Marano Principato. Sono le sette di sera dell’8 dicembre 1943 e nella stanza attigua all’esercizio di generi alimentari gestito da Maria Cairo, moglie di Francesco Molinaro, diverse persone, tra le quali Molinaro stesso, hanno deciso di fare una partita a carte per bere del vino da distribuire tra i giocatori col sistema del padrone e sotto padrone. I partecipanti al gioco stabiliscono anche le regole da seguire per determinare i ruoli: i migliori due punti risultanti dalle tre carte date ad ogni giocatore saranno i due padroni, a cui toccherà l’onore e l’onere di nominare i due sotto padroni. Tutto chiaro. Date le carte, i padroni risultano Giuseppe Nigro ed Andrea Comito, ma sorge un problema: Francesco Molinaro, appena conosciuti i nomi dei padroni e temendo di essere lasciato senza bere, chiede insistentemente di essere uno dei due sotto padroni. Portavoce dei contrari alla concessione si fa Ferdinando Conforti, con un ragionamento che non fa una piega:
– La scelta dei sotto padroni è cosa che riguarda esclusivamente quelli che il gioco ha favorito, determinandoli essere i padroni, quindi puoi smettere ogni interferenza!
Molinaro però non vuole sentire ragioni e tra i due nasce un vivace battibecco, che quasi subito degenera in una rissa con spintoni reciproci e schiaffi, finché i due finiscono a terra avvinghiati a darsele di santa ragione. Prima va sotto Molinaro con Conforti che gli è sopra e lo colpisce, ma poi la situazione si capovolge e ad andare sotto è Conforti e deve subire i colpi di Molinaro. Finalmente, per l’intervento di alcuni dei presenti, e principalmente di Giuseppe Nigro e del figlio di Molinaro, i due vengono separati e la lite sembra terminare: Molinaro va nella stanza del negozio di alimentari e Conforti rimane nella stanza del gioco. Ma immediatamente Molinaro torna indietro con un coltello in mano e si avventa su Conforti colpendolo per ben sette volte all’ipocondrio, all’epigastrio, al mammellare destro, al fianco sinistro, all’ascellare posteriore sinistro, alla regione lombare destra e alla natica sinistra.
Conforti boccheggia e viene portato di peso dal medico, che gli presta le prime cure suturandogli le ferite, senza però specillarle per valutarne a pieno la profondità e verificare eventuali lesioni ad organi interni.
I Carabinieri della stazione di Cerisano arrivano dopo qualche ora e arrestano Molinaro con l’accusa di tentato omicidio volontario, accusa che però viene modificata in quella di omicidio volontario perché la notte seguente il ferito purtroppo muore.
– L’ho colpito, ma non riesco a darmi spiegazioni di come abbia potuto dargli tante coltellate – ammette Molinaro in evidente stato confusionale.
Quando poi, calmatosi, viene interrogato prima dal Pretore e poi dal Procuratore del re, espone la sua versione dei fatti:
– Mi accorsi che del sangue mi bagnava il naso ed il petto. Alla vista del sangue perdetti la ragione e andai nella bottega, seguito da Conforti. Ebbi paura di costui e presi un coltello da tavola per difendermi, anzi per evitare che Conforti mi si avvicinasse, ma lui si scagliò ancora contro di me e fu in questo momento che io cercai di difendermi colpendolo…
No, le cose non possono essere andate così e la conferma arriva dai testimoni:
– Io, Gagliardi e Tenuta restammo nella stanza del gioco dopo che Molinaro e Conforti furono separati – ricorda Giuseppe Nigro, ottenendo la conferma dagli altri due – mentre gli altri che avevano preso parte al gioco uscirono dall’esercizio. Escludo che Conforti seguì Molinaro quando questi dalla stanza del gioco andò nel negozio di generi alimentari, dal quale ritornò armato di coltello con cui ferì Conforti, che era rimasto fermo accanto alla porta di comunicazione tra il negozio e la stanza del gioco.
