– Hai visto papà? – chiede Fiore al fratello Francesco – eravamo io, lui e nostro cognato Pasquale a pascolare le pecore a Scalilli poi papà è partito per andare a dare da mangiare ai porci e non l’abbiamo più visto…
– Qui non è venuto… avete controllato al porcile di contrada Spina? – Francesco sembra preoccupato – non è che si è sentito male lì?
– No… non ci siamo andati…
– E che aspettate?
Così Fiore e il cognato Pasquale partono dalla casa di famiglia, posta nelle campagne tra Longobardi, Belmonte Calabro e Carolei, per cercare il vecchio Vincenzo.
Lo trovano morto dietro un cespuglio con la testa fracassata. Accanto ci sono due bastoni intrisi di sangue. I due urlano, piangono, si strappano i capelli e si graffiano la faccia, poi corrono a Belmonte per dare l’allarme e denunciare l’accaduto ai Carabinieri. Per strada incontrano alcuni conoscenti e raccontano l’accaduto. Qualcuno dice loro che sospettano di un certo Salvatore, un contadino di Longobardi, perché qualche tempo prima lo hanno sentito minacciare di morte il vecchio per avergli soffiato un lavoro. I Carabinieri e il Pretore di Amantea svolgono delle indagini sommarie e tutto sembra essere contro Salvatore al quale viene fatta firmare una confessione. È fritto. Lo arrestano e lo condannano a 23 anni di reclusione per omicidio volontario, in un processo durato un solo giorno e senza ascoltare nessun teste a discarico.
Salvatore però non cede di un millimetro e continua a dichiararsi innocente anche se nessuno gli crede. Per scontare la condanna lo spediscono nell’inferno del penitenziario di Procida e poi, sul punto di impazzire, nel manicomio criminale di Napoli dove incontra un medico che è disposto ad ascoltarlo e che si convince della sua innocenza. Insieme scrivono un memoriale al Ministero di Grazia e Giustizia, evidenziando tutte le incongruenze del caso, esponendo fatti e circostanze così gravi da indurre qualche funzionario a chiedere nuove indagini per verificarne la veridicità.
Le nuove indagini vengono affidate al comandante della stazione dei Carabinieri di Fiumefreddo Bruzio, il quale non tarda a ricostruire con esattezza i fatti, confermando punto per punto tutto ciò che Salvatore denuncia nel suo memoriale e porta alla luce una situazione familiare, quella del morto, a dir poco drammatica:
Da quando la figlia del defunto Vincenzo, Rosaria si è sposata con Pasquale, in famiglia sono cominciate delle liti e manifestati dei rancori che si sono sempre più accentuati col passare del tempo.
Il motivo di tali dissidi è sempre stato l’interesse e per quanto il defunto capo famiglia cercasse di tutelare gli interessi di tutti i figli e si sacrificasse per accrescere la piccola sostanza, non è mai stato compreso dai propri figli maschi: Francesco, Fiore e Giuseppe, nel frattempo suicidatosi, e del genero Pasquale. La presenza del defunto Vincenzo non era quasi mai tollerata in famiglia ed i figli col genero lo odiavano a morte tanto che prendevano spunto da qualsiasi atto o parola per scatenarsi contro di lui bastonandolo, schiaffeggiandolo, lasciandolo digiuno, oltraggiandolo e tentando anche più di una volta di toglierlo di mezzo.
I figli snaturati e il genero si trovavano sempre d’accordo fra loro ed erano solidali nell’inveire contro il padre anche se si fosse trattato di aiutare uno solo di loro nel pretendere qualche cosa che, se fosse stata concessa, avrebbe danneggiato gli altri figli stessi. I motivi principali dell’odio covato nell’animo malvagio dei figli e del genero erano sorti quando il povero Vincenzo aveva promesso alla figlia Rosaria, all’atto del matrimonio con Pasquale, una delle due case d’abitazione ed uno dei due piccoli appezzamenti di terreno che possedeva, proposito che poi non attuò subito, cercando di rimandare la stipula dell’atto perché il genero pretendeva che l’atto di donazione fosse intestato a suo nome e non a nome della moglie, cioè della figlia di Vincenzo.
Ma non solo: Pasquale pretendeva anche che il suocero gli avesse regalato le diciassette pecore che possedeva. E come se non bastasse, il figlio Giuseppe pretendeva che il povero vecchio intervenisse con l’altro figlio Fiore perché gli regalasse le sue cinque pecore. Ma siccome il vecchio non volle intervenire in questa faccenda, tutti e due i figli, per ragioni opposte, cominciarono a odiarlo.
