PAURA E DELIRIO A SAN LUCIDO

A San Lucido, verso la fine dell’Ottocento, spadroneggiano alcuni malavitosi che campano di estorsioni, la camorra, e perciò sono definiti camorristi e mafiosi. I peggiori tra questi sono certi Antonio Mazza e Domenico Fanella i quali non pensano minimamente di associarsi tra di loro per soggiogare del tutto il paese ma, anzi, sono acerrimi nemici e combattono una guerra non dichiarata da lupi solitari per il predominio personale. Fanella deve il suo prestigio al fatto di aver scontato sette anni di carcere per un omicidio. Non c’è bisogno che alzi la voce o le mani per ottenere il richiesto: a incutere timore bastano il suo portamento autorevole e l’omicidio commesso.
Mazza, al contrario, è un tipo irascibile, facile a offendere, pronto a usare le mani e il coltello contro chiunque e per un nonnulla. Vede nemici dappertutto e non risparmia la violenza neppure al padre e alla moglie, che picchia quotidianamente. Una volta la guardia Municipale Achille Sammarro lo sorprese mentre minacciava con un pugnale il barbiere del paese, Gaetano Citrino, e fece per arrestarlo ma Antonio Mazza lo aggredì e lo avrebbe ammazzato se non gli si fossero buttate addosso cinque o sei persone, riuscendo a disarmarlo. Sammarro ovviamente lo denunciò e Mazza cominciò a odiarlo e a meditare vendetta. Il suo rancore si estese anche nei confronti del Sindaco Adolfo Giuliani, del Segretario comunale Achille Melicchio e del Vice Segretario comunale Battista Iannuzzi, colpevoli, a suo dire, di aver materialmente scritto la denuncia a suo carico. Il Segretario comunale e la guardia, nonostante tutto, cercarono di farlo ragionare e convinsero il Sindaco a dargli un posto di becchino al cimitero. Pensate che Mazza fu contento della cortesia? Sbagliate. Una mattina, durante una visita al cimitero, il Sindaco gli chiese come mai avesse scavato tre fosse più del necessario.
Qualche giorno di questi mi serviranno… – rispose sibillinamente ma con un tono tale da non lasciare dubbi su chi avesse intenzioni di sotterrare in quelle buche e al Sindaco gli si accapponò la pelle.
Sebbene, come abbiamo visto, Antonio Mazza sia un tipo da evitare, qualche volta bisogna fare buon viso a cattivo gioco e così, il pomeriggio del 28 marzo 1898, alcuni paesani accettano di fare una partita a carte con lui davanti a un fiasco di vino nel caffè-pasticceria di Giuseppe Camera che affaccia sulla piazza. Tutto si svolge tranquillamente e alla fine del gioco la compagnia esce dal locale tra lazzi e amenità varie. Davanti al Circolo dell’Unione, che è di lato al caffè, sta passando Costantinu ‘u ciuatu, un ragazzo disagiato col quale tutti si divertono prendendolo in giro e Mazza non vuole perdere l’occasione di farsi quattro risate.
– Costantì, vieni qua e fammi il verso del tacchino – gli fa per attirarlo e Costantino si avvicina ma, Mazza gli mette lo sgambetto per farlo cadere. Ci sono altre persone che guardano e ridono, poi dal nulla compare Domenico Fanella che si frappone tra i due.
– Che gli vuoi fare? – gli dice in tono di sfida.
– Niente di male. Scherzo come tutti gli altri – risponde Mazza.
– Allora scherza con me, visto che vuoi fare il malandrino – la provocazione è partita e si completa col sonoro schiaffo che Fanella molla al rivale. È un’offesa mortale ed è ormai chiaro che quella deve essere la resa dei conti tra i due pretendenti al trono della malavita sanlucidana.
Antonio Mazza non si scompone, nella sua mano destra luccica sinistramente una lama. ma luccica solo per una frazione di secondo perché con un movimento improvviso il coltello a lama fissa, lungo ventitré centimetri, si conficca nel cuore di Luigi Fanella che cade stecchito all’istante. L’assassino si china sul cadavere ed estrae la lama, mentre uno zampillo di sangue gli imbratta la giacca. Con calma, tra lo stupore generale, se ne torna a casa, pulisce il coltello e si accinge a togliersi la giacca per lavarla.
