NON SCAVALCATE LA CORDA

Pasquale Lupo ha quarantasei anni quando, nel 1914, torna dall’America dove ha lavorato in una miniera di carbone, nella quale ha lasciato il fratello minore. Una volta arrivato in paese va ad abitare nella casetta che ha in comune col fratello nella frazione Grupa di Aprigliano, ma ha un problema: nell’unica stanza della casa ci abitano anche la cognata, Maria Rossi, e i suoi tre bambini.
Pasquale non ha un carattere facile. È violento, iracondo, impulsivo e in più gli piace il vino. La convivenza non può quindi essere pacifica. Nel corso degli anni le liti sono quasi quotidiane e quando i bicchieri che ha ingollato sono troppi, gli ritorna sempre alla mente il fatto che la cognata aveva fatto questioni per restituirgli le tremila lire che, con gli enormi sacrifici fatti nelle buie gallerie della miniera, aveva messo da parte e speditele per fare dei buoni postali. Ma il motivo più frequente per litigare è senza dubbio quell’unica stanza troppo piccola per esigenze completamente opposte. Pasquale avrebbe voluto dividerla in due parti ma gli esperti consultati in passato avevano escluso questa possibilità perché le due parti si sarebbero ridotte a due cucce per cani e, d’altra parte, nemmeno il fratello e la cognata avrebbero acconsentito a una soluzione così scellerata. “Vendiamola e ci dividiamo i soldi” gli aveva proposto il fratello minore. “No, voglio la mia parte di casa”.
Così le stupide ripicche, da una parte e dall’altra, non fanno altro che incancrenire una situazione già difficile per il carattere di Pasquale.
E Pasquale ci mette molto del suo perché non perde occasione per terrorizzare la cognata e i nipotini: una notte avvicina il suo letto a quello dove dorme la cognata con i figli e per tutta risposta alle proteste di Maria, prende una scure e fa il gesto di voler mozzare i piedi a lei e ai bambini, col risultato di farli scappare di casa per un paio di giorni; un’altra volta punta la sua rivoltella alla testa della cognata e le dice: “Chissà come sarebbe la tua testa con un
buco in fronte…”, ottenendo in risposta “Tu sei pazzo!” e un’altra fuga.
Sono passati ormai quattro anni e Pasquale non vuole più saperne di dividere la stanza. Né lui, né tanto meno la cognata vogliono cedere e trovarsi un’altra sistemazione e allora, il 12 ottobre 1918, gli viene in mente la bizzarra idea di stendere una corda tra due pareti in modo da dividere la stanza in due:
– Da questa parte ci sto io e dall’altra voi e attenti a non oltrepassare la corda perché vi ammazzo come cani – è la terribile minaccia che fa alla cognata e ai nipoti.
– Tu sei pazzo! Ma ti rendi conto che quello che dici è assurdo? Le tue cose sono un po’ di qua e un po’ di la, così come le mie, come pensi che sia possibile fare come dici tu? – protesta Maria.
– Io ti ho avvertita… fai come vuoi, ma se passi la corda ti spacco la testa con questa – continua a minacciarla mostrandole una grossa scure.
Maria non replica per non peggiorare la situazione ma sa che quella imposizione non potrà essere osservata da nessuno e, d’altra parte, non crede che Pasquale darà seguito alle sue minacce. La giornata procede tutto sommato tranquilla e nessuno oltrepassa la corda ma quando viene l’ora di far mangiare i figli, Maria deve per forza passare nella metà del cognato per prendere i piatti.
– Pasquà, vedi che passo un attimo per prendere i miei piatti che sono sul tavolo – lo avvisa.
– Se passi ti ammazzo! – le risponde lapidario.
– Va bene – il tono di Maria è quasi di burla. Si alza dalla sedia accanto al camino, si avvicina al limite invalicabile, guarda verso il cognato che sogghigna, alza una gamba e la porta oltre la corda e dopo fa lo stesso con l’altra. Sono solo due passi. Prende i piatti e, scavalcata di nuovo la corda, torna a sedere vicino al caminetto per minestrare la cena. Serafina, la figlia di nove anni, è stesa sul letto; Michele, dodici anni, e Antonio, otto anni, stanno giocando vicino alla porta di casa.
