Sono le 19,45 del 25 aprile 1930, a Melito Porto Salvo la processione aperta da un carro trionfale allestito in occasione della festa di Porto Salvo sta per partire lungo le vie del paese, quando Ernesto Orlando, sessantaduenne Brigadiere delle Guardie Municipali, trafelato per la corsa fatta, bussa alla caserma dei Carabinieri:
– Presto, correte! Pochi momenti fa, all’estremità del paese, vicino alla frazione Pallica, è stato ferito a morte Salvatore Orlando, ma non si sa da chi…
Il Maresciallo Maggiore Giuseppe Petrocelli ed i suoi uomini corrono sul posto, ma il ventenne ferito non c’è, è stato caricato su di un autocarro e portato al locale Ospedale Provinciale Garibaldi. Allora, mentre il Brigadiere Luigi Isola si fa accompagnare all’ospedale, il Maresciallo apprende che Salvatore Orlando è stato attinto da due colpi di fucile esplosi dalla strada mentre si trovava vicino al balcone di casa. E infatti, entrati in casa, i Carabinieri constatano che nella stanza dove è accaduto il fatto il pavimento è in gran parte coperto di sangue e tre vetri del balcone sono spezzati: due a raggiera e l’altro con un foro a margini netti del diametro di due centimetri. Inoltre sul soffitto ci sono una quindicina di buchi prodotti da piombo di due specie.
In casa, in preda a sgomento, ci sono Filippa Laganà, cognata del ferito, e la madre di questa, Tommasina Gentile, che però non sanno chi ha sparato le fucilate, ma rivelano che in casa, al momento del fatto, c’erano anche la quindicenne Giovanna Licordari e suo zio Saverio Tripodi. Non c’è tempo per approfondire subito altre circostanze e, lasciato un Carabiniere sul posto, Petrocelli corre anche lui in ospedale per cercare di sapere qualcosa di concreto e cominciare le indagini.
Salvatore Orlando è in imminente pericolo di vita, ma sebbene a stento, ha già parlato al Brigadiere Isola, raccontando molto sommariamente i fatti:
– Mi ha sparato Giuseppe Licordari… era sulla strada con Domenico Tripodi, il fratello più piccolo di costui… non mi ricordo il nome… e una donna che non ho riconosciuto… – e, purtroppo, dopo pochi minuti muore.
Il trentaquattrenne Giuseppe Licordari è il padre di Giovanna, segnalata in casa del ferito al momento degli spari, e molto probabilmente ci deve essere di mezzo qualche questione riconducibile all’onore. Anzi, forse addirittura Giovanna e suo zio sono andati a casa Orlando per facilitare l’azione criminosa di suo padre e per questo sospetto vengono messi in stato di fermo e interrogati. La prima a rispondere è l’adolescente Giovanna:
– Circa tre mesi fa, dopo un breve periodo di fidanzamento, una sera, nei pressi della mia abitazione, il defunto Salvatore Orlando mi sedusse. Un mese dopo egli, col mio consenso, mi rapì e mi condusse in una casa qui a Melito, ove rimanemmo tre o quattro giorni solamente, perché poi andammo ad alloggiare presso sua madre, che ci accolse senza ostacoli. Qui rimanemmo una quindicina di giorni perché nel frattempo mio padre aveva arredato un’abitazione nella frazione Lacco, dove ci stabilimmo definitivamente. Intanto avevamo dato promessa di matrimonio e questo doveva essere celebrato oggi in casa mia a Lacco, senonché Salvatore, che era atteso per le cinque di pomeriggio, non è venuto. Io lo avevo atteso in un fondo di sua proprietà in località Scifa e siccome si faceva notte, essendo sopraggiunto mio zio Saverio Tripodi, entrambi ce ne venimmo a Melito per trovare il mio sposo, non sapendomi spiegare il perché della sua assenza. Verso le sette e un quarto di questa sera siamo arrivati a casa del fratello di Salvatore ed io, in un impeto di collera, appena ho visto il mio sposo gli ho detto: “Disgraziato, con quale faccia mi lasciasti?” ed egli, allora, mi si è avventato addosso stringendomi alla gola. In questo istante egli si trovava affacciato al balcone e così io l’ho preso per la vita e l’ho tirato dentro. Intanto si erano intromessi fra noi mio zio Saverio, il fratello di Salvatore e la moglie di questi con la madre e sono così riusciti a far ritornare un po’ di calma. Salvatore si è messo nuovamente vicino al balcone e, mentre si discorreva, dalla strada sono partiti due colpi di fucile che lo hanno ferito al fianco, facendolo stramazzare al suolo. Io e mio zio, allorquando la casa si è riempita di gente accorsa alle grida dei congiunti del ferito, ce ne siamo andati via, portandoci immediatamente a Lacco, ove dopo qualche ora ci avete arrestati.