Ripresesi, alcune persone soccorrono inutilmente Domenico Fanella, altre si mettono in cerca del Sindaco e della guardia municipale per avvertirli dell’accaduto. Sammarro, che è in compagnia del Segretario comunale, si precipita a casa di Mazza. Bussa alla porta.
– Apri! Non fare il fesso, apri che risolviamo tutto!
– Vattene, non mi fare incazzare!
– Apri che andiamo a parlare col Sindaco e risolviamo tutto. Il Sindaco ti vuole bene e mette a posto tutto… – cerca di convincerlo. Antonio Mazza ci casca e apre la porta nonostante non abbia nessuna voglia di uscire da casa.
– Achì… sono ubriaco… vieni domani mattina che adesso non è cosa… vattene! – la guardia lo prende per un braccio e comincia a strattonarlo ma Mazza cerca di divincolarsi. I due si spintonano finchè la guardia perde la pazienza e sbotta:
– Va bene, ho capito che devo essere più mafioso e malandrino di te, non mi fai paura! O vieni col buono o vieni col tristo se no ti sparo! – e così dicendo fa il gesto di prendere la rivoltella. Ma Antonio Mazza è più veloce della luce: cava di tasca il coltello e glielo pianta in pieno petto. Sammarro stramazza al suolo morto stecchito come Fanella prima di lui, mentre l’assassino, urlando, comincia a vagare per le vie del paese ormai in preda a un vero e proprio delirio. Pensa che sia ormai giunto il momento di riempire le tre fosse scavate in più.
Dov’è quel ladro del Sindaco? Dov’è quell’assassino del Segretario? Li debbo ammazzare!
Lungo la strada S. Giovanni, Mazza si imbatte in Concetta Martire, la moglie del Vice Segretario comunale e, senza dire parole, le si avventa contro ferendola al petto. Solo il suo grosso seno la salva da morte certa. Non contento, le sferra un calcio e, in segno di disprezzo, usa l’elsa del pugnale come un fallo mettendogliela in bocca. Poi se ne va per la sua strada. La donna, sanguinante, si dirige verso casa e, sotto il Castello, incontra il Sindaco in compagnia degli altri fratelli Giuliani, Carlo, Cesare ed Emilio che, scortati dai guardiani delle proprie terre, stanno aspettando l’arrivo dei Carabinieri e delle Guardie di Finanza chiamate telegraficamente per provvedere ad arrestare l’assassino.
Ma Antonio Mazza ha ancora abbastanza tempo a disposizione per seminare a caso il terrore nelle strade di San Lucido prima che carabinieri e finanzieri arrivino da Paola col treno.
Così accoltella a morte anche Salvatore Iorio, un ragazzo di 19 anni, appena tornato dall’America per fare il servizio militare, poi colpisce, ferendoli più o meno gravemente, Carmela Montoro, Michele Pierri, Salvatore Pierri, Salvatore Alò, Vincenzo Esposito De Limpio, Teresa Rago, Rosa Rago (morirà il 13 luglio successivo), Rosalia Rago, Maria Rosaria Iannuzzi, Concetta Provenzano, Salvatore Spadea e Salvatore Calabria.
Porcamadonna! Chi ha coraggio si faccia avanti! – urla mentre sorprende Salvatore Calabria davanti alla porta di casa. L’uomo schiva il primo colpo e si rintana dentro ma Mazza è una furia e riesce a entrare anche lui. Lo ferisce e sta per vibrargli il colpo di grazia quando la moglie e la cognata dell’uomo gli saltano alle spalle e lo tempestano di colpi. Calabria, seppur ferito, riesce a disarmarlo.
Mazza scappa e bussa alla porta del padre. Gli chiede un’ascia per continuare la mattanza ma il padre, pur non essendo un agnellino, ha paura e non gli apre, anzi, lo prende a pietrate dalla finestra e l’assassino se ne va verso la propria casa per armarsi di nuovo.
Ma ormai è troppo per San Lucido. Qualcuno si apposta nell’oscurità e, non appena Mazza gli è a tiro, gli scarica alle spalle due colpi di fucile caricato a pallini. L’assassino cade ferito ma procedendo a carponi riesce a rifugiarsi nella casa del suocero, dove i Carabinieri lo vanno a prendere e, legato mani e piedi, lo portano nel carcere di Paola.
In tutto quattro morti e undici feriti.
