ma, soprattutto, si dice che don Vincenzo imbrogli sui conti della parrocchia e della chiesetta del Carmine, per questo è in contrasto con gli altri parroci del comune, e che se da un lato presti soldi a usura, dall’altro sia pieno di debiti e qualche volta ha provveduto con raggiri a far sparire le carte dei suoi debiti.
Pasquale Pallone è un vecchio quasi cieco che vive di elemosine con la sorella, vecchia e quasi cieca come lui, in una stanzetta attigua alla chiesetta del Carmine e all’alba del 25 gennaio 1911, come ogni mattina, si appresta a salire sul campanile per suonare le campane
– Buongiorno – gli fa lo sconosciuto che gli si para davanti – avrei bisogno del prete per far dire una messa alla Madonna del Carmine
– Buongiorno – gli risponde Pasquale – a quest’ora? A quest’ora i preti dormono… tornate più tardi…
– Ho una certa premura – insiste lo sconosciuto – sono di Pittarella e sono di passaggio, sono appena tornato dall’America e la traversata è stata molto brutta, ho pensato di morire e ho promesso che se me la fossi cavata avrei fatto dire una messa per la Madonna del Carmine. Non è questa la chiesa del Carmine?
– Si, è questa ma…
– Siate comprensivo, andate a chiamare un prete per dire la messa, lascerò una buona offerta…
Il vecchio si lascia convincere e con passo incerto percorre le poche centinaia di metri che dividono la chiesetta dall’abitato di Petrisi per andare a chiamare don Vincenzo.
Ad affacciarsi alla finestra è Concettina
– Dorme, è stata una notte agitata…
– Chiamalo lo stesso, il forestiero paga bene!
Don Vincenzo si alza e dice al vecchio di cominciare ad andare che sarebbe arrivato subito, giusto il tempo di vestirsi.
Quando arriva alla chiesetta, trova ad aspettarlo il vecchio e lo sconosciuto, statura bassa, abbastanza pingue, baffi neri, mantello nero che lo avvolge tutto e un cappello nero floscio in testa.
– Buongiorno reverendo – lo saluta scappellandosi e mostrando così un’accentuata calvizie sopra la fronte, poi fa il gesto di inginocchiarsi, gli bacia la mano e gli ripete il motivo della sua richiesta. Don Vincenzo lo ascolta con attenzione, quindi si rivolge al vecchio Pasquale
– Vai a suonare la messa, io vado a cambiarmi.
Pasquale si arrampica lungo la ripida scala del campanile, mentre il forestiero segue il prete nella sagrestia. Si scambiano qualche parola di circostanza mentre don Vincenzo si toglie il mantello e lo appoggia su di un tavolino, appende al muro il bastone e il cappello, quindi apre l’armadio per prendere i paramenti sacri. Volta le spalle al forestiero il quale apre il mantello e gli si avvicina, impugna una rivoltella e gli sussurra
– Devi morire, lo sai che devi morire…
Poi gli punta la rivoltella dietro l’orecchio sinistro e fa fuoco due volte. Don Vincenzo si accascia senza un lamento, restando quasi seduto con le spalle poggiate ad una parete, il cranio spappolato e il sangue che colando dal collo gli fa diventare rossa la candida sottoveste.
Lo sconosciuto rimette la rivoltella nella cintola, si chiude nel mantello ed esce, proprio mentre Pasquale, uditi gli spari, sta scendendo le scale per andare a vedere cosa diavolo possa essere successo, ma non può far altro se non
vedere lo sconosciuto che si allontana a passo svelto verso il fondo valle, verso il fiume Savuto. Accorre anche la sorella e, insieme, entrano nella sacrestia e trovano il corpo senza vita del prete.
Prima che si riesca ad avvisare i carabinieri passano un paio di ore e subito cominciano a circolare le più svariate ipotesi su chi possa avere ucciso in quel modo orrendo don Vincenzo.
Certamente è stato qualcuno che aveva dei forti rancori per determinarsi a fare ciò che ha fatto e certamente deve aver studiato bene ogni cosa. Ma ha studiato bene ogni cosa o è uno del posto che conosceva bene le abitudini del prete e la via di fuga? Ha agito di sua iniziativa o è un sicario mandato da qualcuno?
I carabinieri brancolano nel buio ma almeno riescono a stabilire dove si è diretto l’assassino, infatti viene trovata in località Foresta l’impronta di uno stivaletto a punta, della stessa forma che il vecchio Pasquale è riuscito a distinguere guardandogli i piedi, e poco più avanti due bossoli di rivoltella appena sparati.
