COME HAI RIDOTTO MIA FIGLIA?

– Dov’è andata? – il tono col quale Paolo, meccanico cosentino di quarantanove anni, si rivolge al figlioletto Pasquale di sette anni è alterato.
– Papà, te l’ho già detto, non lo so. Quando mamma mi è venuta a prendere a scuola alle cinque, mi ha lasciato sotto casa, ha detto che andava a comprare il pane, poi si è messa a piangere, mi ha baciato e mi ha detto: “figlio mio, speriamo che tu non sia sfortunato come me…” e se ne è andata… ma stai calmo che ora torna per preparare da mangiare… – Pasquale è scosso, in casa non vede altro che liti e botte e ha imparato a usare sempre parole concilianti quando parla della mamma perché vede che il padre la picchia senza pietà per ogni nonnulla. Anche il 15 febbraio 1952 durante il pranzo c’è stata violenza con la scusa che la pasta era scotta. Un manrovescio e il labbro di Tommasina, più giovane del marito di quasi vent’anni, si è spaccato cominciando a sanguinare.
– Madonna mia! Quella è andata a buttarsi dal ponte! – Paolo sembra preoccupato. La moglie gli ripete sempre che se non smetterà di picchiarla si butterà dal ponte di Alarico. Un paio di volte è anche andato a riprendersela a Luzzi, loro paese d’origine, dove Tommasina si era rifugiata in casa della madre, Marilisa, con solenni promesse di non toccarla più. Promesse vane. Ogni volta la storia ricomincia peggio di prima e se la suocera si intromette per difendere la figlia, ci sono botte anche per lei. Addirittura le prende anche l’anziana nutrice di Paolo, Rosina, colpevole anche lei di essersi intromessa in difesa di Tommasina. Solo, per fortuna, i quattro figlioletti sono immuni dalle botte e così Pasquale, il maggiore, oltre a usare sempre parole concilianti, dice delle bugie per non far picchiare la mamma, ma è violenza anche questa o no? Paolo capisce che la misura è ormai colma e sicuramente non rivedrà più sua moglie o perché si è uccisa o perché non tornerà più con lui.
In fretta e furia si veste e, nonostante sia malato da una settimana, esce di casa e si mette a girare per la città come un pazzo. Scende al fiume per accertarsi che non ci sia il cadavere sfracellato di Tommasina e non avendolo trovato, con rinnovata furia, si mette a bussare a tutte le porte della gente con cui la moglie ha rapporti di amicizia. Non teme che Tommasina sia potuta scappare con qualcuno, non è geloso perché sa che la moglie è una donna onesta e non è capace di trovarsi un altro uomo per sostituirlo.
Piuttosto, è geloso della sua giovinezza. All’inizio era un vanto. Lui, un quarantenne, coetaneo della suocera, che sposa un’avvenente ventenne. Ma gli interessi e il modo di pensare sono profondamente diversi. A Paolo piace accarezzare quella pelle di luna mentre se la scopa, a Tommasina piacerebbe andare a ballare, andare al cinema, uscire con le amiche. A lui piace mostrarsi con lei al braccio durante la passeggiata domenicale per suscitare l’invidia degli altri uomini, a lei sarebbe piaciuto andare a mangiare al ristorante o andare a prendere il sole al mare.
Ma quando uno nasce tondo non può morire quadrato e così, non appena gli acciacchi dell’età cominciano a farsi sentire – diamine! Cinquant’anni sono più della metà di quello che ci si aspetterebbe di vivere – ecco che la gelosia, ma forse sarebbe meglio chiamarla invidia per la salute e l’esuberanza giovanile della moglie, gli fa scattare quella corda di violenza che è spesso riuscito a reprimere nei rapporti sociali. E giù botte. Adesso non si fa più vedere in pubblico con lei. Tommasina può uscire solo per andare a fare la spesa e se il sale non è abbastanza salato o lo zucchero non è abbastanza dolce, la picchia. Se d’estate, mentre lui mangia da solo a tavola, lei non è pronta a scacciargli le mosche di torno con uno straccio standogli accanto in piedi la picchia. Una volta le ha spaccato un gomito con un piatto e un’altra volta, con un calcio nella pancia, l’ha pure fatta abortire.
Tommasina deperisce a vista d’occhio e la sua esuberante bellezza sfiorisce in men che non si dica. Adesso Paolo non la porta nemmeno più a fare lo struscio sul corso perché a ventotto anni sembra una vecchia. Lei, da parte sua, finalmente decide che quello del 15 febbraio è stato l’ultimo schiaffo che ha preso. È finita. Quando lascia il figlio a casa pensa davvero di suicidarsi buttandosi dal ponte. Lo percorre fino a metà, si sporge un po’ dal parapetto e guarda  giù per scegliere il punto migliore da cui saltare. Le gambe le tremano, tira un lungo respiro per trovare l’estremo coraggio che ci vuole per fare il salto, poi dedica l’ultimo pensiero alle sue quattro creature, ma l’idea che le lascerebbe da sole col padre la ferma. “No, non posso” si dice. Piangendo e con le gambe molli, si trascina fino a casa di un cugino del marito che abita nel quartiere di Santa Lucia e lo prega di andare alla posta per telefonare alla madre.
