ALLE CINQUE DELLA SERA

Le quattro di pomeriggio di domenica 19 luglio 1896 sono passate da una mezzoretta ed a Montalto Uffugo fa molto caldo. Il cottimista di lavori stradali Michele Morrone – lui è di Trenta ma ha degli affari a Montalto – scende le scale della locanda di Achille Arci dopo un riposino e, giunto nella stanza centrale al piano terra della locanda, che in verità funziona anche da bettola e macelleria, trova, seduto su un divanetto, il muratore Luigi Pella, che lo saluta con un certo che di ironico:

Oh! Caro padrone mio!

Non sono il padrone di chicchessia, ma il servo di tutti! Volete farmi passare per cretino? – gli risponde risentito, poi continua – non sono quello che credete e se tale fossi, sarei rimasto a casa mia! – e se ne va nella cucina per salutare la bettoliera Teresa Arci, avendo in mente di tornare al suo paese.

Mentre i due si stanno salutando, in cucina entra Luigi Pella e i due si scambiano delle ingiurie, poi Morrone dice per troncare il discorso:

Io me ne frego di te!

Tu non sei meglio di me, né più forte! – risponde Pella.

Donna Teresa intuisce che la cosa può prendere una piega sbagliata, così con bei modi accompagna Pella alla porta e lo vede che va in piazza San Domenico a sedersi su di un muretto sotto le acacie, vicino alla fontana.

A questo punto è opportuno fare un passo indietro per raccontare brevemente come mai Luigi Pella ha preso in giro Michele Morrone.

Michele Morrone, 28 anni, aveva preso a cottimo dall’appaltatore Nunziato Feraco la costruzione di alcuni cassoni di sostegno da utilizzare per la costruzione della nuova strada da Montalto a Cosenza. I cassoni, però, non furono giudicati rispondenti ai requisiti richiesti, così Morrone fu estromesso ed il lavoro fu affidato a Gaetano Caruso, il quale si mise in società proprio con Luigi Pella e da questo fatto nacque lo sfottò.

Mentre Pella è seduto all’ombra delle acacie, Michele Morrone è ancora nella cucina della locanda, intento a parlare di affari con Federico Franzese, sopraggiunto nel frattempo, mentre donna Teresa è seduta su una sedia. Dopo qualche minuto Franzese esce ed entra Giovannina Perri per restituire a donna Teresa una siringa, che vede Morrone fermo vicino alle fornacette mentre sta per rivolgere la parola a donna Teresa. In questo momento entra in cucina, dalla parte della strada, anche Luigi Pella, seguito dalla madre, che senza fare parole prende Morrone con la sinistra mano per il petto e con la destra, stringendo una pietra, incomincia ad assestargli colpi sul capo, tirandolo nel contempo verso le altre due stanze che compongono la bettola. Donna Teresa, vedendo che Michele Morrone ha messo la mano alla cintola dove tiene la rivoltella, si alza e lo prende per un braccio pregandolo di non reagire, poi aggiunge:

Non fare uno sfregio alla bettola di mastro Achille!

Ma Morrone le dà una spinta facendola cadere a terra e i due, uniti in una specie di balletto, entrano nella stanza centrale, poi tre colpi di arma da fuoco.

Nell’ultima stanza della bettola, adibita anche allo smercio della carne, Antonio Zagotti, Biagio ‘u cravunaru, Gennaro Caterina e Antonio Lento stanno giocando a carte quando sentono le detonazioni e, immediatamente dopo, vedono entrare dalla seconda stanza Luigi Pella che va verso la porta per uscire, ma cade col sedere a terra. I quattro accorrono per aiutarlo a rialzarsi e Pella esclama:

Son morto! Alzatemi la camicia che mi brucia

In questo momento entra nella terza stanza anche Pietro Arci e anche luicerca di aiutare il ferito, ma poi si accorge che sua zia Teresa è distesa a terra e corre verso la cucina per soccorrerla. Entrato nella seconda stanza trova Michele Morrone con la rivoltella in mano e, senza più curarsi della zia, gli si lancia addosso per disarmarlo e bloccarlo, ma Morrone, grondando sangue dalla testa, gli sfugge ed esce sulla piazza. Intanto è accorsa altra gente che aiuta Pella a rialzarsi e, seppur boccheggiante, lo porta via. Agli spari accorre anche Leopoldo Marrucci, Brigadiere delle Guardie Forestali, che vede uscire dalla bettola Michele Morrone con la rivoltella in mano e gli intima di fermarsi, cosa che fa immediatamente, consegnando l’arma. Poi Marrucci, con l’aiuto del fattorino postale, lo porta alla caserma dei Carabinieri e glielo consegna.

Sorge un problema: il Pretore di Montalto Uffugo scrive al Giudice Istruttore per essere sostituito nella conduzione delle indagini:

per mia delicatezza manifesto a V.S.Ill.ma che il Morrone è mio parente avendo sposato una figlia di una mia sorella. Sebbene io non transigga sul mio dovere, pure pregherei di far venire qui un Istruttore a scanso di malignazioni ed insinuazioni. Non vorrei neanche procedere alla sezione cadaverica ed io fino alle ore 4 p.m. non compirò atto alcuno in attesa dei suoi ordini.

Intanto il cadavere di Luigi Pella è stato portato nella sala anatomica del camposanto di Montalto ed adagiato sul tavolo di marmo; i dottori Enrico Bianco e Matteo Caracciolo sono pronti ad effettuare l’esame autoptico, ma devono aspettare che arrivi un magistrato da Cosenza e nel frattempo annotano che il morto indossa giacca e gilè di panno nero, calzoni di felpa tabacco, scarpe di cuoio nero, camicia e mutande di tela bianca e calze di cotone bianco e rosso. Alle quattro pomeridiane in punto il magistrato arriva e adesso si può procedere a descrivere le lesioni. 1^: sulla regione addominale, sei centimetri sopra l’ombelico una lesione di forma circolare penetrante in cavità; 2^: sulla linea ascellare media lato sinistro del torace altra lesione di forma circolare non penetrante in cavità; 3^: sul dorso, a tre centimetri dalla spina dorsale, e sei centimetri al di sotto dell’angolo inferiore della scapola lato sinistro, altra lesione di forma circolare penetrante in cavità. Colpito davanti e dietro. Siccome pare che non ci siano testimoni oculari in grado di descrivere la dinamica del fatto, toccherà a Michele Morrone farlo:

Mi dichiaro responsabile dell’omicidio in persona di Luigi Pella, da me perpetrato per non essere ucciso da esso. Nello scendere che facevo dalla scala della locanda nella seconda stanza, trovai seduto sul divano ivi esistente Pella Luigi il quale, nel vedermi, imprese a motteggiarmi volendomi far passare per un cretino per lo che io, risentitomi, gli feci osservare che se tale fossi stato, sarei rimasto in mia casa. Dopo di ciò, a spezzare il diverbio, mi recai alla cucina ove fui seguito dalla bettoliera, dalla quale volevo licenziarmi per andar via. Venne nella cucina il Pella per seguitare, credo io, ad insultarmi e la bettoliera il prese pel braccio e con belli modi lo pose alla porta. Io rimasi in cucina e tutto in una volta venne Pella con una pietra in mano e appena mi fu dappresso mi afferrò pel petto e, nell’atto che mi spingeva verso la seconda stanza, mi assestava replicati colpi sul capo. Io, vedutomi a mal partito e per non essere ucciso, estrassi la rivoltella e nella terza stanza della bettola gli esplosi contro tre colpi e quando lo vidi caduto ai miei piedi andai via per mettermi in salvo, ma fui arrestato

– Secondo qualcuno dei presenti i colpi furono quattro e tutti esplosi nella seconda stanza, quella del divano.

Non è vero che furono quattro colpi, bensì tre e non è vero che io glieli esplosi nella terza stanza e quando io esplosi i colpi Luigi Pella era a me di fronte che mi spingeva.