Francesco Angotti, rientrato da Martirano, ha pochi dubbi sul responsabile dell’omicidio. Scrive un esposto al Pretore di Scigliano affermando che gli unici ad avere avuto interesse a uccidere suo zio sono don Silvio Gualtieri, parroco della frazione Cupani di Scigliano e don Cesare Maruca, parroco di Martirano, paese natale di don Vincenzo.
Il primo sarebbe stato spinto dal fatto che voleva subentrare a don Vincenzo nella gestione della chiesetta del Carmine, per rancori derivanti da liti che in passato erano arrivate in tribunale con accuse di diffamazione e lesioni personali e, cosa più terribile, per un esposto che don Vincenzo avrebbe inoltrato al Vescovo di Nicastro accusando don Silvio di essere un pederasta passivo, cosa che gli avrebbe rivelato uno studente di Scigliano che avrebbe accontentato le voglie di don Silvio. Proprio per questo motivo, e proprio nella chiesetta del Carmine, don Vincenzo avrebbe dato due schiaffi al rivale davanti a testimoni, ottenendo come risposta una chiara minaccia: “Qui mi hai dato due schiaffi e qui prima o poi morirai!”. Ma le persone indicate da Francesco Angotti in uno dei suoi esposti non confermano.
Il secondo avrebbe avuto interesse ad uccidere per impedire che don Vincenzo prendesse il suo posto di parroco a Martirano. Questa ipotesi però viene subito scartata perché alla curia di Nicastro non risulta essere mai arrivata alcuna richiesta di don Vincenzo per essere trasferito in quella parrocchia.
In paese tutti sanno dei rancori tra i due preti e parlano nei crocchi sulla via. Molti sono concordi nel ritenere don Silvio capace di aver ideato e organizzato l’esecuzione. Va bene, ma chi è stato l’autore materiale? Suo fratello Francesco Maria, emigrato in America, tornato apposta per commettere l’omicidio e poi subito ripartito. Vengono fatti degli accertamenti sui passeggeri sbarcati delle navi provenienti dagli Stati Uniti a gennaio e in effetti risulta esserci un Gualtieri Francesco. Ci siamo! No, il Gualtieri Francesco sbarcato a gennaio è di Davoli e non c’entra niente.
Al Giudice Istruttore viene l’idea che i vecchi fratelli Pallone siano complici dell’assassino e li fa arrestare. Il motivo? Pasquale Pallone ha dichiarato che lo sconosciuto ha chiesto un prete, non proprio quel prete, cioè don Vincenzo, quindi se invece di andare a chiamare lui ne avesse chiamato un altro, a quest’ora don Vincenzo sarebbe vivo! Questo costa ai due poveretti qualche mese di galera ma poi devono essere scarcerati perché l’ipotesi del Giudice Istruttore è più che altro una stravaganza. Restano comunque indagati.
Francesco Angotti produce esposti su esposti contro don Silvio e i suoi fratelli senza ottenere risultato alcuno, poi cominciano ad arrivare molte lettere anonime che accusano proprio lui di aver voluto la morte dello zio per sanare l’offesa di avere sposato la nipote già usata da don Vincenzo. E chi scrive le lettere anonime deve avere molta pazienza per ritagliare centinaia di lettere dai giornali e appiccicarle con la colla su fogli di carta di un certo pregio e, soprattutto, deve avere buoni informatori all’interno della Pretura perché ad ogni esposto di Ciccio Angotti contro don Silvio fa seguito una lettera anonima che lo accusa. I carabinieri non prestano fede alle lettere anonime perché Angotti, con la morte di don Vincenzo ha perso tutte le entrate che lo zio gli garantiva. E si va avanti così per mesi e mesi. Arriva anche una lettera anonima al Procuratore del re di Cosenza che, oltre a indicare don Silvio come mandante dell’omicidio, denuncia l’inettitudine del Pretore di Scigliano, legato a filo doppio con don Silvio al quale deve molti soldi e per questo motivo ritarda e, peggio, intralcia le indagini. Per rendere meglio comprensibile i rapporti tra il Pretore e don Silvio, l’anonimo afferma che a Scigliano la popolazione usa definire quell’Ufficio Giudiziario come “la Pretura Gualtieri”. Il Pretore, avvisato, reagirà energicamente con querele contro ignoti.