Infatti, una volta il figlio Francesco con il genero Pasquale, alla presenza della madre e del fratello Fiore, lo presero a pietrate e rimase ferito abbastanza seriamente alla testa e Fiore gli disse che non gli importava niente se fosse morto e per rafforzare il concetto gli sputò in faccia. Alle grida della madre intervennero un tale Gennaro e proprio il nostro Salvatore.
Un’altra volta, sempre per la questione delle pecore, Pasquale picchiò il suocero mentre i figli Fiore e Francesco trattenevano il genitore uno da una parte ed uno dall’altra. Un’altra volta ancora, in contrada Spina del Comune di Longobardi, Fiore e Pasquale, alla presenza di Francesco, avevano preparato un cappio ad un albero per impiccarlo, ma il vecchio, accortosi delle intenzioni del figlio e del genero, scappò, difendendosi con un coltello. Fiore era partito in quarta per andare a sporgere denuncia all’Arma ma poi desistette per l’intervento di amico.
Questo e altre piccole scenate erano notori sia a Longobardi che a Belmonte Calabro, sia perché ai fatti si erano trovate presenti varie persone, sia perché il vecchio esternava sempre il suo dispiacere per avere dei figli snaturati e non nascondeva né i fatti, né il timore che un giorno o l’altro l’avrebbero tolto di mezzo e quando i figli lo privavano anche del cibo, nell’andare a chiederlo ad altri, non nascondeva che i figli l’avevano lasciato digiuno.
Così, aumentando sempre di più l’odio verso il vecchio, maturò nel genero l’idea di ucciderlo e liberarsene una volta per tutte.
Sicuro di quanto ha scoperto, il maresciallo di Fiumefreddo arresta Pasquale, lo torchia a dovere e ottiene quello che vuole: una piena confessione.
– Un giorno, io e mio cognato Fiore eravamo in contrada Carcara intenti a pascolare le pecore e mio suocero era assente perché era andato a Belmonte a portare il formaggio. Parlando con mio cognato, da una parola all’altra siamo venuti nel discorso della casa, consistente nel fatto che mio suocero, all’atto del matrimonio, mi aveva promesso in dono una casa, mentre dopo sposato non voleva ancora farmi l’atto. Con mio cognato ci siamo messi d’accordo che se ancora mio suocero avesse insistito nel non volermi dare la casa, noi avremmo venduto le pecore di mio suocero e avremmo comperato un asino per conto nostro. Nel caso poi che mio suocero non volesse acconsentire nemmeno a questo, l’avremmo ammazzato. Siccome mio suocero si rifiutò di darmi le pecore, abbiamo deciso di ammazzarlo e abbiamo stabilito di ucciderlo dopo una settimana perché tutti sarebbero stati alla festa di Santa Rosa a Belmonte e avremmo potuto agire indisturbati. La mattina del 27 agosto io e mio suocero abbiamo avuto qualche parola perché lui voleva mandarmi a portare delle capre ai proprietari che ce le avevano mandate per la monta ed io non volevo andarci, ma poi ho acconsentito perché, sentendo dire da mio suocero che sul tardi mio cognato Fiore doveva rimanere a far pascolare le pecore e lui invece doveva recarsi in contrada Spina per andare dai maiali, ho deciso di ritornare sul posto e farla finita. Ho portato solo con me il bastone perché avevo deciso di ucciderlo col suo stesso bastone che era più grosso e con il suo coltello a manico fisso che portava sempre con sé e che io avevo visto portargli la mattina stessa.
Ovviamente i Carabinieri arrestano anche Fiore che racconta minuziosamente i fatti:
– La mattina del 27 agosto mio cognato Pasquale ha litigato con mio padre perché questi lo voleva mandare a portare delle capre e lui non voleva andare. Dopo che hanno litigato però è andato ugualmente. Questo è avvenuto la mattina presto. Dopo, invece, sul tardi, non so se verso le undici o prima perché orologio non ne avevo, dopo cioè che noi avevamo liberato le pecore e fatte pascolare e rinchiuse nuovamente perché il sole era ormai alto, io sono rimasto a far pascolare le pecore e mio padre partì per andare alla contrada Spina dai maiali. Appena fatti circa 300 metri dalla contrada Scalilli, cioè da dove stavamo facendo pascolare le pecore, è uscito fuori mio cognato che si era nascosto dopo essere tornato dal suo incarico, il quale mi ha fischiato e mi ha fatto segno di andare anch’io. Io, girando dalla parte di sotto, cioè dalla parte di Longobardi, senza farmi vedere e sentire da mio padre, ho raggiunto mio cognato e sono arrivato dove era mio cognato qualche istante prima di mio padre e Pasquale mi disse che era ora di ammazzare mio padre perché lui era stortu.