Nonostante le nette smentite, la difesa di Molinaro chiede che il suo assistito venga prosciolto in istruttoria per aver agito in stato di legittima difesa putativa, cioè quella esercitata a fronte di una situazione di pericolo che non esiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti. Inoltre, per la difesa, Molinaro non ebbe intenzione di uccidere Conforti perché per ferirlo usò un temperino, a suo tempo sequestrato sporco di sangue dai Carabinieri nella stanza del gioco e questo è un vero e proprio azzardo perché contrasta non tanto con le dichiarazioni di testimoni che, teoricamente, hanno potuto vedere, percepire o valutare male lo svolgimento dei fatti, ma con i risultati della perizia autoptica che certifica l’inadeguatezza del temperino a produrre ben quattro delle lesioni penetranti in cavità con lesioni viscerali, causa della conseguente, mortale peritonite. Inoltre, a dimostrare che Molinaro non usò un temperino ci sono le dimensioni delle principali lesioni, larghe dai quattro ai cinque centimetri e le dichiarazioni dei testimoni:
– Aveva in mano un coltellaccio – dice Nigro.
– Il coltello adoperato da Molinaro era quello usato per il negozio di generi alimentari, lungo da venticinque a trenta centimetri – assicura Tenuta.
Le prove raccolte possono bastare per chiedere e ottenere il rinvio a giudizio di Francesco Molinaro con l’accusa di omicidio volontario. Ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza il 29 aprile 1944.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la difesa deduce sia egli dichiarato non punibile per avere agito in stato di difesa legittima putativa, ma la situazione di fatto, quale il Molinaro prospettò, non risulta in alcun modo provata e risulta, invece, smentita dalle deposizioni dei presenti. Prima di accertare se e quale fondamento può avere in questa causa la richiesta di esclusione della pena fatta dalla difesa, è necessario precisare sotto quale norma penale debba essere riportato il fatto attribuito al Molinaro. La sentenza del Giudice Istruttore rinviò il Molinaro al giudizio di questa Corte perché rispondesse del delitto di omicidio volontario. La difesa dell’imputato chiese, invece, che si riconoscesse abbia avuto egli la volontà di ferire soltanto. Ma la richiesta della difesa non può essere accolta perché respinta dalle risultanze processuali. Chi si fermò alla lettura del primo referto medico non può non restare sorpreso che dalle lesioni descritte sia derivata, alla distanza di poco più di 24 ore la morte del ferito. Non si trova fatta neppure la riserva di una possibile penetrazione in cavità di alcune delle ferite rilevate. Fu soltanto con il secondo referto che si fece cenno della penetrazione in cavità di alcune delle lesioni, ma la peritonite era già sviluppata. Ora, il numero rilevante delle ferite e le parti del corpo prese di mira sono indice preciso che il Molinaro non soltanto volle ferire, ma che volle cagionare la morte del Conforti. E la volontà di uccidere la Corte la deduce anche dall’arma adoperata. La difesa dell’imputato cercò di mostrare che le ferite furono prodotte con un temperino, gli esami tecnici portarono a concludere che le ferite furono prodotte da coltello a lama larga e non da temperino, come anche i testi presenti al fatto attestano e lo stesso Molinaro, tanto nelle dichiarazioni rese al Maresciallo, quanto nell’interrogatorio reso al magistrato, parlò di coltello da tavola e non di temperino. E chi usa contro l’avversario un coltellaccio e produce lesioni alla regione dell’epigastrio, dell’ipocondrio e del torace non può dirsi che non abbia avuto la volontà di cagionare la morte. Conforti nulla fece che potesse far sorgere nella mente del Molinaro l’opinione di un pericolo, essendo rimasto del tutto inattivo. Era talmente inattivo che i presenti non fecero alcunché per distoglierlo da possibili violenze contro il Molinaro. Fu invece l’atteggiamento di costui che spinse Nigro a seguirlo nella stanza del negozio di alimentari, avendo capito che aveva l’intenzione di prendere qualche cosa per inveire nuovamente contro Conforti.
Quindi la richiesta della difesa di non punibilità viene respinta perché, spiega la Corte, la difesa legittima putativa deve avere il suo fondamento oggettivo. Deve, cioè, avere il suo riscontro in fatti che sono erroneamente interpretati dall’agente come un’offesa dalla quale sia necessario difendersi. Ed è evidente che così debba essere, dal momento che la difesa legittima putativa equivale, negli effetti, alla difesa legittima reale. Avendo escluso che Conforti, dopo che Molinaro fu separato da lui, avesse compiuto azione alcuna nei confronti dell’avversario o avesse assunto di fronte allo stesso un atteggiamento che potesse avere carattere di ostilità, non può dirsi che nel Molinaro sorse la persuasione di potere essere aggredito e quindi di avere agito in stato di difesa legittima.