– Di fronte? E come si spiega che la vittima risulta essere stata colpita anche di lato e alla schiena? Queste due ferite fanno intendere che avete esploso questi due colpi dopo che Pella aveva ricevuto il colpo all’addome e vi aveva lasciato libero per fuggire!

Io posso affermare che ho esploso i tre colpi l’uno di seguito all’altro mentre Pella mi era di fronte e seguitava a percuotermi con la pietra sul capo.

– Avete solo due ferite sul capo, ma continuate a dire che Pella vi ha dato parecchi colpi. come spiegate questa circostanza?

La pietra gli dovette cascare dalle mani dopo che m’inferse i primi due colpi, ma egli seguitò a battermi con le mani.

– Voi e Pella eravate nemici?

Tra me ed il Pella non vi erano antecedenti d’inimicizia, né per gelosia di mestiere, né per altra ragione.

Ora, al di là della circostanza se i colpi furono esplosi nella seconda stanza, come sostengono i testimoni, o nella terza, Rosa Ginicola, la madre della vittima offre una versione dei fatti che si discosta sia da quella dei testimoni, sia da quella di Morrone:

Verso le cinque meno un quarto trovai mio figlio Luigi sotto le acacie che restano davanti alla Casa Municipale. Lo invitai a venirsene in mia compagnia ed egli mi rispose “adesso me ne vengo”. In tal momento Michele Morrone, fattosi sul limitare della bettola di Achille Arci, chiamò mio figlio, il quale immantinenti si recò da lui. Appena mio figlio entrò nella cucina si afferrarono entrambi e spingendosi vicendevolmente dalla cucina passarono nella seconda stanza. Mentre si spingevano, Morrone esplose tre colpi di arma da fuoco, che io neanche vidi, in seguito di che mio figlio andò a cadere nella terza stanza. Io, vedendo cadere mio figlio, con la chiave della mia porta, che vi presento, vibrai vari colpi sul capo di Morrone. Poscia fui portata via dalla gente che accorse

– Vostro figlio e Morrone erano nemici?

– No, credo però che l’omicidio abbia avuto luogo perché Morrone, incaricato dal signor Stanislao Alimena di costruire alcune briglie di fabbrica lungo la strada che da Montalto porta a Cosenza, ma poiché Alimena, essendosi accorto che esse non venivano praticate a regola d’arte, lo dismise da tale lavoro e ne incaricò Gaetano Caruso, il quale prese a socio mio figlio. Ciò dovette averlo a male il Morrone e quindi chiamò mio figlio nella bettola, donde ne uscì cadavere.

– Vi siete accorta chi cominciò ad afferrare l’altro?

– No, mi sembra però che appena l’uno fu d’appresso all’altro si avviticchiarono nel contempo tra loro, ma per scusare il Morrone si vuol mettere in campo che mio figlio entrò nella bettola e con una pietra incominciò a percuoterlo sul capo. Ciò è totalmente falso e se sul capo di costui si riscontra qualche ferita, la stessa venne da me praticata con la chiave.

Interrogato su questa circostanza, Michele Morrone nega recisamente che a colpirlo fu la madre della vittima, come anche tutti i testimoni presenti negano di aver visto la donna colpire Morrone con la chiave.

Il diciottenne Francesco Esposito, interrogato, ricostruisce i fatti in modo diverso da tutti gli altri:

Verso le cinque pomeridiane mi trovavo seduto nei pressi della porta a destra della rivendita di sali e tabacchi nella piazza San Domenico, quando intesi Rosa Ginicola dire a suo figlio Luigi, che era presso la fontana, “figlio, andiamocene”, al che il figlio rispose “mamma, vedi che Michele Morrone mi ha chiamato, perciò andiamo ivi e dopo aver bevuto un bicchiere di vino andremo in casa”. Dopo ciò, tanto Luigi che la madre andarono nella cucina della bettola, ove, appena entrato Luigi, Michele Morrone lo ha abbracciato e portato nella terza stanza dove, presso il pancone, gli ha esploso contro quattro colpi di rivoltella e poi l’ha preso per il petto e lo ha gittato in terra.