Pensate che la storia sia finita? No, la storia del malandrino Antonio Mazza deve ancora cominciare.
Data la gravità dei reati, Mazza viene trasferito nel carcere di Cosenza, ma ha ancora in corpo una quantità enorme di pallini di piombo e viene ricoverato nell’infermeria, dove il dottore Gaetano Fera lo cura. Lo sottopone anche a una rivoluzionaria terapia per lenirgli il dolore che ha ad un ginocchio, facendogli passare la corrente elettrica nel corpo. Mazza in infermeria sta come un pascià: servito, riverito, cibo abbondante e di qualità. Ma la pacchia finisce quando tutte le cicatrici si sono rimarginate e così viene spedito nella cella N° 23, quella destinata ai peggiori delinquenti. Qui fa questioni  con uno che non gli riserva quel rispetto che in carcere è dovuto a un mafioso e camorrista come lui. Gli spacca la testa con un piatto e il Consiglio di Disciplina gli appioppa venti giorni di cella di rigore. Lo tengono legato meni e piedi ai ferri per quarantotto ore, poi ventiquattro sciolto, poi di nuovo legato e così via. È furioso, medita vendetta. Quando lo riportano in cella diventa una furia: piega a mani nude le sbarre del cancello e rompe tutto quello che c’è nella cella. Lo fermano a stento e a stento riescono a mettergli la camicia di forza. Da questo momento per tutti è un pazzo. I giudici lo fanno visitare da medici generici e decidono di farlo ricoverare nel manicomio criminale di Aversa per sottoporlo a una vera e propria perizia psichiatrica.
Appena arrivato nel manicomio comincia a fare il malandrino. Qualcuno gli consiglia di prendere contatto e cercare di stringere amicizia con un ricoverato, un certo Catalucci che, sapendo leggere e scrivere, aiuta a sbrigare qualche lavoro di segreteria. Lo scopo del contatto è ricevere da Catalucci, che tutti chiamano lo scrivanello, le istruzioni su come comportarsi con i medici durante le visite per farsi dichiarare ufficialmente incapace di intendere e di volere e scampare, così, all’ergastolo.
Mazza fa di tutto per entrare in contatto con lo scrivanello e ci riesce. Riesce anche a entrare in intimità con lui e gli chiede di insegnargli i trucchi per simulare la pazzia. Catalucci accetta e gli comincia a dire cosa fare e gli fa fare anche delle esercitazioni pratiche. Una mattina, però, lo scrivanello ha anche lui qualcosa da chiedere ad Antonio Mazza.
– Caro Antonio, come va stamattina? – gli dice cingendogli le spalle con un braccio, quasi come se fosse il primario – oggi ho io una cosa da chiedere a te…
– A disposizione, qualunque cosa…
– Vedi, Antonio, tu mi piaci, mi piaci assai… – lo sguardo dello scrivanello si fa profondo e torbido insieme – io vorrei… vorrei che tu diventassi…
– Che io diventassi… – ripete Mazza.
– Che tu diventassi il mio amante…
Antonio è sconcertato, con una mossa rapida si libera dell’abbraccio, vorrebbe saltargli addosso e ammazzarlo all’istante. “E poi?”, pensa. Poi sarebbe la sua fine definitiva.
– O… onorato… – risponde invece guardandolo negli occhi e mettendo da parte la sua tracotanza da malandrino.
– Bene, sei un caro ragazzo, vieni qui, abbracciami… – lo invita con tono paterno.
Antonio cade nelle braccia dello scrivanello e, assecondando la mano dell’altro che prende la sua, comincia a toccarlo. Catalucci lo fa girare, gli fa abbassare i calzoni e abusa di lui. E lo farà ogni giorno. Mazza si vergogna un po’ del fatto che proprio lui, il più rispettato di tutti, è diventato un femminiello. Ma è disposto a tutto, “tanto non lo saprà nessuno” si dice.
La voce, invece, si sparge subito tra i reclusi ma tutti stanno zitti perché sanno che se fanno o dicono qualcosa, lo scrivanello può fargliela pagare molto cara e fanno buon viso a cattivo gioco.
