Il 12 settembre 1947, martedì, Gennaro Marrazzo, diciotto anni, sta accompagnando in chiesa le sue due sorelle, quando si imbatte in un gruppo di giovanotti, capeggiati da Luigi Popilli, che si diverte a sbarrare la strada ai passanti. Gennaro se la prende ritenendo lo scherzo stupido e fuori luogo e tra i due nasce un vivace battibecco. Da una parola all’altra i due stanno per venire alle mani, ma il pronto intervento di Antonio Leone evita che le cose si facciano serie. Popilli ed i suoi amici si allontanano lanciando insulti e la cosa sembra essere finita qui.
No, non finisce qui. La sera del 4 dicembre successivo i due si incontrano per strada e si ingiuriano reciprocamente ed il giorno dopo, alle spiegazioni richieste da Gennaro Marrazzo segue una vivace discussione che degenera: Luigi, estratto un coltello, tira tre colpi al braccio sinistro di Gennaro, causandogli una diminuzione funzionale dell’arto, che risponde con una sassata che colpisce alla testa l’avversario, lasciandogli il ricordo di qualche punto di sutura.
Dopo questa lite il risentimento e l’odio comincia ad acuirsi tra i due giovanotti, ma di più in Gennaro perché Luigi non tralascia occasione, incontrandolo, di deriderlo e di menar vanto della sua bravata. Tra uno sfottò e l’altro, tutti di pessimo gusto, si arriva alla sera del 10 settembre 1948, quando i due hanno ancora modo di sfogare la loro animosità, poi qualcuno si mette in mezzo e non succede niente.
La mattina dopo, l’11 settembre, in Piazza Umberto I a Isola Capo Rizzuto c’è la fiera di San Rocco. Molti uomini si fermano nelle cantine, le donne prima vanno alla messa e poi al mercato, dove la gente si accalca tra le bancarelle per comprare ciò che serve ad un prezzo più conveniente del solito. Anche Gennaro, sono circa le nove, gironzola tra le bancarelle, quando gli esplode una castagnola tra i piedi e lui, sorpreso, fa un balzo di lato. Poi una grassa risata lo fa girare e vede Luigi Popilli che si sta sbellicando. Non risponde alla provocazione e continua il suo giro tra le bancarelle fermandosi davanti a quella di un venditore di coltelli. Se ne fa mostrare qualcuno, chiede i prezzi, poi ne sceglie uno, lo paga e mentre sta per metterlo in tasca, una voce dietro di lui gli fa:
– Quello è inservibile davanti al mio! – sì, è sempre Luigi che lo segue e perseguita. Gennaro bestemmia in silenzio e continua senza rispondere, ma quasi subito dopo, mentre osserva dei capi di vestiario, Luigi gli dà uno spintone e se ne va ridendo. È troppo.
Adesso le parti si invertono perché è Gennaro che segue discretamente Luigi e quando lo vede piegato in avanti intento ad osservare la merce esposta sopra una coperta distesa a terra, gli si fa alle spalle, caccia di tasca il coltello appena comprato e gli tira una coltellata. Ma c’è un imprevisto: un ragazzino si infila tra Gennaro e Luigi proprio nel momento in cui la lama sta per colpire quest’ultimo al braccio destro e viene ferito di striscio al gomito, deviando il coltello che invece va a conficcarsi nel fianco di Luigi, perforandogli il rene ed il fegato. Il ragazzino urla e anche Luigi urla per il dolore, poi si gira e vede Gennaro che si allontana con calma tra la folla col coltello ancora in mano.
I due feriti vengono subito portati all’ospedale di Crotone ma, mentre per il ragazzino non c’è nemmeno bisogno di punti di sutura, Luigi è grave e deve essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. Mentre viene preparata la sala operatoria, gli agenti di servizio lo interrogano:
– È stato Gennaro Marrazzo col quale ho avuto una questione dieci mesi fa… stamattina improvvisamente mi ha colpito alle spalle…
Gennaro è sparito e le condizioni di Luigi peggiorano di giorno in giorno, poi il 15 settembre muore per la sopraggiunta peritonite settica. Se prima si cercava di stabilire se si trattasse di lesioni gravi o tentato omicidio, adesso l’accusa, terribile, è di omicidio aggravato dalla premeditazione.
