L’INTERCETTAZIONE AMBIENTALE

Rosina Crivaro è una ricamatrice di Celico che ha una quarantina di anni. Suo marito faceva il muratore ma poi decise di emigrare in America attratto dai lauti guadagni di cui raccontavano tutti e, invece di venderli, lasciò in casa i ferri del mestiere nel caso in cui un giorno o l’altro avesse deciso di tornare.  Una mattina del mese di aprile del 1922 Rosina è come al solito intenta, insieme alla figlia, a eseguire dei ricami che poi venderà. Insieme a loro c’è una ragazza del posto, Emilia Tornello, che sta imparando a ricamare. Ad un tratto le donne sentono bussare e Rosina va ad aprire:
– Buongiorno Rosì, mi devi fare un favore – le dice in modo concitato Pasquale Belcastro che faceva il manovale col marito di Rosina prima che questi emigrasse – mi dovresti prestare uno di quei pali di ferro che ha lasciato tuo marito. Sto facendo un lavoretto e, sai com’è, qualcosa mi manca…
– Ci mancherebbe Pasquà! Accomodati che lo vado a prendere – gli risponde, introducendolo nella stanza dove ci sono le due ragazze.
– E guarda chi c’è! – fa, civettuola, Emilia – Pasqualino il tesoro mio!
– Smettila con queste parole… – Pasquale è un po’ in imbarazzo, lui è sposato e quel genere di parole dette davanti alla gente sono molto sconvenienti, ma la sensazione che hanno Rosina e la figlia è che tra i due ci sia una certa intimità.
– Ma io ti voglio tanto bene… – insiste Emilia, mentre Pasquale comincia a sudare freddo.
– Emì, finiscila che comincio a riscaldarmi… – cerca di interromperla mentre Rosina, tornata col palo in mano, e la figlia li guardano a bocca aperta, girando lo sguardo ora sulla ragazza, ora sull’uomo.
– E riscaldati bene… – continua Emilia la quale, avvicinatasi con mosse lascive a Pasquale, gli da un buffetto affettuoso su una guancia.
– Te lo chiedo per favore… finiscila che mi sta ribollendo il sangue…
– Hai bisogno di un altro buffetto per bollire? – Emilia gli si avvicina di nuovo e lo colpisce delicatamente, mentre Pasquale le prende il braccio e glielo mordicchia. Rosina e la figlia assistono senza fiatare. Poi Emilia afferra l’uomo per i baffi e glieli stiracchia, quindi gli si avvicina fino a sfiorare con la sua guancia quella di Pasquale, che socchiude gli occhi, e lo mordicchia sul collo.
– Basta! Rosì, grazie per il palo, adesso me ne devo proprio andare se no non so come finisce! – dice guadagnando precipitosamente l’uscita e lasciando Emilia con un sorriso tentatore sulle labbra turgide.
Rosina e la figlia sono esterrefatte. Una sfacciataggine del genere non se l’aspettavano da Emilia e Rosina, anche per insegnamento alla figlia, rimprovera aspramente la ragazza:
– Con un uomo sposato! Che vergogna! L’hai fatto adesso e non lo fare più. In casa mia queste cose non sono permesse e se ti dovesse venire in mente qualche altra cosa, la porta è là e il ricamo te lo fai insegnare da qualcun’altra!
Anche altre volte Emilia e Pasquale hanno occasione di stuzzicarsi in pubblico e le voci su una loro possibile relazione cominciano a girare. E le voci cominciano a esprimere non solo una possibilità ma diventano, in paese, una certezza dopo che i due sono sorpresi a parlare insieme in Sila. Qualcuno si mette a raccontare che, dopo un breve conciliabolo davanti alla casetta che la famiglia di Emilia usa durante i lavori nei campi silani, Emilia prende un orciuolo e con la scusa di riempirlo a una sorgente, si addentra nel bosco dove l’aspetta Pasquale. È lì che i due consumano la loro tresca.
Pasquale, invece di mettere a tacere le voci, comincia a vantarsi pubblicamente di aver posseduto la ragazza e, non contento, aggiunge che avrebbe fatto la stessa cosa con la sorella e la madre di Emilia. Una mattina, un anziano del paese lo ferma per strada e lo mette in guardia:
– Pasquà, stai attento. Finiscila con Emilia ché se la voce arriva al padre e ai fratelli ti ammazzano.
– Chi te l’ha detta questa cosa? – gli chiede Pasquale.