– Non può essere vero quello che racconti perché nessuno, nemmeno la madre di Pella, ha raccontato il fatto così, come la mettiamo?

– Quello che ho deposto è la pura verità!

– Beh… allora ti devo fare presente le pene sancite per i falsi testimoni o dici la verità?

Ma Francesco Esposito persiste nella sua versione anche quando viene messo a confronto con due testimoni e parte la denuncia per falsa testimonianza.

Per gli inquirenti c’è una circostanza poco chiara: è possibile che tirando dei colpi di pietra sul cuoio capelluto lacerandolo, la pietra stessa resti senza tracce di sangue? La risposta dei periti incaricati è che, sì, è possibile.

Poi sulla pietra sequestrata nella bettola viene notata una quasi impercettibile macchiolina rossastra: si tratta di sangue umano? La perizia chimica attesta che la macchiolina non è di sangue.

È vero che i periti hanno attestato con dovizia di particolari anatomici che se si colpisce in testa qualcuno con una pietra non è detto che questa si sporchi di sangue, ma il fatto che sulla pietra sequestrata non ci sia sangue, fa comunque sorgere il sospetto che, come sostiene la madre della vittima, si sia montata ad arte l’aggressione a colpi di pietra per favorire Michele Morrone. Per cercare di fugare o confermare questo dubbio, viene ascoltato il Vice Brigadiere Francesco Mazzotta, comandante la stazione di Montalto:

Appena che, in seguito all’ordine del Pretore, Luigi Pella fu portato via dalla bettola, io ed i miei dipendenti incominciammo delle indagini e prima di tutti assumemmo ad esame Teresa Arci, la quale fece parola di una pietra con cui Pella avrebbe colpito sul capo Morrone. Fu allora che ci mettemmo in cerca di una tale pietra e, rovistando a dritta ed a sinistra, la pietra fu rinvenuta dalla bettoliera sotto un tavolo nella terza stanza, ove andò a cadere Pella, e fu consegnata al Carabiniere Mannone, pietra che venne regolarmente repertata.

– Ritenete possibile la circostanza che sia stata tutta una messa in scena per favorire l’imputato?

Io non credo che il fatto della pietra sia stato l’effetto di un concerto per scusare Morrone, vuoi perché tempo non ve ne fu da potere tanto pensare, vuoi perché a tanto non si sarebbe prestata Teresa Arci, donna onesta e incapace d’ingannare la sua coscienza, tanto più che trovasi inoltrata nell’età. Credo, del pari, incapaci di mentire le altre persone presenti.

– E del teste Esposito Francesco cosa dite?

Dalle indagini praticate mi risulta che sia facile a mentire e mi son convinto che innanzi alla giustizia abbia tanto praticato perché dal sito ove egli si trovava seduto il 19 luglio nel momento in cui venne praticato l’omicidio, cioè sulla soglia della rivendita alla parte interna, non poteva vedere quanto avveniva presso la fontanina, che resta sulla stessa linea della rivendita a otto o nove metri di distanza, né poteva sentire il discorso tra Pella e la madre, a meno che questi non avessero gridato.

– E infatti lo abbiamo denunciato per falsa testimonianza!

Sembra che gli inquirenti abbiano raccolto prove e indizi sufficienti per ritenere che non si sia trattato di legittima difesa ma di omicidio volontario ed è per questo reato che viene chiesto ed ottenuto, il 27 novembre 1896, il rinvio a giudizio di Michele Morrone davanti alla Corte d’Assise di Cosenza e la causa si discuterà il 21 dicembre successivo.

Il giorno dopo è già il momento di emettere la sentenza: la Corte ritiene Morrone Michele colpevole di omicidio volontario con la scusante dell’eccesso di difesa in concorso di circostanze attenuanti e lo condanna ad anni 8 e mesi 9 di detenzione, da cui si condonano, per l’amnistia del 24 ottobre 1896, mesi tre. Oltre, ovviamente, le spese, i danni e le pene accessorie.

La condanna è divenuta esecutiva.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.