Poi spunta l’ipotesi che don Vincenzo potrebbe essere stato ucciso per un paio di debiti non pagati. E si fa anche il nome: Francesco Pallone. In passato Pallone e sua moglie avevano prestato ottocento lire a don Vincenzo il quale, come garanzia diede loro due buoni di quattrocento lire ciascuno. Quando la moglie di Pallone era sul letto di morte e don Vincenzo stava per somministrarle l’estrema unzione, all’improvviso fece uscire tutti dalla stanza e, rimasto da solo con la donna ormai incosciente, si mise a frugare nei cassetti e trovati i buoni se ne impossessò per distruggere la prova del suo debito, ma Francesco Pallone se ne accorse subito e lo querelò, querela che però fu archiviata. Il povero Pallone, rimasto vedovo e senza più denaro fu costretto a vivere della carità dei paesani, poi di lui si persero le tracce. I carabinieri indagano, ma scoprono che Francesco Pallone è morto da un paio di anni nella più squallida miseria. Altro fiasco.
Allora si voleva colpire Francesco Angotti per qualche sua malefatta e si preferì uccidere lo zio per togliergli la fonte del suo sostentamento. Nessun riscontro.
La popolazione comincia a protestare perché non si riesce a scoprire l’assassino e molte lettere vengono mandate al Procuratore del re di Cosenza per sollecitare una svolta nelle indagini, così, in aiuto al maresciallo Saverio Messina, comandante della stazione di Scigliano, viene mandato, da Castrovillari, il delegato di P.S. Nicola Curcio. Ma la musica non cambia. Messina e Curcio si danno un gran da fare ma si trovano davanti un muro. Un muro di voci e confidenze che rimangono tali ogni volta che qualcuno è invitato a mettere nero su bianco quello che sa. Un muro che prontamente viene rinforzato ogni volta che sta per cadere.
Tutto il paese è ormai convinto che il mandante dell’omicidio sia don Silvio Gualtieri. Tutti dicono di sapere chi è l’autore materiale dell’omicidio e lo dicono in strada o nelle case ma nessuno si fa avanti con fatti concreti: “E perché lo dovrei dire io? Quelli che zappavano lì vicino lo hanno visto in faccia, lo dicessero loro… e poi i Gualtieri sono vendicativi e capaci di tutto… chi me lo fa fare?”.
Quando ormai, sono passati quasi due anni dal fatto, Messina e Curcio stanno per alzare bandiera bianca succede un fatto imprevisto e forse decisivo. Tale Giuseppe Carpino, ventisettenne pregiudicato di Rogliano ma residente a Bianchi, si presenta spontaneamente al maresciallo e gli racconta:
– Verso la fine del mese di maggio 1912 ero detenuto nel carcere di Scigliano e insieme a me c’era anche Salvatore Astorino di Carpanzano. Una mattina che la guardia era distratta mi chiamò alla finestra e mi indicò la chiesa del Carmine: “la vedi la chiesa? Là io e un mio amico abbiamo ammazzato un prete”. Io, incuriosito, gli chiesi di raccontarmi come andarono le cose e lui mi disse: “io e il pugliese avevamo ricevuto da una persona del posto l’incarico di uccidere il parroco della chiesa della Madonna del Carmine con la promessa di ricevere come compenso cento lire ciascuno. Una mattina, un’ora prima dell’alba, siamo andati alla casa del parroco De Napoli e gli abbiamo chiesto di dire una messa. Lui accettò e ci disse di andare a chiamare il sacrestano. Io andai a chiamare il vecchio e il pugliese restò col prete per andare insieme alla chiesa. Quando arrivarono trovarono me e il sacrestano al quale il prete ordinò di andare a suonare le campane. Il parroco e il pugliese entrarono nella sacrestia mentre io restai fuori a controllare le mosse del vecchio. Quando il parroco cominciò a indossare gli abiti della messa, il pugliese estrasse la sua rivoltella, gliela puntò alla testa e gli disse «Tu devi morire… Tu devi morire…» e gli sparò un colpo dietro l’orecchio. Alla detonazione anche io entrai nella sacrestia e gli sparai un colpo con la mia rivoltella colpendolo in un occhio, quindi ce ne andammo in direzione di Pittarella proprio mentre il vecchio stava per entrare in chiesa. Lungo la strada gettammo i due bossoli sparati, sostituendoli con due carichi. Ci fermammo per pisciare dove c’è la frana che forma un laghetto, proseguendo, poi, per la strada fino al ponte di Sant’Angelo e quindi per Carpanzano”. Due o tre giorni dopo che Astorino mi fece questo racconto entrò in carcere un certo Amedeo Mancuso di Carpanzano e io gli raccontai il fatto che poi Astorino gli raccontò di persona.
