OMICIDIO A COSENZA CASALI

Il treno proveniente da Catanzaro si ferma in perfetto orario, sbuffando e fischiando, alla stazione di Cosenza Casali. Passando attraverso le nuvole di vapore, i passeggeri escono sul piazzale andando ognuno per la propria strada. Due di questi sono i fratelli Vincenzo e Giuseppe Dodaro. Sono di Cosenza ma abitano a Rogliano dove hanno una macelleria e sono abbastanza conosciuti nel mondo della malavita.
Sono le 14,30 del 28 febbraio 1921 e sul piazzale della stazione molti cocchieri sono in attesa di clienti accanto alle loro carrozze. I fratelli Dodaro si avvicinano a un cocchiere, Salvatore Piro di diciassette anni, e gli chiedono di accompagnarli nei loro giri. Per prima cosa si fanno accompagnare davanti al portone del carcere dove c’è un loro parente a cui devono far visita.
– Non te ne andare, aspettaci qui che dobbiamo fare altre imbasciate – ordina Giuseppe Dodaro al vetturino. E lui li aspetta per oltre un’ora, poi li accompagna alla cantina Gallo in Corso Plebiscito e li aspetta ancora. Quando tornano, i due fratelli sono abbastanza alticci e con modi un po’ sgarbati ordinano al cocchiere di correre alla stazione di Casali perché temono di perdere il treno per tornare a Rogliano.
Salvatore fa schioccare la frusta e imbocca la strettoia della Carrubba a tutta velocità ma ai fratelli non sembra di andare abbastanza velocemente e, quando arrivano all’altezza della chiesa di Sant’Agostino, cominciano a dare in escandescenze. Giuseppe salta in cassetta e percuote selvaggiamente il cavallo col suo bastone.
Mòvati, ciucciu!
– Ma che fai? Lascia stare il cavallo! – protesta il giovane cocchiere.
Per tutta risposta una tempesta di pugni si abbatte sulle sue spalle. Il ragazzo è impaurito e implora i fratelli Dodaro di lasciar stare il cavallo e lui stesso ma, invece di ottenere l’effetto sperato, peggiora la situazione ed è costretto, suo malgrado, a frustare il cavallo. Salvatore, ormai  terrorizzato, approfitta di una curva e salta dalla carrozza in corsa andando a rifugiarsi nei locali del Mulino Leonetti, ma lascia la carrozza in balìa dei due forsennati. Giuseppe Dodaro, che ha ormai dimenticato il suo treno, ferma il cavallo e si lancia all’inseguimento del ragazzo, lo raggiunge e lo gonfia di botte, poi lo afferra per un braccio e cerca di trascinarlo alla carrozza:
Mmerda! Vìani ccà e mòvati, ‘ngulacchitemmuartu! – gli urla in faccia.
‘Un mi jestimà i muarti, ppe piacire, ca m’è muartu nu frate ‘u mise passatu… – lo implora il ragazzo, opponendo una viva resistenza all’aggressore.
Mòvati e porta ‘a carrozza!
Noni, tu mi mini… ‘a carrozza portatilla sulu… – ripete Salvatore, cercando di divincolarsi dalla stretta. Ma Giuseppe Dodaro è molto più forte del ragazzo e, sollevatolo di peso, lo trascina accanto alla carrozza. Salvatore lo implora ancora di lasciare in pace lui e il cavallo ma Giuseppe non vuole sentire ragione. E non vuole sentire ragione nemmeno il fratello Vincenzo che, rimasto per tutto il tempo comodamente seduto in carrozza, incita Giuseppe a picchiare ancora il cocchiere:
Rumpimuli ‘u culu a ssu fitusu! – e, così dicendo, aiuta il fratello a costringere il ragazzo a salire in cassetta. Ma Salvatore sembra essere diventato un’anguilla e sguscia da tutte le parti. Giuseppe è furioso, afferra la frusta della carrozza e vibra un colpo micidiale sulla testa del ragazzo, spezzando in due l’attrezzo e aprendo in due anche la testa del cocchiere.
Salvatore cade a terra tramortito e, quando sembra che per lui non ci sia più scampo, si materializza la figura di un agente della Guardia di Finanza, attirato dalle urla mentre era intento nel suo lavoro d’ufficio nella caserma che è proprio lì accanto. All’altolà della guardia accorre anche altra gente, il finanziere afferra per un braccio Giuseppe Dodaro e lo dichiara in stato di fermo, ma quello non se ne dà per inteso, si divincola e, montando in carrozza col fratello, saluta la guardia:
