FROM CHICAGO WITH LOVE

È notte quando Donato Casole, ventottenne della provincia di Cosenza, torna nella sua stanzetta al 719 di Devon St. a Chicago dopo una dura giornata di lavoro. È buio, pesta qualcosa e si accorge che gli hanno lasciato una lettera sotto la porta. Si affretta ad accendere un lume, guarda la busta e capisce dalla calligrafia che non è la moglie Chiarina Lepiane a scrivergli. Si siede al piccolo tavolo sgangherato e comincia a leggere il foglio giallastro:
24 Agosto 914
Mio Caro genero
Dopo tante parole che si sono fatte nel vicinanzo io non ho voluto credere a nessuno, fintantocche mi sono sengerata io stessa per bocca del vostro figlio Gennaro, lo scanagliato benissimo e mi ha detto tutta la verità a riguardo della vostra moglie che fa vita con Ernesto Siciliano di Fausto, alis Bobò, come lui mi ha detto il vostro figlio Gennaro che era chiuso dentro lo stipo e come impatti veramente ci ho pigliato io stessa, naltra volta ci lo pigliato io una mattina presto sono andata con 2 ore di mattina lo trovato sotto il letto e poi altre volte, per conseguenza la cosa lo avverata, il tuo figlio Gennaro ha detto che si fosse più grande lo ammazzerebbe a riguardo che questo tale dorme con la madre. L’ultima volta che ci lo pigliato e feci na grande lita però io come donna non ho potuto fare niende e tutti e 2 si sono dichiarati che essa è gravida di 7 mesi e non lo puo lasciare piu ora figuratevi che scandolo che à dato nella Vostra casa, essa a fatto credere a Santina che questo tale va in casa che deve sposare a essa, invece essa è per una scusa e tutte e 3 le figlie tue sono consapevole di tutto tanto vero che di qualunque ora lo manda à chiamare dove si trova e va alla libera come si fosse uno marito.
La prima colpa la il tuo padre che lui lo sapeva dal primo giorno che anno mangiato e bevuto assieme dentro la tua casa con la tua moneta sopra dei tuoi sudori, e non ha mai fatto niende, che si mi la vesse detto a me i vi lavesse fatto sapere prima, ora quel che io ti consiglio di non ti ne venire perche ti comprometti quel che io dico di autorizzare qualche duno del paese di cacciarla della casa di più scrivere alla Cassa di Risparmio di non dare più moneta della tua, che quel tale va a Cosenza con la libretta e piglia quando vuole e campa con i tuoi sudori  e a me mi dispiace, e io quando lo voluta avvertire mi a pigliato a pugna, poi io mi voleva pigliare la ragazza grande e non ha voluto venire. a fatto male a mandarle tanta moneta che se essa non aveva tanta moneta non faceva questo.
Ora quel che devi fare fatelo subito poiché non trovate niende moneta, io vi ho detto queste poche cose per io mi scaricare la mia coscienza. Ora vi regolate voi stesso che non siete ragazzo ti sai bene regolare gli affari tuoi.
Il tuo figlio Gennaro ti saluta.
Io e mio marito ti salutiamo caramente.
la vostra suocera Geppina Bonanno
Donato è sconvolto, piange, si dispera, ma poi dice a sé stesso che non è vero ciò che ha letto. È impossibile che una madre accusi così la propria figlia. Nota che sul foglio è stampata una scritta in inglese, “È uno scherzo di quei bastardi dei miei compaesani che sono qui a Chicago. Sanno quanto la amo e godono a mettere zizzania”, pensa, poi guarda i timbri sulla busta e in effetti è stata spedita proprio dal paese. Le sue certezze cominciano a vacillare.
