LA MATRIGNA

Nel 1939, rimasto vedovo con figli piccoli, Pietro Nisticò da Cardinale, ma residente a Torre di Ruggiero in provincia di Catanzaro, sposa Anna De Giorgio. Però non passano che pochi giorni e la donna comincia a maltrattare i figliastri e a fomentare discordie in famiglia ed in queste condizioni trascorrono una decina di anni, quando Nicola, il maggiore dei figliastri di Anna De Giorgio avendo ormai 22 anni, all’inizio del 1949 torna dal servizio militare con il desiderio di trovarsi una fidanzata e sposarsi per lasciare, finalmente, la casa paterna ma, soprattutto, la matrigna.

Nicola adocchia Caterina, una nipote di Anna De Giorgio, e col consenso di questa i due giovani si fidanzano, ma dopo appena un mese la matrigna costringe Nicola a rompere il fidanzamento perché, dice, la nipote ha poca dote. Il giovanotto allora si fidanza con un’altra nipote della matrigna, anche questa di nome Caterina, ma anche questa volta Anna De Giorgio manda a monte tutto e lo fa fidanzare con Antonietta, salvo dopo pochi mesi fargli rompere anche questo fidanzamento e ributtarlo nelle braccia della seconda nipote. Sarà la volta buona? Macché, Anna colpisce ancora, i due si lasciano e Nicola riprende le trattative con Antonietta. Questa sì che sembra davvero la volta buona perché viene fissata il giorno in cui, siamo ormai al 14 giugno 1950, tutta la famiglia Nisticò andrà a casa di Antonietta per fare la richiesta ufficiale di matrimonio. Tutto è a posto: gli abiti della festa sono stati indossati, l’anello di fidanzamento è al sicuro in una tasca, le femmine di casa hanno perfino messo un goccio di acqua di colonia e ci si può incamminare, ma all’ultimo momento la matrigna rifiuta di andare e solo adesso, dopo anni di silenzio, Pietro Nisticò, il capofamiglia, interviene e caccia di casa la moglie, che torna dai suoi familiari, mentre i Nisticò, anche se con un po’ di ritardo, vanno a compiere il loro dovere. Passato il giorno di festa e calmatosi, Pietro Nisticò manda a dire ad Anna di tornare a casa ma non ottiene, almeno nell’immediato, risposta.

È il 18 giugno e Nicola sta mietendo il grano con suo fratello, quando si presenta Anna De Giorgio che si mette a lavorare con i due giovani, senza suscitare alcuna reazione da parte di Nicola, e a sera, prima di tornarsene dai suoi familiari, Nicola le dice:

– Papà vuole che torni a casa, ha bisogno di te e a noi farebbe piacere…

– Statevi tranquilli e stesse tranquillo vostro padre perché io non ho nessuna intenzione di convivere con lui, solo desidero la restituzione della mia dote.

– Pensaci e torna… – gli risponde Nicola.

Tu intanto pensa a rompere il tuo fidanzamento con quella lì perché io ti ostacolerò sempre! – lo gela mentre se ne va.

Passano tre giorni. La mattina del 21 giugno Nicola va in contrada Loprato di Cardinale con Rocco, un nipote della matrigna, per irrigare il granone e prima di iniziare il lavoro va a raccogliere delle ciliegie da mangiare con l’amico. Ma anche questa mattina gli si presenta Anna, accompagnata dalla sorella. Nicola, con gentilezza, offre alle due donne le ciliegie, accettate dalla matrigna ma rifiutate dalla sorella, che si allontana perché dice di non sentirsi bene, mentre Rocco si allontana per cominciare il suo lavoro lasciando da soli Nicola e Anna.

– Vammi a tagliare un po’ di legna – gli dice, ben sapendo che il bosco è lontano un’ora di cammino, ma forse glielo dice con l’idea di stuzzicarlo e di irritarlo.

– No perché tu la porti dai tuoi genitori – le risponde, poi continua –. A proposito di portare, mi devi restituire il mio lettino ed il mio vestito.

– Io non ti restituisco proprio niente finché tuo padre non mi restituisce la dote!

– Adesso è meglio che te ne vai perché mi stai facendo venire male alla testa e devo lavorare!

– Io non me ne vado! – e attacca a rivangare tutti i torti che avrebbe subito dal marito.

– Se non vuoi andartene, almeno stai zitta, per carità, non ce la faccio più a sentirti!

– E bravo! Non ce la fa a sentirmi ‘u babbu! Meno male che le mie nipoti non ti hanno voluto, cunnu! Guallarusu! Cazzune!

se non te ne vai… – la minaccia con la zappa alzata, stanco di subire ancora le angherie della matrigna, ma lei non se ne dà per intesa e continua ad offenderlo, minacciandolo a sua volta e Nicola urla verso Rocco ed un altro contadino che hanno interrotto il lavoro per assistere alla scena – – la sentite che mi sta dicendo? Venite qui ché mi siete testimoni! – ma i due non si muovono.

Anna continua con le contumelie e a questo punto Nicola perde la testa e si lancia sulla matrigna colpendola diverse volte alla testa col dorso della zappa. Poi, quando la vede immobile a terra si allontana per andare a costituirsi.

Interrogato, Nicola racconta la sua storia dall’inizio, poi dice:

– Non volevo ucciderla, volevo soltanto ferirla…

Rocco e l’altro contadino confermano che tra Nicola e la matrigna vi è stata una lunga e vivace discussione ed entrambi ammettono di aver sentito il giovane pregare la matrigna di andare via. Ad un certo momento videro il giovane colpire con la zappa la matrigna, ma di non essere intervenuti perché erano affari che non li riguardavano. Quando, dopo aver visto Nicola allontanarsi, accorsero sul posto trovarono la donna già cadavere.