Con questo fardello sulle spalle, Gennaro viene arrestato due giorni dopo e racconta dei suoi problemi con Luigi Popilli a partire dalla mattina del 12 settembre 1947, fino ad arrivare alla mattina dell’11 settembre, la mattina del delitto, che racconta così:
– Stamattina verso le nove ero alla fiera e Popilli mi fece esplodere una castagnola tra i piedi. Più tardi, mentre acquistavo un coltello mi si avvicinò dicendomi che l’oggetto era inservibile di fronte al suo. Incontratolo nuovamente mentre osservavo della merce, ricevetti uno spintone. Fu allora che la mia ira esplose e, estratto il coltello, gli tirai un colpo al braccio ma, disgraziatamente, per avere egli cercato di schivare la coltellata, lo ferii in altra parte del corpo…
– In che posizione eravate?
– L’ho colpito mentre mi stava di fronte e dopo essere stato, ancora una volta, insultato…
– È impossibile, stai dicendo una fesseria! Popilli è stato colpito alla regione lombare, quindi dietro, qui! – gli fa il Maresciallo indicando sul proprio corpo il punto preciso.
– Quando stavo per vibrare il colpo, Popilli fece un quarto di giro e fu così che venne ferito alla regione lombare… io non avevo neppure l’intenzione di ferirlo, ma usai l’arma perché lui mi veniva incontro minaccioso!
– E il ragazzino come e perché lo hai colpito?
– Non lo so come è potuto succedere, non lo so proprio!
Ovviamente, dai dati obiettivi e dalle testimonianze raccolte, è impossibile credere a questa versione e la Procura, considerati i precedenti tra i due, l’arma usata, la parte colpita, chiede ed ottiene il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio premeditato.
La causa si discute il 16 marzo 1951 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: accertato, attraverso la confessione dell’imputato e dalle risultanze generiche e specifiche, che la morte del Papilli fu cagionata dal Marrazzo col colpo di coltello vibrato alla regione lombare, occorre stabilire se il prevenuto debba rispondere di omicidio premeditato o non piuttosto di omicidio preterintenzionale, secondo la tesi sostenuta dalla difesa e se sussiste, altresì, l’aggravante della premeditazione. Dalle risultanze processuali è indubbio che i rapporti fra l’uccisore e l’ucciso divennero tesi da quando, il 12 settembre 1947, alcuni giovani capeggiati dal Popilli sbarrarono il passo al Marrazzo che, insieme alle sorelle, si recava in chiesa. Poi ripercorre le varie tappe degli scontri tra i due fino ad arrivare alla mattina dell’11 settembre 1948, la mattina del delitto alla fiera di San Rocco e continua: stando alla versione del Marrazzo, egli colpì col coltello poco prima acquistato, dopo essere stato nuovamente deriso e provocato dal Popilli, mentre questi gli stava di fronte e, anzi, gli andava incontro minaccioso. Ma una tale versione, con cui si intendeva dall’imputato porre in essere una legittima difesa, alla quale i suoi difensori non hanno neppure accennato, almeno per quanto riguarda la posizione del Popilli, è destituita di qualsiasi fondamento perché contraddetta dalle dichiarazioni rese dalla vittima allorché venne ricoverata all’ospedale e successivamente al Magistrato e dall’altro ferito. È rimasto accertato, invero, che mentre, verso le ore 11 dell’11 settembre, il Popilli era intento, piegato sulle ginocchia, ad osservare della merce esposta per terra nella pubblica via, venne avvicinato alle spalle dal Marrazzo che proditoriamente gl’inferse una coltellata al fianco destro, ferendo contemporaneamente al braccio il ragazzo, dandosi alla fuga. Questi i fatti e non si può affermare con sicurezza, come hanno fatto il Pubblico Ministero prima e la Sezione Istruttoria poi, che il Marrazzo volesse uccidere il suo rivale. Sembra che le cose si stiano mettendo bene per Gennaro Marrazzo. Poi la Corte continua: indubbiamente, per la gravità della ferita riscontrata dai sanitari, Marrazzo dovette colpire con estrema violenza. L’arma adoperata era idonea a provocare la morte e la regione colpita era vitale, ma non sono sufficienti tali elementi, nel caso in esame, per ritenere l’animus necandi, che deve risultare in modo chiaro e preciso da tutte le modalità esteriori dell’azione, oltre che dalla causale e dalle prove raccolte