Non è la prima volta che Donato si trova ad avere a che fare con lettere di quel tipo. Lui e Chiarina si erano sposati il primo maggio 1899 a Chicago, nella contea di Cook, ma poi lui si ammalò e dovettero tornare in paese. Ricominciarono di nuovo le difficoltà economiche e Donato emigrò di nuovo, ma da solo. Da allora arrivarono delle lettere anonime alle quali Donato non prestò attenzione, ma quando le accuse si fecero più circostanziate tornò precipitosamente al paese per farla finita con la moglie, l’avrebbe ammazzata e chi s’è visto, s’è visto. Il provvidenziale intervento di amici intimi e dei parenti lo convinse che erano malignità di paese e che la moglie era profondamente onesta e tutto finì nel migliore dei modi. Un’altra volta litigò con il suo migliore amico, Aldo Milano, suo paesano e anche lui emigrato a Chicago, perché aveva consigliato alla madre di Donato di scrivere alla banca per bloccare i prelievi che Chiarina regolarmente faceva:
– Pure tu calunni mia moglie che è innocente! – e così dicendo gli tolse il saluto per un mese.
Quella notte, però, passa senza che Donato riesca a chiudere occhio. Bestemmie e pianto lo accompagnano nella solitudine della stanzetta: il seme che la lettera ha piantato nel suo cervello sta cominciando a germogliare, nonostante i suoi sforzi a voler credere che sia tutto falso.
È ancora buio quando, con gli occhi pesti per la notte in bianco, sale sul tram che lo porterà alla fabbrica di carne. Seduto in fondo al tram c’è Aldo Milano, diretto anch’egli alla stessa fabbrica.
– Buongiorno compà – attacca Donato.
– Buongiorno compà – gli risponde, sorpreso ma felice del riavvicinamento – come te la passi?
– Mah! Lasciamo stare… piuttosto, tu quando torni al paese?
– A carnevale dell’anno prossimo (1915 nda) vado, mi sposo e mi porto qui mia moglie.
– Penso che farò la stessa cosa. Non ce la faccio più a stare da solo qui. Lavorerò ancora qualche mese per fare un altro po’ di soldi e mi vado a prendere la mia famiglia.
– È la cosa migliore che puoi fare, dammi la mano e abbracciamoci compà!
Le ciambelle, però, non sempre riescono col buco. Aldo si ammala ed è costretto a ritornare al paese alla metà di settembre 1914 e Donato lo accompagna alla stazione. I due amici si abbracciano e, nel salutarsi, Donato raccomanda all’amico di salutargli la moglie e di dare un bacio ai figli, rassicurandoli che presto sarebbe tornato per portarli in America.
Rimasto di nuovo da solo, Donato, vuoi perché è ormai roso dal sospetto, vuoi perché vuole liberarsi dal tormento che quel sospetto gli causa, invece di tornare al lavoro va all’Ufficio Immigrazione e si fa rilasciare l’autorizzazione a portare la sua famiglia negli Stati Uniti. Felice per questo, prende regali per tutti, compra un biglietto per la prima nave in partenza da New York e senza avvertire nessuno torna in paese.
È il 16 ottobre 1914, è sera inoltrata e la gente o dorme già o si prepara ad andare a letto. Qualcuno bussa alla porta di Anna Perrone. Dopo aver espresso opinioni colorite sui morti dell’ignoto visitatore, la donna si alza e va ad aprire: con grande sorpresa vede suo nipote Donato Casole con una valigia in mano.
– Ohi! Tutuzzu ‘e l’America! che ci fai qui? Quando sei arrivato? Entra, entra…
– Buonasera zia Annì, sto arrivando adesso e sono venuto qui prima di andare a casa. Mi devi, per l’anima dei morti, dire una cosa. Ma mi devi dire la verità – sembra un fiume in piena e Anna capisce, con terrore, quello che Donato sta per chiederle – è vero che mia moglie se la fa con Ernesto Siciliano e che hanno avuto un figlio?
Tutù, mi devi fare il favore di stare calmo, ‘un fare fissarie – questo è più di un si. 
– Allora è vero!
Tutù, purtroppo è vero…
Zia Annì, io sono venuto per portare la mia famiglia in America, nella valigia c’è la lettera di richiamo… tutti dite che è vera… quella cosa… ma io non ci credo… tienimi la valigia che arrivo a casa e poi mando Gennaro a prenderla…
Tutù‘un fare fissarie
Donato la lascia sulla porta e va a bussare a casa sua dove tutti sono a letto: Gennaro Casole, il padre di Donato, Gennaro, Giacomina e Faustina, tre dei suoi cinque figli dormono nella stanza al primo piano della casetta, la moglie, Santina, la figlia maggiore, ed Emilio, il più piccolo, dormono nella camera matrimoniale al piano terra.