L’autopsia accerta che Anna De Giorgio è stata raggiunta da tre colpi di zappa alla testa che hanno provocato la frattura delle ossa e, per contraccolpo, la frattura della base del cranio e la rottura delle arterie meningee con conseguente emorragia intracranica e morte istantanea.

Le indagini condotte dai Carabinieri confermano i maltrattamenti decennali di Anna nei confronti dei figliastri e aggiungono che la donna era di carattere nervoso e di dubbia moralità, essendo passata a nozze quando già era stata sedotta da altri, poi il Maresciallo, ascoltato come testimone, per avvalorare la dubbia moralità di Anna De Giorgio, si spinge ad affermare:

In un primo momento mi sorse il sospetto che la donna insultasse il figliastro per motivi disonesti, ma poi il Nisticò mi assicurò di non aver mai avuto da lei proposte lascive.

Omicidio volontario è la rubrica del reato per il quale Nicola Nisticò viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro, che esamina il caso l’8 marzo 1951.

Nicola conferma i suoi interrogatori e conferma di non aver avuto intenzione di uccidere la matrigna, invece i genitori della vittima cambiano versione: la loro figlia non era di carattere nervoso, per come avevano deposto in istruttoria, ma di indole mite e tutt’altro che nervosa.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la tesi dell’omicidio preterintenzionale sostenuta dalla difesa non può trovare accoglimento. La causale, il mezzo adoperato, la violenza e la reiterazione dei colpi vibrati, la regione del corpo colpita dimostrano appieno la volontà e la coscienza dell’imputato di cagionare la morte della propria matrigna. Egli, come chiaramente dimostrano le risultanze processuali, fu indotto al delitto dalla riprovevole condotta della De Giorgio che, andata sposa dopo essere stata da altri posseduta, a pochi giorni dalle nozze incominciò a maltrattare i figliastri, non tralasciando occasione per far sentire ad essi la grave iattura di essere rimasti privi, in tenera età, della mamma. Tornato dalle armi, Nicola Nisticò pensò di costituirsi una famiglia ma ne fu, costantemente, impedito dalla matrigna.

Adesso la Corte ricostruisce i momenti del delitto: la mattina del delitto la De Giorgio si recò ancora a trovare il figliastro con la scusa di dover fare della legna, ma con la evidente intenzione di provocarlo e lo fece in modo tale che il giovane più volte ebbe a pregarla di andarsene, di lasciarlo lavorare in pace e di non insultarlo. La donna, alle esortazioni dovette, come ha affermato l’imputato – e non si può non credere alle sue parole, ricevendo implicita conferma dalle deposizioni dei testi – continuare nelle sue insolenze e la discussione degenerò. Allora l’imputato, stanco per le ininterrotte vessazioni, offeso nei suoi sentimenti e nel suo decoro, deriso probabilmente per fini innominabili, pure se egli l’abbia escluso, alzò la zappa di cui si serviva per il suo lavoro e col dorso, accecato dall’ira per le ingiuste offese e recriminazioni, ripetutamente per tre volte la colpì al capo con violenza, provocandone la morte istantanea, evento che egli previde e volle. L’aver adoperato la zappa dalla parte del dorso invece che da quella del taglio non può portare, come ha sostenuto la difesa, a conclusioni diverse in quanto molto spesso arnesi da lavoro come zappe e scuri, usate dalla parte del dorso producono conseguenze, se non più pericolose, uguali a quelle inferte col corpo tagliente. E il Nisticò assestò non uno, ma tre colpi col dorso di una pesante zappa sulla testa della vittima, con una violenza tale che ciascuno di essi era idoneo, come hanno stabilito i periti settori, a produrre la morte. Se avesse voluto cagionare soltanto delle lesioni non avrebbe impiegato tanta energia, si sarebbe limitato a vibrare un colpo solo e non su di una regione vitale, ma egli volle sbarazzarsi una volta per sempre di colei che da anni lo tormentava materialmente e moralmente e che la mattina del 21 giugno lo cercò ancora per deriderlo ed offenderlo, suscitando in lui quell’ira che, incontenibile, lo portò al delitto.

Quindi, non essendoci dubbi sulla volontà omicida di Nicola Nisticò nei confronti della matrigna, la Corte decide di modificare il titolo del reato, aggiungendo le aggravanti di aver commesso il fatto in danno della matrigna e della recidiva generica per aver commesso un altro reato negli anni precedenti. Potrebbero essere guai seri per Nicola, ma la Corte continua: è però fuor di dubbio che gli compete l’attenuante di aver commesso il fatto nello stato d’ira determinato da una serie ininterrotta di fatti ingiusti e possono, altresì, concedersi le attenuanti generiche per le sue buone qualità morali e sociali, ampiamente provate da testimoni ineccepibili e non potendo essere di ostacolo alla concessione la condanna che ebbe a riportare oltre sei anni or sono, per un fatto commesso quando aveva da poco superato gli anni 14.

Detto ciò si può passare a determinare l’entità della pena da infliggere: la pena può irrogarsi nella misura di anni 11 di reclusione (anni 24 meno 1/3 (provocazione) = anni 16 meno 1/3 (attenuanti generiche) = anni 10 e mesi 8, più mesi 2 per la recidiva), oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza de 23 ottobre 1951, ordina la conversione del ricorso in appello, designando per il giudizio di secondo grado la Corte d’Assise di Reggio Calabria che, con sentenza del 21 marzo 1952, in parziale riforma della sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro, dichiara Nisticò Nicola colpevole di omicidio preterintenzionale e con le già concesse attenuanti e con l’aggravante della recidiva, lo condanna ad anni 5 di reclusione.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.