Sono quasi le 23,00 del 19 agosto 1919 e un uomo vestito di scuro con una paglietta in testa bussa violentemente alla porta del bordello gestito da Filomena Viafora, al numero 10 di Vico III San Tommaso a Cosenza. Ad aprire la porta è la trentaduenne prostituta tedesca Clara Eibler, la quale viene letteralmente investita dall’uomo che l’afferra per le braccia e la trascina nel salottino di attesa.
– Puttana! Perché l’altra sera non mi hai voluto aprire? – le fa l’uomo con gli occhi iniettati di sangue
– Era mezzanotte… era già passata l’ora di chiusura… lasciami… mi fai male… – gli risponde torcendo la bocca per il dolore della stretta
– Quando vengo io deve essere sempre aperto, hai capito brutta puttana? – le urla in faccia, lasciandole un braccio per tirarle uno schiaffo. Per fortuna accorre la tenutaria che, con modi gentili, riesce a calmare l’uomo, Gennaro De Marco, macellaio ventunenne e attualmente militare in licenza di convalescenza.
– Gennarì – gli fa la Viafora – lo sai che a mezzanotte dobbiamo fare uscire tutti… se passa la Questura mi fa la multa e mi chiude l’attività… dai, calmati e vieni un’altra volta che ti faccio lo sconto, ma adesso vattene a casa che ci sono clienti e non possiamo dare spettacolo…
– Va bene donna Filomè, va bene, ma giusto perché siete voi – De Marco sembra aver capito, ma mentre dice queste parole rivolge lo sguardo ancora pieno di risentimento alla tedesca, poi prende una mano alla matrona e gliela bacia tre volte, quindi saluta e se ne va.
– Deve essere brillo per avermi baciato la mano, non era mai successo prima – ironizza donna Filomena
– Non lo sopporto affatto, è sempre violento – si lamenta la tedesca, poi le due donne tornano alle loro occupazioni, soddisfatte per il buon esito della discussione.
Gennaro De Marco però non se ne va a casa. Di fronte al bordello di donna Filomena ce n’è un altro, quello di Lucia Fumarola. Bussa anche lì ma la donna che si affaccia gli dice che stanno per chiudere e non gli apre nemmeno, così lui, deluso e arrabbiato, si mette a sedere sul primo gradino della scalinata lì accanto, aspettando chissà chi o chissà cosa. Una cosa è certa, Gennarino quel pomeriggio ha un po’ esagerato con l’alcool. Oltre a un litrotto di vino, ha bevuto sei birre, così racconta la fidanzata, e quasi una bottiglia di marsala, acquistata in un bar vicino all’arco di Piazza San Giovanni. Tutto questo non oltre le 22,00. Poi però ha preso un caffè al bar Tripodi a Piazza Piccola, giusto per tirarsi su.
Quello stesso pomeriggio a Piazza Carmine, intorno alle 19,00, si incontrano due ex commilitoni: Giovanni Matera, 35 anni di Cosenza, ex Sergente Maggiore ora congedato, e Cesare De Simone, 25 anni da Lecce, Caporalmaggiore presso la 1^ Compagnia Inabili del 19° Battaglione Fanteria di Cosenza. I due rievocano i tempi passati insieme sotto le armi e sotto le bombe, mangiano qualcosa insieme e fanno una lunga passeggiata. Poco prima di mezzanotte, per terminare in allegria la rimpatriata, Giovanni e Cesare decidono di andare a fare una visitina al bordello di donna Filomena. Salgono la scalinata di Piazza Piccola e girano subito a sinistra. Il portone è aperto e salgono al primo piano. Ormai è mezzanotte quando bussano. Anche questa volta è Clara Eibel che si affaccia a una finestrella interna alle scale e li avvisa che il bordello è chiuso, quindi non possono entrare. Delusi, i due amici salutano gentilmente e ridiscendono le scale. Arrivati all’altezza dell’ultimo gradino, un giovane vestito di nero gli si para davanti nella semioscurità guardandoli con aria torva. I due lo guardano con indifferenza e l’altro sbotta:
– Che cazzo avete da guardare?