– Che mi venisse a prendere subito, comunque non più tardi di domani mattina perché non ce la faccio più! – riesce a farfugliare prima di accasciarsi, sfinita, sopra una sedia.
Il fattorino telegrafico dell’ufficio postale di Luzzi quando riceve la telefonata di Pompeo che gli chiede di andare a chiamare Marilisa perché le deve parlare con urgenza, capisce subito che deve essere accaduta qualcosa di grave a Tommasina, anche a Luzzi tutti sanno della situazione perché anche lì Paolo ha dato sfogo alla sua cieca violenza, e si precipita a casa della donna per informarla. Marilisa è sconvolta, teme che nel frattempo la figlia possa fare una sciocchezza e manda a chiamare un autista di piazza perché l’accompagni subito in città. Con lei salgono sull’auto anche Fausto, padrino di tre dei quattro figli di Tommasina, e Maria, una cugina di Marilisa. Impiegano quasi un’ora e mezza per arrivare in città, le tortuose strade provinciali non sono ancora tutte asfaltate e il fango causato dalle piogge dei giorni precedenti consigliano prudenza. Ovviamente, non appena giunta in città, Marilisa, che a Luzzi vive da sola perché il marito è emigrato in America da una ventina di anni, va a sincerarsi sulle condizioni della figlia e ne rimane ancora più impressionata di ciò che si aspettava, poi sbotta alzando un pugno al cielo:
– Malanova sua! Guarda come ha ridotto mia figlia! – esclama battendosi le mani sulla faccia.
– Basta mà, è finita…
Le due donne parlottano brevemente, poi Marilisa saluta:
– Mi raccomando, vado a parlare con tuo marito per sistemare le cose e torno subito, così stanotte tu e i bambini vi trasferite da me.
L’automobile riparte e fatte poche centinaia di metri, si ferma davanti alla chiesa di San Gaetano. È in un vicoletto lì vicino che vive la famiglia di Paolo.
– Facciamo così – dice Marilisa agli altri – compà Fausto va a casa ad avvertirlo che io sono qui e gli voglio parlare e l’autista va a cercare una guardia che mi deve accompagnare in casa, se no quello è capace di ammazzarmi; io e Maria aspettiamo qui. Appena arriva la guardia ti raggiungo da lui.
E così fanno, ma Marilisa è impaziente e alle nove di sera, con il freddo che fa, è molto difficile trovare una guardia per strada. I minuti passano e Marilisa non può più aspettare. All’improvviso si allontana dalla macchina e con decisione si avvia verso la casa di Paolo. Maria tenta di fermarla ma lei non sente ragione e la donna si decide a seguirla nei vicoli bui.
Quando Fausto entra in casa di Paolo, trova seduti a cerchio intorno al braciere acceso Fausto, la sua vecchia nutrice, il figlioletto Pasquale e altre tre persone, amici che sono andati a informarsi sugli sviluppi della situazione. Fausto si siede anche lui vicino al braciere e avvisa Paolo che la suocera vuole parlargli.
– Adesso no perché sono troppo incazzato e non so che può succedere… poi… poi più tardi…
– Calmati subito allora perché la situazione è grave… questa volta è davvero grave…
– Compà – sbotta Paolo – grave quanto vuoi, ma qui deve tornare… te l’ho detto cento volte, la femmina la devi trattare coma una serva… – ormai ha riacquistato la sua sicurezza, convinto che quella ennesima visita serve a fare tornare a casa la moglie senza che lui la picchi.
– Vabbè compà, allora non vuoi proprio capire…
Per un po’ stanno tutti in silenzio a godersi il leggero tepore del braciere, ma sembra quasi la veglia di un morto. Nella stanza si sente solo il piccolo Lorenzo che giocherella con delle noci accanto alla vecchia nutrice, poi dei colpi alla porta. Fausto capisce prima di tutti che si tratta di Marilisa e si precipita ad andare ad aprire. Paolo, come intorpidito, solleva stancamente la testa in direzione dell’uscio. La figura di Marilisa si staglia nella luce, seppure fioca, della stanza, contro il buio della strada. Pasqualino, non ha nemmeno il tempo di salutare la nonna che questa si mette a urlare:
– Come hai fatto a ridurla così? – mentre avanza verso il genero con passo deciso.
Paolo si scuote dal suo torpore e fa per scagliarsi contro la suocera. È un attimo. Da sotto lo scialle della donna, come per incanto, luccica la lama di un coltello lungo e sottile, uno scannaturu,  uno di quelli che si usano per scannare i maiali. Il colpo è rapidissimo e poderoso. La lama attraversa la giacca, due maglioni, un panciotto, due maglie interne di lana e perfora da parte a parte il polmone destro di Paolo. Marilisa estrae la lama, si gira e con calma esce di casa, lasciando dietro di sé le urla di terrore dei bambini.
Lo sguardo di Paolo è attonito. Apre la giacca e guarda la macchia rossa che si allarga sempre di più. Barcolla ma esce per strada convinto di poter andare in ospedale con le proprie gambe. Cade. Alcuni vicini improvvisano una barella e ce lo mettono sopra, incamminandosi lungo la Carruba.
Paolo muore quasi davanti alla chiesa di San Gaetano.
Marilisa si costituirà nella notte e sarà condannata a otto anni di carcere. Tommasina non verrà più presa a botte. [1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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