Il drammatico racconto è continuato da Pasquale:
– Non appena Fiore arrivò da me gli ho chiesto se era d’accordo di ammazzare mio suocero subito e, avutane conferma, ci siamo messi in mezzo alla strada attendendo mio suocero, il quale arrivò subito dopo. “Me la dai la casa?” gli chiesi, ma mio suocero mi rispose che la casa era del figlio Francesco e dell’altra invece poi alla sua morte se ne sarebbe parlato. Visto che non mi voleva dare la casa gli ho chiesto di nuovo di darmi i soldi delle mie pecore che avevo lasciato quando ero stato richiamato alle armi, ma avuto come risposta che i soldi se ne erano andati per le comodità della casa, marascià ni sunnu sumati i cazzi a me ed a mio cognato ed allora gli ho tolto il bastone dalle mani, dato che il suo era più grosso del mio che ho lasciato cadere per terra e col suo stesso bastone gli ho vibrato due colpi in testa facendolo cadere. Quando è caduto per terra senza nemmeno un lamento, mio cognato Fiore ha preso un grosso sasso e ha gli dato un sacco colpi alla testa. Quando mio suocero cadde, ho visto che gli era uscito dalla tasca posteriore dei pantaloni, mi pare quella destra, il coltello. L’ho preso e gli ho vibrato due colpi, mi pare alla faccia vicino le orecchie o al collo. Poi, assicuratici che era morto perché non respirava più, l’abbiamo preso, uno per un piede ed uno per l’altro e l’abbiamo trascinato un po’ per toglierlo dalla vista e per metterlo dietro un cespuglio in modo che non si vedesse dalla strada.
Ma su questo punto Fiore non è d’accordo.
– L’intenzione di mio cognato, in verità, era quella di trascinare mio padre fino alla timpa che si trova poco distante, visto però che nel trascinarlo rimaneva del sangue per terra e pensando che dopo si sarebbe scoperto ugualmente, ha desistito abbandonandolo là dove è stato trovato. Dopo che l’abbiamo ammazzato ce ne siamo ritornati a casa e per la strada mio cognato ha detto che, non potendo far figurare che mio padre si era buttato o era caduto nella timpa, dovevamo armare qualche cosa per far cadere i sospetti su Salvatore perché tempo prima avevano litigato.
Prima di arrivare a casa, i due lavano le maniche delle camicie e i pantaloni sporchi di sangue ad una fontanella e, una volta a casa, si cambiano. Poi mangiano tranquillamente e, nel pomeriggio, tornano dalle pecore, vicino al posto dove hanno ammazzato il povero Vincenzo.
La mattina del giorno dopo, 28 agosto, come preoccupati, chiedono ad alcuni conoscenti che passavano di lì se avessero visto Vincenzo, ricevendone, ovviamente, risposta negativa. Nel primo pomeriggio, fingendo di aver ritrovato il cadavere, tornano in paese e fanno la sceneggiata di piangere e graffiarsi la faccia, poi, dopo essersi cambiati, così come hanno già stabilito, vanno verso la caserma dei carabinieri per denunciare il fatto. Per strada incontrano due loro conoscenti, proprietari di alcune pecore date a loro per farle pascolare, ai quali raccontano sia di aver ucciso Vincenzo, sia di voler accusare Salvatore, ricevendo da entrambi l’assicurazione che essi confermeranno di aver assistito alle minacce di morte fatte da Salvatore al loro congiunto. Ma come si spiega che don Corrado, farmacista a Belmonte, e don Gustavo, senza battere ciglio abbiano potuto avallare la versione degli assassini? Secondo Pasquale perché:
– Lo odiavano in quanto avevano avuto qualche cosa in precedenza. So, per esempio, che mio suocero prima di prendere gli ovini di loro proprietà, quelle pecore le aveva Salvatore e durante il periodo che le teneva in custodia non portava né latte, né formaggio e nemmeno gli agnelli, non so perché… forse se li vendeva per conto suo o per altro.
I quattro vengono rinviati a giudizio. Pasquale viene condannato a 30 anni di reclusione, Fiore a 24 anni. Dovranno risarcire Salvatore con 120.000 lire per le spese legali sostenute e pagare i danni che saranno stabiliti in sede civile. I fratelli Corrado e Gustavo invece se la cavano: assolti dalle imputazioni di calunnia e falsa testimonianza per insufficienza di prove.
La Corte di Appello di Catanzaro riduce la condanna di Pasquale a 23 anni di reclusione e quella di Fiore a 15 anni. Infine, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dagli imputati e mette la parola fine su questa triste e squallida vicenda. [1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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