Bisignano, 9 agosto 1933. La casa di Umile Ammirata è piena di parenti ed amici invitati a pranzo per festeggiare il battesimo dell’ultimo nato. Tra una portata e l’altra i brindisi fanno scendere negli stomaci parecchi bicchieri di vino e le risate si sprecano. Finito il pranzo un organetto allieta il pomeriggio degli invitati che ballano fino ad essere madidi di sudore, asciugato, come al solito, da qualche altro bicchiere di rosso e sguardi furtivi tra ragazzi e ragazze passano inosservati. Poi, verso le otto, gli invitati consegnano i regali e a gruppi si avviano verso casa.
Uno di questi gruppi, composto da Teodoro Pirillo, Gaetano Nicoletti, Francesco Nicoletti, Francesco Stavale e Maria Stavale, si incammina verso la contrada Arena e, strada facendo, a Francesco Stavale viene in mente qualcosa che avrebbe già voluto chiedere al suo amico Teodoro Pirillo, ma che. Per un motivo o per l’altro, ha scordato di fare:
– Compà, corre voce che a Cosenza hai venduto o hai portato in regalo ad un medico una certa quantità di lenticchie prima di dividerle col padrone del fondo che coltivi. È vero?
Pirillo scuote la testa, alza gli occhi al cielo sbuffando e poi, con tono acido, risponde:
– Siete tutti della razza di Jago e tanto basta!
– La razza di Jago? E chin’è su Jago? – chiede, non capendo il significato.
– Jago era un traditore come voi di famiglia, tutti traditori! – e, nel dire ciò, lancia contro Stavala una bottiglia piena di latte, colpendolo al petto.
I due si azzuffano scambiandosi pugni, calci e schiaffi, ma vengono subito divisi da Gaetano Nicoletti che riesce a trascinare Teodoro Pirillo una decina di metri lontano dall’avversario, ma Pirillo riesce a svincolarsi dalle braccia di Nicoletti, estrae un coltello e si avventa contro Stavale ferendolo al braccio destro ed alla parte sinistra dell’addome. Il ferito crolla a terra premendosi le mani sulla ferita al ventre, dalla quale sta fuoriuscendo un’ansa intestinale perforata dalla coltellata.
A questo punto tutti i presenti saltano addosso a Pirillo per disarmarlo e bloccarlo e ne nasce una zuffa furibonda. Sopraffatto, Pirillo viene bloccato e portato in paese dai Carabinieri, mentre altri portano il ferito a casa e le sue condizioni vengono diagnosticate talmente gravi dal medico, da essere dichiarato in pericolo di vita per la perforazione dell’intestino, dal quale fuoriesce tutto il contenuto che si riversa nel cavo addominale provocando una peritonite settica. Man mano che le ore passano, è chiaro a tutti che il medico ha visto giusto, le condizioni di Francesco Stavale si aggravano e, purtroppo, due giorni dopo muore. Adesso si procede per omicidio volontario.
Teodoro Pirillo viene arrestato e, interrogato, per difendersi racconta la sua versione dei fatti:
– Ammetto di aver ferito Francesco Stavale essendovi stato spinto per difendere la mia incolumità da una aggressione violenta da parte di costui. Immediatamente dopo aver detto che Stavale ed i suoi parenti erano della razza di Jago, egli mi diede un forte pugno dietro il collo facendomi cadere per terra e mentre mi rialzavo mi colpì una seconda volta alla guancia sinistra con una pietra, a seguito di che caddi una seconda volta e Stavale mi fu sopra stringendomi fortemente la gola con una mano. Fu in questo momento che io, sentendomi mancare il respiro, estrassi dalla tasca di dietro dei pantaloni il coltello e lo colpii…
Ma i testimoni invece raccontano che i due erano stati divisi, Pirillo allontanato e soltanto allora tornò indietro colpendo proditoriamente Stavale. Con questo stato di cose, il 15 marzo 1934 Pirillo viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario aggravato perché commesso per futili motivi e porto di coltello di genere vietato.