Ai primi colpi dati alla porta, Chiarina si sveglia:
– Chi è che bussa? – Chiede senza alzarsi.
– Sono Donato, tuo marito – le risponde.
– Mio marito è in America! Fate venire gente che apro! – Chiarina ha riconosciuto perfettamente la voce del marito, ma teme che possa farle del male e prende tempo.
– Sono io! Muoviti e apri questa porta! – le urla cominciando a tempestare l’uscio con colpi sempre più violenti.
– Debbo… debbo vestirmi…
– Sono tuo marito! Vieni come ti trovi se no sfondo la porta! – il traccheggiare di Chiarina gli ha ormai fugato ogni dubbio: è colpevole. La porta sta per cedere quando la donna, finalmente, apre.
I due sono uno di fronte all’altro. Donato ha le narici dilatate e gli occhi iniettati di sangue, Chiarina si fa piccola piccola. Si guardano come in un duello, poi Donato le si avvicina come se volesse abbracciarla e le sussurra all’orecchio:
– Lo sai che ti debbo ammazzare? – negli occhi di lei c’è solo terrore, ma non ha il tempo di fiatare. Donato ha tirato fuori dalla tasca una pistola e le spara, a bruciapelo, due colpi in pieno petto.
Lo sguardo di Chiarina è attonito mentre vede i suoi vestiti prendere fuoco e, con le forze che la stanno abbandonando, corre fuori per stramazzare al suolo morta.
Donato la segue e la vede cadere, le si avvicina, si china su di lei e pronuncia il suo nome:
– Chiarina… Chiarina… – e la bacia teneramente. I figli gli sono intorno, lui fa segno di aiutarlo a prendere il corpo e, tutti insieme, la portano in casa e la adagiano sul pavimento accanto alla porta di ingresso. Donato si china di nuovo sul cadavere e lo bacia ancora, quindi bacia tutti i figli e rivolgendosi a Santina dice:
– Guardati l’onore se no ammazzo pure te – poi sale al primo piano, bacia il padre e scompare nel buio, vagando, come impazzito, per le campagne.
Donato si costituisce dopo qualche giorno e viene arrestato. Al giudice dice che non aveva intenzione di uccidere la moglie, tanto è vero che si era fatto rilasciare il permesso per portare con sé a Chicago tutta la famiglia e ha pure portato dei regalini. Ha perso la testa quando Chiarina non voleva aprirgli la porta di casa.
I testimoni interrogati, compresi il padre e la madre di Chiarina, sono tutti a suo favore e si scopre che l’amante della moglie era stato in casa fino a pochi momenti prima e se Donato non lo aveva colto in flagrante era stato solo perché Aldo Milano aveva preannunciato il prossimo ritorno del marito e, per precauzione, i due non dormivano più insieme. È anche provato che Chiarina partorì una bambina, morta un paio di mesi dopo la nascita, proprio mentre scriveva lettere d’amore al marito, lettere che Donato ha portato con sé e che consegna al giudice insieme alle ricevute di versamento fatte in favore della moglie per un totale di 5.530 lire.
Ma, come sempre in questi casi, a farne le spese sono i figli, rimasti soli e senza mezzi di sostentamento, così, il 17 novembre 1914, 125 compaesani firmano una petizione nella quale chiedono che a Donato venga concessa la libertà provvisoria per poter sfamare i suoi figli ma senza successo, così come senza successo è la stessa richiesta che il sindaco del paese fa il 15 maggio 1915.
Il processo inizierà un anno dopo e la giuria popolare, a maggioranza, ritiene Donato non colpevole. È il 20 giugno 1916.
         Scarcerato si mette subito in cerca di Ernesto Siciliano per uccidere anche lui. E lo trova. Ma, fortunatamente, non riesce ad ammazzarlo. Viene arrestato di nuovo e sta in galera per circa tre anni, poi torna a Chicago.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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