IL PADRE PADRONE

Fa freddo all’imbrunire del 23 gennaio 1924 a Lago. L’alito dell’uomo che ha bussato alla porta della caserma dei Carabinieri si condensa mentre soffia tra le mani per riscaldarsi. Finalmente la porta si apre e lo sguardo inquisitorio del carabiniere si posa sull’uomo
– Mi chiamo Nicola Naccarato, abito in via Pantanello… per favore dovreste venire a casa mia per una denuncia grave e urgente…
– Di cosa si tratta? – gli risponde il carabiniere
– È urgente, vi dico! A casa mia c’è anche Giovanni Posteraro, il centurione della milizia nazionale, vi spiegheremo tutto a casa, è una questione molto delicata
Convinto dalla presenza del centurione a non chiedere spiegazioni, il brigadiere Mauro, comandante della stazione di Lago, segue Nicola Naccarato. In casa, oltre a Posteraro ci sono la moglie di Nicola, Maria Scanga, la madre Maria Sacco e la sorella Elisabetta Naccarato. Il brigadiere si accomoda su una sedia e ascolta la dichiarazione della più anziana delle donne
– Mi chiamo Maria Sacco, ho cinquantacinque anni e sono la moglie di Gabriele Naccarato, nonché la madre di Nicola e di Elisabetta – fa, indicando i due figli – ho acconsentito che mia figlia venisse qui a farvi conoscere quello che è stata costretta a subire – termina facendo segno alla figlia che può parlare, mentre il brigadiere fissa il suo sguardo su Elisabetta
– Ho venti anni adesso ma quando ne avevo sedici, precisamente nel mese di giugno del 1919, un giorno che mia madre e mio fratello erano andati a Terrati per affari, rimasi da sola in casa con mio padre. Tutto d’un tratto cominciò a farmi delle proposte oscene e quando io lo rimproverai, tirò fuori la rivoltella e minacciò di uccidermi se non avessi soddisfatto le sue voglie. Io cercai di resistere ma non ci fu niente da fare. Mi picchiò e alla fine riuscì a fare ciò che voleva. Rimasi incinta e non appena la gravidanza cominciò a diventare evidente raccontai tutto a mia madre. Nicola se ne accorse pure e mi chiese chi fosse stato ma io non gli dissi niente per evitare guai peggiori per lui. Io e mamma avevamo paura che se avessimo denunciato il fatto papà ci avrebbe ammazzati tutti e non ne parlammo con nessuno, ma mio padre capì qualcosa e cacciò di casa mamma e Nicola. Quando partorii non feci venire mamma per paura di mio padre ma fui assistita dalla levatrice Maria Adamo e subito dopo mio padre chiamò una paesana, Carolina Muti, e io le detti il bambino e mio padre quattrocento lire per portarlo ad Amantea e affidarlo a qualcuno. Da allora non ho più saputo niente di lui. Io e mio padre continuammo a vivere nella stessa casa e lui non mi toccò più, ma nemmeno mi faceva uscire o parlare con qualcuno. Poi, disgraziatamente, dal mese di ottobre dell’anno scorso ha cominciato di nuovo a perseguitarmi e mi ha violentata altre quattro volte. Io lo supplicavo di lasciarmi stare, ma non c’era niente da fare e picchiandomi e minacciandomi con la rivoltella o con il coltello è sempre riuscito nel suo intento. L’otto dicembre 1923 mi ribellai e mi tirò in testa la rivoltella ma per fortuna era chiusa nella fondina e non mi fece troppo male. Oggi, approfittando del fatto che è andato fuori paese, ho capito che non posso più andare avanti così e sono scappata a casa di mio fratello. Aiutatemi, vi prego…
Il brigadiere trattiene a stento un moto di rabbia, rassicura la ragazza e gli altri presenti e torna in caserma.
– Mettiti in abiti civili – ordina al carabiniere Occhiuto – dobbiamo fare un’operazione delicata.
Non hanno bisogno di bussare alla porta di Gabriele Naccarato, è socchiusa e si intrufolano. Lo trovano che sta mangiando e, non appena li vede, temendo che siano dei malintenzionati, cerca di mettere mano alla rivoltella ma Occhiuto è svelto a disarmarlo.
– Tranquillo, siamo carabinieri – gli dice Mauro con ironia – seguici in caserma che dobbiamo fare quattro chiacchiere.
L’interrogatorio è stringente e dura quasi tutta la notte ma Naccarato sembra cadere dalle nuvole, continuando a protestarsi innocente. Il mattino successivo il brigadiere Mauro interroga i vicini di casa i quali, a mezze parole, confermano di avere quantomeno dei sospetti su ciò che avveniva nella casa di Gabriele. Anche Nicola viene interrogato e fa delle dichiarazioni sconcertanti
– Durante l’estate del 1919 mi accorsi che mia sorella era incinta e le chiesi chi fosse stato ma lei non volle dirmelo. Dopo poco tempo, però, fu mio padre stesso a dirmi che era stato lui e quasi se ne vantava. Io lo rimproverai e gli consigliai di fare andare via dal paese mia sorella così da poter trovare qualcuno che la sposasse ed evitare lo scandalo ma lui mi rispose che Elisabetta doveva stare a casa con lui con le buone o con le cattive e io per evitare altri guai lo lasciai stare.