Messina, nonostante il racconto di Carpino parli di due persone mentre tutti i testimoni hanno affermato di averne vista una sola, gli  presta fede perché, secondo lui, ci sono degli elementi che solo chi era presente al fatto può conoscere. Fa rintracciare Amedeo Mancuso e ottiene la conferma che Carpino ha detto la verità. I due sono credibili perché non hanno nessun motivo di risentimento nei confronti di Astorino e non avrebbero motivo di coinvolgerlo fraudolentemente nelle indagini. Restano però due punti oscuri: Astorino è un tipo a cui piace spararle grosse e nessuno sa chi possano essere il fantomatico pugliese e il mandante del posto. Il maresciallo intuisce che può essere a un passo dal risolvere il giallo dell’uccisione del prete e si prodiga per scoprire l’identità del pugliese dal quale ricavare poi il nome del mandante. Nello stesso tempo cerca Astorino e dopo sei mesi riesce ad arrestarlo, ma questi ovviamente nega di aver mai raccontato quelle cose. Dopo un mese di carcere, però, Astorino viene rimesso in libertà perché non ci sono indizi sufficienti a giustificarne la detenzione.
Negli stessi giorni il maresciallo Messina viene trasferito e il suo posto viene preso da Alberto Rivoiro il quale, finalmente, scopre chi sarebbe il misterioso pugliese: Pirchio Giuseppe nato nel 1885 a Monopoli, attualmente detenuto a Cosenza per uxoricidio, residente a Colosimi [la storia di questo delitto si può leggere cliccando qui: APPESA]. Rivoiro ne è convinto perché il pugliese è stato detenuto a Scigliano dall’1 all’11 marzo 1912 insieme ad Astorino. Ma figurarsi se il pugliese conferma qualcosa!
I mesi e gli anni passano, poi arriva la guerra e tutto si ferma. Anche Rivoiro viene trasferito e molti pretori si succedono a Scigliano. Anche i testimoni, ad uno ad uno vengono a mancare o perché deceduti o perché emigrati. Tutto si fa maledettamente difficile.
Ormai siamo alla fine del 1919, sono passati quasi nove anni dal fatto e il maresciallo Mannino, da poco arrivato a Scigliano, nel rapporto che spedisce al Pretore di Rogliano al quale sono state affidate le indagini,  deve ammettere che non c’è più speranza di trovare l’assassino (o gli assassini) di don Vincenzo De Napoli:
(…) Il tempo ha prima sbiadito e poi ha interamente cancellato ciò che è di bello per squarciare le tenebre di un esecrando e misterioso delitto. (…)
Il Maresciallo Messina non trovò elementi per catturare il Gualtieri, né di denunziarlo alla Giustizia in seguito e consacrò nel verbale che i Gualtieri per quanto siano capaci di fare ricorsi e di godere del male altrui non sono assolutamente ritenuti tali da prendere parte in reati di omicidio. 
L’omicida fu conosciuto dal sacrestano Pallone Pasquale fu Antonio e sorella Carmela, ora deceduti.
Il Pallone Pasquale, dopo poco che fu commesso il delitto, un giorno trovandosi a parlare con la contadinella Costanzo Ida di Francesco, ora in America, dichiarò a costei di aver conosciuto l’uccisore del parroco De Napoli e l’avrebbe palesato nella confessione in punto di morte. Mentre poi sia il Pallone Pasquale che la sorella Carmela, quantunque religiosi, in fine di vita non vollero confessarsi. (…)
La giustizia si arrende ufficialmente il 25 luglio 1923, dopo dodici anni e sei mesi esatti dall’omicidio, quando il Pubblico Ministero nel trasmettere gli atti alla Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro scrive:
(…) Certo è che attorno a questo processo ànno cercato di mettere radice e prosperare i più bassi e bestiali istinti di vendetta ad opera di elementi volgari e delinquenti che sembra non difettino nel Comune di Scigliano: ciò che à contribuito grandemente a deviare la Giustizia dalla retta via.
Oramai, dato il lungo tempo trascorso, sembra perduta ogni speranza di accertare la verità. (…)
La Sezione d’Accusa impiegherà ancora dei mesi a dichiarare il non luogo a procedere nei confronti dei fratelli Pallone perché estinta l’azione penale per morte e di Salvatore Astorino per insufficienza di prove. È il 14 gennaio 1924.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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