nell’episodio criminoso e dagli antecedenti. Se Marrazzo avesse voluto uccidere avrebbe potuto più agevolmente farlo, data la posizione del Popilli, colpendolo alla schiena o in altre parti più vitali del corpo, avrebbe reiterato i colpi, mentre colpì quasi all’impazzata, ferendo contemporaneamente anche il ragazzo, e certo senza alcuna intenzione; si diede alla fuga pur avendo visto l’avversario in piedi e dovendo, quindi, ritenere che fosse soltanto ferito e non mortalmente. La causale, poi, si presenta assolutamente sproporzionata per l’omicidio; non si può avere la volontà di uccidere sol perché dieci mesi prima si è stati feriti non gravemente o si è stati provocati con qualche parola di scherno o col lancio di una castagnola o con uno spintone, tanto più, ancora, quando il feritore è un giovane di indole mite come il Marrazzo. La Corte ritiene che il Marrazzo debba rispondere di omicidio preterintenzionale, con l’esclusione dell’aggravante della premeditazione, non ritenuta esistente neppure dal Pubblico Ministero in udienza, contrariamente alla semplice affermazione che hanno fatto il Pubblico Ministero nella richiesta di rinvio a giudizio e la Sezione Istruttoria nella sentenza di rinvio, senza fornirne alcuna dimostrazione, desumendola dall’odio che da lunga data divideva i due, dalle provocazioni reciproche, dalle condizioni di inferiorità in cui il Marrazzo era stato posto dopo il ferimento subito nel dicembre 1947, dall’acquisto del coltello, dalla proditorietà dell’aggressione, circostanze che non offrono però la prova inequivocabile della premeditazione. Dagli atti è escluso che il Marrazzo ebbe mai, anche dopo il ferimento, ad esternare propositi di vendetta nei confronti del Popilli, mai ebbe a profferire minacce contro il suo avversario. Se un disegno criminoso fosse sorto nella sua mente non avrebbe atteso un giorno di festa e non lo avrebbe consumato nel frastuono di una piazza popolatissima, in pieno giorno, come non avrebbe atteso l’occasione della fiera per acquistare il coltello con cui uccise il rivale. L’idea del delitto, invece, a parere della Corte e in base alle risultanze processuali, dovette sorgere improvvisa nella mente del Marrazzo quella stessa mattina, pochi momenti prima dell’esecuzione, dopo che fu, ancora una volta, provocato. Non, quindi, premeditazione, ma stato d’ira, che va concesso all’imputato insieme al beneficio delle attenuanti generiche, consigliate dai suoi ottimi precedenti morali e penali e principalmente dalle sue pessime condizioni di salute (tubercolosi in forma grave) che possono portarlo, pure tanto giovane, in un breve periodo alla tomba. Essendo il Marrazzo meritevole di un particolare trattamento di clemenza per quanto si è detto, le attenuanti generiche possono essere ritenute equivalenti all’aggravante dell’arma. Per quanto concerne l’altro delitto di lesioni addebitatagli, dovendo rispondere dell’evento a titolo di colpa non avendo egli voluto produrre lesioni al ragazzo, e quindi di lesioni colpose, mancando la querela dell’offeso va dichiarato non doversi procedere per tale causa.
È tutto, non resta che determinare la pena: la pena per il delitto di omicidio preterintenzionale può irrogarsi in anni 8 di reclusione (anni 12 diminuiti di anni 4 per la provocazione) e di mesi 1 per il porto abusivo di coltello, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. Gennaro Marrazzo rientra nelle condizioni poste dal D.P. 23 dicembre 1949 e gli vengono condonati anni 3 della pena inflitta.
È il 16 marzo 1951, Gennaro è in carcere da due anni e mezzo e gliene restano altrettanti da scontare.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 4 marzo 1952 converte il ricorso in appello, designando per il giudizio di secondo grado la Corte d’Assise di Reggio Calabria che, con sentenza del 7 luglio 1952, in parziale riforma della sentenza appellata, riduce la pena inflitta al Marrazzo, per il delitto di omicidio preterintenzionale, ad anni 6 e mesi 6 di reclusione.[1] Considerati i 3 anni di condono, la pena effettiva è di anni 3 e mesi 6 di reclusione.
Gennaro Marrazzo ha scontato quasi quattro mesi in più del dovuto e deve essere scarcerato.
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.