Le cose sembrano mettersi male per Francesco Molinaro, ma la Corte osserva che tutto il ragionamento fatto finora però non esclude che una attenuante, e precisamente quella di avere agito in stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui, spetti all’imputato. E spiega: è risultato attraverso le deposizioni dei testi escussi nel periodo istruttorio ed anche nel dibattimento che Conforti, dopo essere stato posto con le spalle al suolo riuscì a sovrapporsi al Molinaro, ponendo costui nella condizione in cui egli, prima, erasi trovato. È risultato anche che quando i due furono separati, Molinaro fu visto grondare sangue dal naso. I testi parlarono di un pugno dato da Conforti a Molinaro e che fu dopo ciò che i due si aggrapparono cadendo per terra. Nel pugno dato da Conforti la Corte trova quel fatto ingiusto che determinò lo stato d’ira nel Molinaro. Fino a quel momento la discussione tra i due intorno all’insistenza di Molinaro perché fosse nominato sotto padrone era stata amichevole. Si passò ai fatti, dapprima con spinte reciproche, al pugno di Conforti, quindi alla zuffa. Quindi può dirsi nel pugno la causa dell’ulteriore svolgimento del fatto.
Non solo. La difesa esibisce un atto redatto dall’Ufficiale Giudiziario, datato lo stesso giorno di inizio del dibattimento, dal quale risulta che Francesco Molinaro ha fatto un’offerta reale della somma di lire ventimila alla madre e di lire ottomila al fratello della vittima come risarcimento del danno causato dall’uccisione del loro congiunto e per questo motivo viene chiesta la concessione dell’attenuante di aver risarcito il danno prima del dibattimento. Ma c’è un problema: sia la madre che il fratello di Ferdinando Conforti hanno rifiutato le somme offerte, affermando che non intendono rinunciare al diritto che la valutazione del danno da essi subito sia fatta dal Tribunale.
A questo proposito la Corte osserva che non pare possa seriamente contestarsi che manchino, nel caso in esame, le condizioni richieste dal legislatore perché possa trovare applicazione l’attenuante richiesta. E prima ancora di accertare se la somma offerta a ciascuno degli offesi dal delitto consumato dall’imputato risarcisca interamente il danno che ad essi derivò, ritiene la Corte sia non del tutto legale il modo con cui l’imputato credette di risarcire il danno stesso. Il fondamento dell’attenuante di cui trattasi è tutto fisiologico in quanto il riparare il danno mediante il risarcimento è indice rivelatore di un ravvedimento e dimostra una minore criminosità nel colpevole. Di conseguenza non può essere negato che l’applicazione dell’attenuante prescinde da ogni volontà dell’offeso dal reato e quindi l’attenuante può, anzi deve, essere applicata quando, oggettivamente, il danno sia interamente risarcito prima del giudizio. Ora, non è tanto una questione sul “quantum” che la Corte fa, quanto una questione di legittimità sul procedimento seguito dall’imputato per riparare il danno da lui prodotto. Egli si limitò ad offrire a mezzo di Ufficiale Giudiziario una determinata somma alle parti offese, ma di fronte al rifiuto da costoro opposto, nulla fece, non depositò le somme offerte. E questo per Molinaro è un problema perché la Corte non esclude la eventualità che, una volta ottenuta la diminuzione di pena, l’autore del delitto potrebbe non consegnare la somma offerta e quindi, nel dubbio, l’attenuante non può essere concessa.
Adesso è davvero tutto e si può passare a determinare la pena da infliggere a Francesco Molinaro: considerata l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto della vittima e le aggravanti dell’arma e della recidiva negli ultimi cinque anni, la pena viene fissata in anni 16 di reclusione, oltre alle spese, al risarcimento del danno e alle pene accessorie.
Il 9 giugno 1950, la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 23 dicembre 1949, dichiara condonati anni 3 della pena.
Il 10 luglio 1954, la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 19 dicembre 1953 N. 922, dichiara condonati anni 3 della pena.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’>Assise di Cosenza.