La causa si discute il 9 luglio 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, esamina la richiesta della difesa di non punibilità per avere agito in stato di legittima difesa o, in subordine, di derubricare il reato modificandolo in eccesso colposo di legittima difesa o, in ulteriore subordine, che gli sia concessa l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto della vittima, osserva: la Corte non può seguire la difesa nelle sue richieste perché non trovano riscontro né negli atti del procedimento, né nei risultati del pubblico dibattimento. Tutte le circostanze di fatto prospettate dall’imputato per giustificare in pieno la sua azione criminosa sono campate in aria perché tutti i testimoni le hanno escluse e, del resto, l’assunto dell’imputato di avere colpito mentre egli era per terra e lo Stavale gli era sopra è resistito da ovvie considerazioni di ordine logico. In quella posizione non avrebbe potuto ferire l’avversario al braccio destro, né avrebbe potuto, come dice, mettere la mano nella tasca posteriore dei pantaloni, estrarre il coltello ed aprirlo. Qualche testimone a discarico ha detto di aver visto il prevenuto a terra, ma ciò si riferisce ad un momento posteriore al delitto, quando, cioè, gli accorsi per disarmarlo colluttarono con lui. Non ricorrendo, perciò, le condizioni e gli estremi della legittima difesa, non può parlarsi neanche di eccesso colposo. Non può neanche concedersi l’attenuante dello stato d’ira perché, alla stregua dei fatti come innanzi esposti, manca il fatto ingiusto altrui. Infatti non possono costituire fatto ingiusto le insistenze dello Stavale dirette a sapere quanto ci fosse di vero nella diceria che circolava perché, se mai le stesse erano effetto di curiosità o potevano anche essere un mezzo per mettere l’amico sull’avviso, non potevano affatto arrecargli offesa. Se poi egli vi avesse dato una diversa interpretazione, sarebbe un fatto ingiusto soggettivo, che non dà luogo all’attenuante richiesta.
Le cose sembrano mettersi davvero male per Teodoro Pirillo, ma adesso la Corte si impegna in un ragionamento teso a dimostrare di avere raggiunto la consapevolezza che i fatti non andarono né come sostiene l’accusa, né come ha dichiarato l’imputato e osserva: sulla materialità del fatto non può dubitarsi perché, oltre che risulta dalle concordi deposizioni di tutti i testimoni presenti alla scena, è ammesso dallo stesso imputato. Gravi dubbi, però, sorgono sul concorso dell’elemento morale in quanto dalle peculiari modalità del fatto si desume che l’intenzione del Pirillo, nel momento in cui colpì lo Stavale, fu quella di ferire piuttosto che di uccidere. E spiega: a parte la natura dell’arma, coltello comune da tasca che, per quanto idonea, non si adopera per uccidere; a parte la tenuità della causale che non spiega l’evento letale, non bisogna dimenticare che il ferimento avvenne durante una colluttazione in cui, per necessità, i corpi dei colluttanti si muovono continuamente onde chi ferisce non può deliberatamente prendere di mira una determinata parte del corpo del suo avversario, ma ferisce senza sapere se e dove il colpo andrà a finire. Si consideri, inoltre, che essendo anche egli esposto ai colpi dell’avversario e dovendo perciò pensare a prevenirli e a difendersi, non può avere né la calma, né il tempo di riflettere sulla direzione del colpo. Se poi rimane ferita una parte vitale del colpo e ne consegue la morte, è ovvio che questa non fu da lui voluta, ma ciò nonostante la legge la pone a suo carico nella forma attenuata dell’omicidio preterintenzionale.
Modificato il titolo del reato, decisione alla quale si associa il Pubblico Ministero, la Corte bacchetta la Procura ed il Giudice Istruttore sostenendo che debba escludersi l’aggravante del motivo futile, del quale purtroppo si sta facendo abuso, confondendosi la futilità con la sproporzione tra il motivo e l’evento in quanto, nella specie, un certo motivo, sia pure tenue, sussiste e spiega il fatto. Esso è costituito dal risentimento del Pirillo, determinato dalle insistenze dello Stavale per sapere quanto di vero ci fosse nella diceria della sottrazione delle lenticchie che correva sul suo conto. Tali insistenze devono, evidentemente, averlo seccato e forse ritenne che anche l’amico prestava fede ad una simile voce, quindi il risentimento, la frase da lui pronunciata ed i fatti che ne seguirono.
Può bastare, non resta che determinare l’entità della pena da infliggere all’imputato per i reati di omicidio preterintenzionale con la sola aggravante dell’arma e di porto di coltello di genere vietato. Avuto riguardo alle modalità del fatto ed agli ottimi precedenti dell’imputato, stimasi condannarlo ad anni 13, più anni 1 per l’aggravante dell’arma e quindi, in complesso, ad anni 14 di reclusione e a mesi 1 di arresto per il porto di coltello, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.