Pasquale non dice una parola, ha già deciso.
Appena vede la cognata che gli volta le spalle intenta a riempire i piatti, si alza, prende la scure, scavalca la corda e comincia a vibrare tremendi colpi sulla nuca della povera donna la quale senza un lamento stramazza al suolo col cranio sfondato. Una pozza di sangue si allarga istantaneamente sul pavimento; la bambina vede la scena e, terrorizzata, comincia a piangere e a urlare. Michele e Antonio spalancano la bocca e sgranano gli occhi ma sono come paralizzati e non riescono nemmeno a fiatare. Pasquale è attirato dal pianto disperato di Serafina, la guarda con gli occhi di fuori e un ghigno satanico gli storce la bocca. Non ha nemmeno bisogno di spostarsi. Alza la scure e il colpo si abbatte sulla testa della bambina. Adesso c’è silenzio. Michele e Antonio guardano lo zio che sembra non accorgersi della loro presenza, poi Michele si scuote, strattona il fratellino facendogli segno di non fiatare. Cercando di non fare rumore apre la porta di casa e trascina Antonio fuori. Corrono. Corrono fino a farsi scoppiare il cuore in petto, poi si fermano e si abbracciano. Adesso possono piangere.
Michele passa in un minuto dalla fanciullezza alla maturità. Si nascondono in una baracca fuori dal centro abitato e ci restano finché è buio. Adesso sa che può camminare senza essere visto: non perde più tempo, prende per mano Antonio che trema ancora come una foglia e corre dai Carabinieri a raccontare tutto e trovare riparo e salvezza per sé stesso e per il fratellino.
Il Maresciallo Maggiore Medoro non crede alle sue orecchie quando, ancora svestito, ascolta il racconto di Michele. In fretta e furia si veste e fa vestire tutti i militi disponibili e corre alla Grupa, entra in quella casa con circospezione e con la rivoltella in pugno per ogni evenienza, ma non può far altro che constatare le orribili condizioni in cui Maria e Serafina giacciono.
Per terra, accanto al cadavere della bambina, c’è la scure piena di sangue, con attaccati brandelli di carne e capelli delle vittime; sotto il tavolo un’accetta pulita e la corda raccolta in cerchio. Di Pasquale nemmeno l’ombra.
Le ricerche vengono estese a tutti i paesi limitrofi ma l’assassino sembra sparito nel nulla. Vengono spediti telegrammi anche a Palermo, Napoli e Genova nel timore che Pasquale possa imbarcarsi clandestinamente per gli Stati Uniti, ma senza alcun risultato.
Passano i giorni, i mesi e gli anni ma l’uomo sembra essersi volatilizzato. Le indagini, nel frattempo, si concludono e Pasquale viene rinviato a giudizio in contumacia e, in contumacia, condannato all’ergastolo il 16 aprile 1921.
Poi verso la fine dell’anno accade che un paesano che lavora per una ditta incaricata dei lavori di costruzione della ferrovia Calabro-Lucana viene richiesto da un’altra ditta, la Tonini Luigi Appaltatore, che sta costruendo una tratta in provincia di Potenza. Quando la sua squadra viene incaricata di trasportare del materiale nelle vicinanze dell’abitato di Pietragalla, l’uomo ha come un’allucinazione: uno degli operai assomiglia in modo impressionante a Pasquale Lupo. “No, non può essere lui, come ci finiva in questo posto?”. La sua squadra ritorna ad Acerenza e la sera, al momento di dormire, comincia ad avere un senso di rimorso. “Ho sbagliato. Dovevo andare dai Carabinieri a dire quello che ho visto. Se quell’uomo non è Pasquale, non ha nulla da temere”.
Così, la mattina dopo, durante il viaggio, racconta tutto al caposquadra e quando finisce di scaricare il materiale può andare a parlare col Maresciallo Natale: gli racconta la storia dell’omicidio, gli dice che ha visto l’assassino tra gli operai che lavorano lungo la linea ferrata e gliene fornisce una dettagliata descrizione.
È il 28 dicembre 1921 quando il maresciallo, dopo aver verificato i documenti di tutti gli operai della ditta Tonini, mette le manette ai polsi di Pasquale Lupo, alias Pasquale Marasco.