– Niente, non ti ho guardato con cattive intenzioni – gli risponde De Simone. Temendo che quella sia una provocazione, Giovanni Matera si mette in mezzo e con una mano cerca di allontanare l’amico e con l’altra lo sconosciuto. Ma la spinta è troppo forte, all’uomo cade la paglietta e si infuria. Fa un passo indietro e, messa una mano in tasca, sibila:
– Militare, non ce l’ho con te, allontanati, voglio vedermela con questo cornuto miserabile – e così De Simone, coraggiosamente, si allontana lasciando che l’amico se la sbrighi da solo – carogna… – è l’ultima parola che l’uomo pronuncia prima di estrarre una rivoltella. Giovanni, terrorizzato, cerca riparo dietro una colonna ma quello gli spara due colpi all’altezza della testa da non più di un metro e mezzo di distanza.
Matera cade a terra colpito da due proiettili: uno al collo che gli si conficca tra la quarta e la quinta vertebra cervicale frantumandole e spappolandogli il midollo spinale; un altro sul lato sinistro della mascella.
– Madonna mia aiutami che muoio! – riesce a farfugliare mentre dalle finestre dei palazzi circostanti la gente si affaccia per vedere cosa sta accadendo.
L’uomo è Gennaro De Marco. Esce in strada e viene illuminato dalla fioca luce di una lampadina elettrica, così che tutti quelli che sono affacciati alle finestre possano riconoscerlo con certezza. Si guarda intorno, spara tre o quattro colpi in aria per coprirsi la fuga, poi sparisce nel buio della notte.
Scemato il rimbombo delle revolverate che a tutti sembrano cannonate, nel Vico III San Tommaso scende un silenzio di morte e sembra durare un’eternità. Clara Eibler, che ha visto tutto, è la prima a gridare all’indirizzo di De Simone:
– Militare, guarda che c’è un ferito, aiutalo!
Il militare finalmente si decide ad uscire dal suo nascondiglio e si china su Matera che, paralizzato a terra, perde sangue a fiotti dalla gola e dalla bocca. Gli toglie il colletto della camicia e cerca di confortarlo in attesa di portarlo all’ospedale. Nel frattempo arrivano sul posto carabinieri, guardie di città e anche il delegato di P.S. Carlo Chiriaco che, lasciato in tutta fretta il suo posto al Politeama, si occupa del necessario. Viene subito fuori il nome di Gennaro De Marco e scattano febbrili ricerche ma di lui non ci sono tracce e non ce ne saranno per altri giorni ancora.
Il mattino successivo il delegato va in ospedale e interroga il ferito, che con un filo di voce gli racconta la sua versione dei fatti, coincidente con quella che i testimoni oculari gli hanno già riferito.
Nella serata del 20 agosto a Giovanni Matera viene controllata la ferita, ma nel farlo, malauguratamente, una scheggia di osso si sposta, gli recide un’arteria del collo e il poveretto muore dissanguato nel giro di pochi minuti.
A questo punto la famiglia della vittima si rivolge all’avvocato Pietro Mancini per vedere tutelati i propri diritti.
Vengono fermati due amici di Gennarino, Raffaele Suria e Luca Della Corte, che sono stati visti in sua compagnia nella tragica serata e che sono sospettati di averlo aiutato nell’omicidio, ma i due dimostrano subito con prove inconfutabili di essere estranei ai fatti e quindi subito rilasciati, non prima, però, di aver dichiarato che il loro amico era alquanto brillo.