Il brigadiere è furente, caccia via Nicola, fa accomodare la madre e le fa ripetere il racconto che adesso si riempie di particolari
– Io ruppi ogni rapporto con mio marito quando Elisabetta rimase incinta e da allora vivo per conto mio, mentre mia figlia e mio marito rimasero ad abitare da soli nella stessa casa. Io non prestai neppure assistenza a mia figlia durante il parto perché temevo qualche ritorsione da parte di mio marito. Elisabetta mi disse che aveva avuto un solo concresso carnale e che mio marito non l’aveva più molestata. Tempo fa mia figlia mi disse che aveva dovuto subire altri concressi carnali violenti, credo tre o quattro, e che non aveva potuto resistere per le intimidazioni e le minacce. Poi mi disse che si era decisa a denunciare il padre e io non la dissuasi e infatti il 17 gennaio scorso, in casa di mio figlio Nicola ed alla mia presenza, fece la denuncia ai carabinieri
Poi richiama Gabriele e con modi spicci gli fa capire che è meglio per lui se confessa e ottiene ciò che si è prefisso
– Confesso di aver avuto rapporti sessuali con mia figlia Elisabetta sempre contro la sua volontà e sempre attraverso minacce e violenza. Il bambino fu dato a Carolina Muti col compenso di quattrocento lire per sistemarlo presso qualche famiglia di Amantea. Dopo il parto di mia figlia giurai che non l’avrei più toccata e la tenni in casa anziché abbandonarla in mezzo a una strada, facendola diventare una puttana mantenni la promessa fino al mese di settembre dell’anno scorso, poi non so che cosa mi è preso… forse il vino… e l’ho violentata altre quattro volte…
Mauro scrive il rapporto al Procuratore del re e spiega il contesto sociale in cui è maturata quella squallida storia:
(…) È nostro convincimento perciò che il Naccarato abbia agito con malvagità, siccome è ritenuto capacissimo di commettere qualsiasi delitto essendo egli un pericolosissimo pregiudicato additato dalla voce pubblica in generale.
Il pubblico di Lago in genere ritiene vero tale fatto che da più tempo aveva incominciato a produrre viva impressione, ma nessun cittadino ha avuto mai l’ardire di denunziarlo essendo il Naccarato temutissimo.
Il Naccarato medesimo, essendo capace di operare qualsiasi vendetta contro chiunque, si chiede che al medesimo non venga concessa la libertà provvisoria e che sia punito con una pena adeguata ai suoi pessimi precedenti in genere (…).
Il brigadiere Mauro rintraccia Carolina Muti, alla quale fu dato il bambino, e ottiene il nome della donna a cui lo consegnò ad Amantea dietro il compenso di trecentocinquanta lire – 50 lire le trattenni io, ammette – una certa Rosa, della quale dice di non sapere il cognome. Mauro non si perde d’animo e, tramite i suoi commilitoni di Amantea, rintraccia una donna, Rosa Di Francesco che in quegli anni, così dicono in paese, ha perso un bambino e se ne è fatta affidare un altro 
Ho cresciuto un trovatello che si chiama Ciccio e che mi fu lasciato davanti la porta di casa nell’aprile del 1921 ma ignoro da chi sia stato partorito. Il bambino è stato regolarmente registrato al Comune e vive con me. Però ad Amantea vive un’altra donna che si chiama Rosa, non ricordo però il cognome, e che ha con sé un trovatello
Mauro trova anche quest’altra donna ma è subito chiaro che non si tratta della donna che sta cercando. Dice di aver trovato il bambino sulle scale di casa il 28 ottobre 1920 durante i giorni della fiera di Amantea e che insieme a lei c’era la guardia municipale Medaglia che conferma parola per parola. Certamente Rosa Di Francesco sta facendo la furba e così viene messa a confronto con Carolina Muti e, messa alle strette, non può più negare: il bambino che sta crescendo è il figlio di Elisabetta e Gabriele Naccarato.
Ci vorrà ancora un anno per celebrare il processo contro Gabriele Naccarato, accusato di avere costretto con minacce e violenza la propria figlia legittima Elisabetta a congiungersi carnalmente con lui, procreando financo un bambino di sesso maschile nel marzo 1919.
In un solo giorno di dibattimento la Corte d’Assise lo condanna a undici anni, un mese e ventidue giorni di reclusione; a due anni di vigilanza speciale, alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla perdita della patria potestà e al pagamento delle spese legali.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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