Pasquale viene trasferito nel carcere di Cosenza, la sentenza di condanna in contumacia viene annullata e disposto un nuovo dibattimento, nel corso del quale i suoi difensori fanno subito richiesta di perizia psichiatrica perché chi ha concepito un delitto così orrendo non può essere normale. L’assassino viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Napoli e sottoposto a perizia.
Nell’anamnesi familiare, i periti riscontrano che in linea ascendente non risultano casi specifici di alcoolismo, epilessia, indole perversa, malattie diatesiche (cancro, tisi, scorbuto, rachitismo); sappiamo però che il padre del soggetto fu uno squilibrato, che lo zio paterno a nome Domenico, zoppo e balbuziente, si suicidò e che un altro zio era strambo. Tali notizie ci vengono confermate in parte dal soggetto il quale tende a precisare la pazzia del padre e di uno zio e il suicidio dell’altro.
I medici, d’altro canto, non possono non rilevare che la statura tocca metri 1,64 e la grande apertura delle braccia di metri 1,69. Di regola accade che nelle personalità bene evolute la grande apertura delle braccia rimane considerevolmente al disotto della statura, mentre il rapporto inverso si ritiene come appannaggio di personalità degradate in quanto ricorda una disposizione scimmiesca. Nel nostro caso la differenza in più per quanto non rilevante rientra nella serie degenerativa anziché in quella della maggiore normalità.
Ma se in base a tali risultati noi siamo indotti a pensare ad una degenerazione somatica, i risultati non meno importanti dell’esame psichico col deficiente sviluppo di senso morale, col limitato potere di percezione, di ideazione, attentivo, mnemonico depongono per una deficienza psichica dell’imputato. Tale giudizio ci è anche confermato dal contegno dello stesso durante le osservazioni e gli interrogatori, nell’intento di aggravare questo suo stato mentale, esagerando e simulando. Egli in certi momenti ha rappresentato la parte del deficiente in grado elevato con atteggiamenti, con risposte, con atti spesso puerili ridicoli e contraddittori. Ma troppo puerili sono le sue risorse perché esse ci possono trarre in inganno; pure servono a farci maggiormente convincere di un deficiente grado di sviluppo psichico.
Dobbiamo in ogni modo affermare fin d’ora che in esami eseguiti ripetutamente, nell’osservazione del soggetto durata oltre tre mesi non non abbiamo avuto occasione di riscontrare nell’imputato una seria affezione mentale che potesse senz’altro escludere la sua responsabilità.
Non è da escludere però che nel suo cervello male organizzato i rifiuti, la indifferenza e le ingiurie da parte dei parenti avessero ad assumere proporzioni superiori, onde in lui cominciò a sorgere l’idea della vendetta. La ferocia nel compiere il delitto dimostra come l’atto delittuoso non potesse essere che l’effetto di una collera violenta determinatasi così facilmente per la deficiente costituzione somatica e psichica del soggetto.
Pur allontanandosi nel nostro caso l’atto incriminato dalle manifestazioni abituali della vera e propria follia, noi
possiamo invocare a favore del soggetto attitudini trasmessegli per eredità e quel complesso di sintomi degenerativi morfologici, funzionali e psichici, per i quali il delitto appare come il risultato di una passione che non si poteva facilmente evitare
.
Quindi Pasquale sarebbe un po’ meno normale del normale perché ha le braccia lunghe come quelle di una scimmia, uno zio zoppo, balbuziente, suicida e un altro zio strambo. Ed è proprio questa miscela esplosiva, secondo quei dottori, a determinare lo scoppio di collera e foga di vendetta che causarono due orrendi omicidi e le sue condizioni, in quei tragici momenti erano tali da scemarne l’imputabilità senza escluderla. Insomma, con questa arrampicata sugli specchi, gli specialisti napoletani raggiungono il duplice risultato di togliere Pasquale dall’inferno del manicomio giudiziario e di salvarlo dall’ergastolo. infatti, al termine del secondo processo a suo carico, la pena che la giuria gli comminerà sarà di 10 anni e 10 mesi di reclusione.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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