– Pure le pietre lo sanno e ne parlano e soprattutto ne parli troppo proprio tu! – gli risponde sarcastico.
Iu ‘un me spagnu ‘e nullu! – tronca il discorso Pasquale, andandosene per la propria strada e lasciando di sasso l’amico.
E le voci arrivano anche alla moglie di Pasquale che chiede notizie del fatto a una sua amica:
– Non mi dici niente? – attacca.
– Su che cosa? – cerca di glissare l’amica, che ha capito a cosa la donna si riferisce.
– Hai visto qualche volta mio marito con Emilia?
– No…
– Ma come? Tutto il paese bolle perché amoreggiano e tu non ne sai niente?
– Pure tu che sei la moglie ti metti a sparlare? Non lo sai che se lo vengono a sapere il padre e i fratelli di Emilia a tuo marito l’ammazzano?
Se mio marito viene ammazzato, io mi sposo con un altro! – risponde con la faccia rossa dalla rabbia e l’animo in tumulto della donna tradita.
Sono le sei e un quarto del 13 agosto 1922 quando Felice Grandinetti bussa alla porta della caserma dei carabinieri di Celico. Al piantone farfuglia qualcosa di incomprensibile mentre si asciuga il sudore che gli imperla abbondantemente la fronte. Poi lo fanno sedere, si calma e dice quello che ha da dire:
– Stavo andando da Spezzano a Manneto e percorrevo la scorciatoia solita quando l’ho visto steso a terra. credo che sia morto ammazzato…
– Chi? – gli chiede il brigadiere Mendola.
– Pasquale Belcastro.
I carabinieri si precipitano sul posto e, steso accanto al ruscello che scende nel vallone di Manneto, proprio nel punto in cui la scorciatoia è formata da gradini scavati nella roccia, trovano, bocconi, il cadavere di Pasquale. A circa mezzo metro c’è il suo cappello sul quale è evidente un foro di proiettile. Sul collo i carabinieri notano un foro dal quale fuoriesce ancora del sangue. Sulla parte sinistra della fronte c’è un’escoriazione abbastanza profonda ai cui lati c’è del sangue coagulato.
– Prendi il cappello – dice il brigadiere a un sottoposto, poi, girato il cadavere glielo mette in testa e constata che il foro sul cappello e l’escoriazione sulla fronte combaciano perfettamente – due pallettoni… un bel lavoretto… – volge lo sguardo intorno e individua due possibili punti da cui sono potuti partire i colpi: un campo di fagioli sottostante alla stradina e un gruppo di cespugli di castagni a monte. Fa ispezionare i luoghi ma non viene trovato nessun indizio particolarmente rilevante. Nelle tasche del vestito marrone che Pasquale indossava, i carabinieri trovano una rivoltella con due bossoli esplosi. Mendola se la porta al naso e dall’odore capisce che quella rivoltella non ha sparato da parecchio tempo.
Le indagini si indirizzano subito verso la famiglia di Emilia, perché quella è l’unica potenziale inimicizia che Pasquale aveva. Vengono ricercati il padre e i due fratelli della ragazza ma di loro, a Celico, non c’è traccia.
– Sono in Sila a lavorare nei campi – dicono in molti, così il brigadiere telefona alla caserma della Guardia Forestale di Camigliatello per chiedere di andare ad arrestare i maschi della famiglia Tornello, in contrada Buttino. Lì le guardie forestali trovano Giuseppe Tornello, il padre, e Salvatore, uno dei due figli maschi. Francesco, l’altro figlio, manca da casa da un paio di giorni e non sanno dove sia.
Francesco è a casa a  Celico ed è qui che lo arrestano i carabinieri, rinchiudendolo in camera di sicurezza con gli altri due, in attesa di essere interrogati.
– Io non ne so niente di questa storia – fa il padre ai due figli – e non capisco che cosa vogliono da me che non mi sono mai mosso dalla Sila. E poi perché avrei dovuto ammazzarlo se non mi ha fatto niente?
– Io nemmeno ne so niente – protesta Salvatore – io e te siamo sempre stati insieme – continua rivolto al padre. Poi rivolge lo sguardo verso Francesco – tu ne sai qualcosa? Parla chiaro che qui si mette male per tutti! – Francesco abbassa gli occhi e non parla.
– Ma di che stai parlando? Che deve sapere Ciccio? – chiede il padre, incredulo.