Il 23 agosto De Marco si costituisce in Questura e dichiara di non ricordare molto di quella sera perché era completamente ubriaco. Stranamente, però, ricorda con assoluta precisione come è arrivato a sparare contro Giovanni Matera:
– Non sentendomi in grado di tornare a casa, mi sedetti sul gradino del portone di fronte a quello del bordello di donna Filomena. A un certo punto mi passarono davanti, quasi strisciandosi a me, due persone. Io alzai gli occhi per guardarli, spinto da normale curiosità, ma uno dei due si fermò e in tono minaccioso mi disse: “che cazzo mi guardi?” io gli risposi che gli occhi sono fatti per guardare e che il cazzo se lo tenesse per lui. Fu allora che quell’uomo mi dette un manrovescio e io mi alzai lanciandomi contro di lui. L’uomo cercò di prendere qualcosa dalla cintura, io fui più lesto e gli strappai di mano una rivoltella e gli sparai contro due colpi, ma non per ucciderlo sia chiaro! Ero solo accecato dalla rabbia e volevo evitare ulteriori e gravi danni alla mia persona. Certamente mi sfuggono molti particolari perché ero molto ubriaco e non riesco a ricordare tutto e poi io quell’uomo nemmeno lo conoscevo.
E la rivoltella? Che fine ha fatto? “Non ricordo dove l’ho buttata” si giustifica Gennarino.
Pietro Mancini conosce bene la città e i suoi abitanti e sa che la famiglia De Marco è, come dire, una famiglia di rispetto, di malavitosi di alto rango insomma, così scrive immediatamente una lettera al Procuratore del re per esporgli le sue preoccupazioni e perché intervenga con la massima oculatezza, dal momento che un largo parentado protegge l’omicida. Parentado che ha i mezzi e non ha scrupoli. Dopo aver tutto preparato han ieri fatto presentare l’uccisore. V.S. assieme al G.I. sappia, al di sopra della messa in scena alla quale si saranno aggiunti i ritocchi di uno dei migliori nostri avvocati (Tommaso Corigliano nda), discernere con l’abituale occhio acuto la verità dalla preparazione con la quale si cerca d’ingannare la giustizia. È possibile che qui in Cosenza la gente che uccide deve costituirsi una condizione di quasi immunità a traverso questi espedienti e queste preparazioni??
Sembra una preoccupazione inutile quella di Mancini, viste le numerose e convergenti deposizioni a carico di Gennaro De Marco e vista, soprattutto, la sentenza con la quale la Sezione d’Accusa dispone il rinvio a giudizio dell’imputato: omicidio volontario aggravato da brutale malvagità.
Ma la prova si forma nel dibattimento e così vengono citate a testimoniare numerose persone che asseriscono di aver visto Gennaro De Marco completamente ubriaco e che aveva addirittura bisogno di essere sorretto per restare in piedi. Un paio di testimoni giurano che Matera era un violento e qualche giorno prima dei fatti anche loro ne sono stati vittima per un presunto mancato saluto e, in effetti, dando un’occhiata al suo certificato penale i giudici trovano un paio di condanne a pochi giorni di carcere per lesioni. Qualche altro testimone chiave sostituisce alla certezza categorica un “forse” e il Presidente della Giuria ci mette del suo rigettando l’aggravante della crudeltà e ammettendo l’attenuante del vizio parziale di mente dovuto all’ubriachezza dell’imputato, quindi la pena non può superare i nove anni di reclusione. Il Pubblico Ministero si adegua, Pietro Mancini protesta vibratamente, ma non può niente.
Come se non bastasse, Gennaro De Marco, oltre ad essere un malavitoso di alto rango, è anche un militare in servizio, sebbene in licenza di convalescenza, e come tale deve godere del trattamento di favore che il Codice Penale riserva ai militari.
Il 9 marzo 1921 viene emessa la sentenza della Corte d’Assise che condanna l’imputato a otto anni e nove mesi di reclusione e gli condona sette anni per la sua condizione di militare. In tutto fanno un anno e nove mesi, dei quali gli restano solo tre mesi per scontare tutta la condanna. Vale la pena ricorrere in appello? In un primo momento Gennaro decide che ne vale la pena e il 10 marzo preannuncia il deposito del ricorso, ma dopo una settimana presenta una dichiarazione di rinuncia e la sentenza è definitiva, visto che la Procura resta a guardare questo balletto senza proporre appello a sua volta.[1]
Pietro Mancini aveva tutte le ragioni per temere sovvertimenti della verità.
[1] ASCS, Processi Penali
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