Una mattina, poi, Antonio come al solito va a trovare Catalucci ma non lo trova: “è stato dimesso” gli dicono con un sorrisino sulle labbra. Con la coda tra le gambe torna in cella. Tutti sanno che lo scrivanello non c’è più e nessuno ha più paura di Antonio Mazza. I suoi compagni di cella lo accerchiano, lui cerca di sottrarsi ma sono in sette contro uno.
– A lui si e a noi no? – gli dice quello che sembra comandare gli altri.
Dovrà sopportarli tutti quella volta, ma appena riesce a uscire dalla cella comincia a fare il diavolo in quattro e riesce a farsi chiudere in una cella per conto suo. Ha perso la faccia, non potrà più fare il malandrino, ma almeno è salvo e può continuare la sua messinscena. Finge molto bene, Antonio. I medici sono in difficoltà a capire la sua mente e cercano di fregarlo con uno stratagemma. Fanno andare nella sua cella uno specialista che lui non ha mai visto e lo spacciano per il suo difensore d’ufficio. Il trucco funziona e Antonio si apre a confidenze di ogni genere. Racconta tutto per filo e per segno e confessa che sta seriamente pensando di smetterla di fingersi pazzo per potere andar via da quel posto dove non conta più niente e tutti lo deridono.
– Meglio l’ergastolo in un carcere dove non mi conoscono e dove posso essere rispettato che non qui dentro – dice alla fine.
E i medici lo accontentano. Scrivono tutto nella perizia e lo dichiarano capace di intendere e volere nei momenti in cui ha assassinato Domenico Fanella e Achille Sammarro, ma che non può essere ritenuto responsabile dell’altro omicidio e degli undici tentati omicidi perché non li ricorda nemmeno. Ma che nessuno si azzardi a rimetterlo in libertà, dicono i periti, perché, tornato libero, tornerebbe a essere il temuto mafioso di San Lucido, con tutte le prerogative che i mafiosi hanno (…. Il Mazza, insomma, se prosciolto dall’accusa, riuscirebbe ancora più pericoloso di prima perché garantito dall’immunità di cui egli avrebbe piena coscienza di godere pel suo carattere.
L’assassino viene così rinviato a giudizio, pur restando ancora ricoverato nel manicomio di Aversa.
Il processo si tiene dopo tre anni e nove mesi dai tragici fatti e dura solo due giorni, dal 28 al 30 ottobre 1902. La sentenza tiene conto della volontà di Antonio Mazza di uscire dal manicomio e viene condannato all’ergastolo.
L’avvocato Pietro Barrese, il suo difensore, fa una mossa a sorpresa. Rinuncia all’appello e ricorre direttamente in Cassazione ma senza risultato. Il 25 febbraio 1903 il ricorso viene respinto.
Il mafioso e camorrista Antonio Mazza, nato a Falconara Albanese ma cresciuto a San Lucido, manterrà il segreto di essere un femminiello disonorato e continuerà a fare il malandrino in carcere.[1]
      Il 26 ottobre 1950 Antonio Mazza, il più vecchio ergastolano d’Italia, viene graziato dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi  e scarcerato dall’Istituto Penitenziario di Procida dopo 52 anni di reclusione, unico condannato ad aver trascorso tanti anni in carcere.

Antonio Mazza è ormai un vecchietto di quasi ottant’anni, curvo e magro; del suo passato non ricorda quasi più nulla. Nella sua mente, fiaccata dall’interminabile detenzione, resistono soltanto le scene della strage di San Lucido ed il ricordo delle interminabili giornate sempre uguali trascorse nel penitenziario dell’Isola di Pianosa, solitaria in mezzo al Tirreno ed abitata esclusivamente da detenuti privi di speranze, dove rimase per 26 anni.

Dimenticato da tutti non ha, non può avere, progetti per l’avvenire e, non sapendo dove andare, ha espresso il desiderio di trattenersi presso qualche stabilimento penale, magari come inserviente. D’altra parte sarebbe felice se qualcuno lo aiutasse a rivedere il suo paese, anche se nessuno lo attende più, né lo ricorda.

Un ospizio per poveri di Roma, per dovere di carità, gli ha offerto un posto fra i suoi ricoverati. [2]

 

[1] ASCS, Processi Penali.
[2] Rielaborazione dell’articolo pubblicato su STAMPA SERA l’11-12 novembre 1950.

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