– Chiedilo a lui se ne sa qualcosa – insiste Salvatore – lui è mancato due giorni…
– Ma perché avrebbe dovuto ammazzarlo? Che gli ha fatto? – continua il padre, ignaro.
– Papà, sono stato io – ammette finalmente Francesco – l’ho ammazzato per vendetta perché diceva in giro che ha fottuto con Emilia e che avrebbe fatto lo stesso con l’altra sorella nostra e con mamma…
Ohi sciuallu miu! – esclama il padre, inebetito – e ora che diciamo ai carabinieri?
– Possono avere solo sospetti – continua Francesco – non hanno prove che sia stato io, statevi calmi che la situazione si risolverà presto.
Francesco, però, non fa in tempo a dire come farà a sviare i sospetti che un frastuono proveniente da sotto uno dei tavolacci della cella fa sobbalzare lui e i suoi familiari.
– Fermi tutti! – urla la guardia forestale Emilio Vetere, che dietro ordine del brigadiere Mendola si era nascosto per carpire eventuali ammissioni dei sospettati i quali ci sono cascati come polli – brigadiere, aprite ché hanno parlato – urla, tenendo sotto tiro i tre.
Giuseppe e Salvatore Tornello vengono scarcerati e Francesco dovrà raccontare come e perché si è deciso a compiere l’omicidio.
– Da un paio di mesi girava in paese la voce che Pasquale Belcastro aveva posseduto mia sorella Emilia e che se ne vantava in pubblico, ma io all’epoca non ne sapevo ancora niente. Verso la metà di luglio mi venne all’orecchio qualcosa e io ne chiesi conto a mia sorella la quale non poté negare. Le dissi che se era vero che Pasquale l’aveva stuprata alla sorgente minacciandola con la rivoltella, allora lo doveva uccidere lei per lavare l’offesa, altrimenti l’avrei cacciata di casa. Lei mi rispose che era giusto ciò che le dicevo ma non se la sentiva di ammazzarlo e così le dissi che lo avrei ammazzato con le mie mani per vendicare l’offesa alla nostra famiglia. Ma forse non l’avrei fatto, senonché mi resi conto che la gente mi rideva dietro quando passavo perché Pasquale aveva cominciato a dire che avrebbe posseduto anche l’altra mia sorella e mia madre e, in più, una volta mi sono accorto, incontrandolo, che da dietro mi ha fatto il segno delle corna e tutto questo ha inacidito ancora di più il mio sangue che già era guastato. Avrei voluto ammazzarlo subito ma gli impegni della campagna mi costrinsero a rimandare la vendetta. La sera del dodici agosto andai in Sila, lasciai il carro coi buoi nella stalla e, senza fare capire niente a mio padre e mio fratello, dissi che tornavo in paese per partecipare alla prossima festa di ferragosto e mi avviai a piedi. Quella notte non sono rientrato in paese ma ho dormito sotto i castagni che si trovano nelle vicinanze dove è successo il fatto. La mattina del tredici, pensando che Belcastro, come al solito, passasse per la scorciatoia che da Spezzano va a Manneto, mi appostai a Canalicchio, da dove si domina un buon tratto della stradella. Ad un tratto vidi Pasquale che andava verso Celico con passo svelto; supposi che mi avesse visto e cercai di raggiungerlo correndo per un’altra scorciatoia e quando fui a un’ottantina di metri da lui ho preso la mira per bene e gli ho sparato contro l’unico colpo del mio vecchio fucile. Pasquale aveva appena cominciato a percorrere il tratto in salita della stradella e cadde a terra come fulminato senza emettere nemmeno un lamento. Mi avvicinai e vidi che da un buco nel collo sprizzava sangue come una fontana e pensai che se non era già morto lo sarebbe stato di lì a poco e non ho voluto infierire sparandogli ancora. In giro non c’era nessuno e così sono rientrato nel bosco e senza percorrere strade battute sono tornato verso la Sila e poi sono ridisceso in paese come se stessi tornando proprio in quei momenti.
Grazie allo stratagemma del brigadiere Mendola, oggi la definiremmo intercettazione ambientale, Francesco Tornello viene rinviato a giudizio per omicidio volontario premeditato, ma gli avvocati Ernesto Fagiani e Tommaso Corigliano hanno buon gioco a invocare l’assoluzione perché si tratta di delitto d’onore e la giuria, il primo dicembre 1923, lo manda assolto.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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