Valla piglia ‘nculu tu e tutta ‘a Finanza! – i due spronano il cavallo al galoppo e se la danno a gambe. Giuseppe Gagliardi, la guardia, si mette a inseguirli a piedi ma non può farcela, allora tira fuori la pistola d’ordinanza e intima ai fuggitivi l’altolà, fermi o sparo!
I fratelli Dodaro si bloccano e sembrano diventare degli agnellini. Giuseppe, calmatosi, si fa docilmente condurre in caserma, mentre Vincenzo, che non è stato visto partecipare al pestaggio, viene lasciato andare. Salvatore il cocchiere è accompagnato all’ospedale con la testa rotta.
Come se non fosse accaduto nulla, Vincenzo Dodaro monta in carrozza e se ne va alla stazione di Casali, ma ormai il treno è partito e lui decide, per ingannare l’attesa del prossimo treno, di andare a trovare una sua conoscente, Giovannina Travo, che abita lì di fronte, in una stanzetta al piano terra del palazzo Salatino.
La notizia dell’aggressione vola di bocca in bocca in men che non si dica e giunge all’orecchio di Eugenio Piro, fratello maggiore del cocchiere, anche lui una testa calda. Ma, di bocca in bocca, la notizia gli arriva stravolta. Eugenio è nel suo negozio di generi coloniali, oltre il passaggio a livello di Casali, quando Raffaele Torano gli porta la notizia:
Genù, Vicianzu e Duminicu Dodaru hannu ammazzatu a fratitta!
Addui sunnu? – chiede Eugenio, dopo un attimo di sbandamento con gli occhi iniettati di sangue.
Ara stazione ‘i Cusenza Casali… 
Eugenio è una furia, si precipita nella bettola del padre, che è lì accanto, prende la pistola nascosta in un cassetto e corre come un pazzo verso la stazione.
Addui sunnu? – chiede ai cocchieri fermi lì, con gli occhi iniettati di sangue.
A unu l’hannu carceratu, l’atru è ammucciatu dintra ‘u palazzu Salatinu – gli risponde uno, indicandogli il palazzo. In quel palazzo abita anche un altro suo fratello e questo è un motivo in più di preoccupazione, perché i fratelli Dodaro sono ritenuti da tutti capaci di qualsiasi cosa. Estrae la pistola dalla tasca e attraversa la piazza. Senza tentennamenti entra nell’androne del palazzo, convinto che la famiglia del fratello sia in pericolo. Sale le scale di corsa ma trova la porta chiusa e non ci sono rumori sospetti che provengono dall’interno. Rassicurato, torna sui propri passi proprio mentre l’uscio della stanzetta di Giovannina si apre.
Nella penombra, davanti a lui si staglia la figura di Vincenzo Dodaro. I due si guardano negli occhi, poi Vincenzo, che conosce Eugenio e ne capisce le intenzioni, cercando una via di scampo fa un movimento brusco che l’avversario interpreta come il tentativo di estrarre una pistola.
È solo un attimo. Eugenio la pistola la ha già in mano e con rapidità e freddezza la punta alla testa del rivale, distante circa un metro. In quell’attimo gli sguardi dei due si incontrano di nuovo, ma mentre negli occhi di Vincenzo c’è solo terrore, in quelli di Eugenio c’è il ghigno di chi assapora il gusto amaro del calice della vendetta.
Fa fuoco due volte. Un proiettile colpisce Vincenzo sopra l’occhio sinistro e gli si conficca nel cervello, lasciandolo cadere morto all’istante. L’altro sfiora la testa di Giovannina e termina la propria corsa nel muro dietro di lei. Con un gemito, la donna sviene per la paura cadendo sopra il cadavere, mentre Eugenio se ne va indisturbato dandosi alla macchia.
Si consegnerà ai Carabinieri il 5 marzo.
Codice penale alla mano questo si chiama omicidio volontario.
Infatti, il 22 dicembre 1922 la Corte d’Assise lo condanna per questo reato, considerate le attenuanti generiche e l’attenuante specifica dell’impeto d’ira derivante da ingiusta provocazione, a soli sette anni e undici mesi di reclusione.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

2 commenti

  1. Effettivamente in quegli anni i treni arrivavano sempre in orario… Scherzi a parte, complimemti per questi racconti noir, ben scritti e che appassionano il lettore. Grazie davvero per il tempo che vi avete dedicato.

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