– Chi ha sparato?
– Non ho visto chi ha sparato, ma ritengo che l’abbia fatto mio padre, giacché egli, avendo visto che Salvatore non voleva più sposarmi e che era prossima la sua partenza per il servizio militare, non ha esitato a macchiarsi le mani di sangue per punire colui che aveva disonorato la mia casa! Da mia madre, dopo l’accaduto, ho appreso che mio padre si era allontanato da casa verso le due e mezza portandosi il fucile e dicendo che sarebbe andato a caccia e fino a tarda ora non aveva ancora fatto ritorno. Mia madre stessa, nell’apprendere l’uccisione di Salvatore, mettendosi le mani nei capelli, ha esclamato: “Dio, cosa ha fatto!”.
– Cosa è successo per fargli cambiare idea?
– So che Salvatore, per sposarmi, pretendeva diecimila lire da mio padre e che stamani aveva rivolto tale richiesta. Mio padre gli aveva invece promesso cinquemila lire, ma Salvatore non si era accontentato. Per tali motivi gli animi si erano tesi ed è accaduto il grave fattaccio.
– Cosa avete fatto dopo che Salvatore Orlando è stato ferito?
– Io, mio zio e gli altri parenti lo abbiamo soccorso appena si è abbattuto a terra.
– Se ho capito bene vivevate già come marito e moglie…
– Si e sono rimasta incinta…
Lo zio Saverio Tripodi conferma parola per parola la dichiarazione di Giovanna e il Maresciallo passa ad ascoltare Saverio Orlando, il fratello del morto:
– Verso le due di oggi pomeriggio Giuseppe Licordari si è fermato col suo biroccio vicino alla mia bottega e mi ha chiesto se avevo confetti e liquori, che gli occorrevano per il matrimonio di sua figlia con mio fratello, e acquistò a credito due bottiglie di liquore. Poi mi ha chiesto se io andavo allo sponsalizio ed io gli ho risposto affermativamente, facendogli però presente che sarei andato un po’ più tardi perché avevo gli operai da guardare. Verso le sette e mezzo di stasera, mentre mi preparavo per andare con mio fratello a Lacco, ove doveva celebrarsi il matrimonio, sono venuti a casa mia Giovanna Licordari e suo zio Saverio Tripodi. Giovanna, appena scorto mio fratello, che stava affacciato al balcone, lo ha investito con ingiurie e lo ha preso per i capelli. A questo anche lo zio si è avventato contro il mio povero fratello ed è stato così che io, mia moglie e mia suocera siamo accorsi per mettere pace. Fu in questo momento che, avvicinatomi al balcone, vidi in strada il padre di Giovanna, nonché i suoi cognati Domenico Tripodi, l’altro più piccolo, di cui non ricordo il nome, e una donna che non ho riconosciuto. Ero appena rientrato nella stanza, quando dalla strada sono partiti due colpi di fucile che hanno ferito mio fratello al fianco destro. Io e gli altri miei congiunti ci siamo affrettati a soccorrere il ferito, mentre sia Giovanna che lo zio si allontanavano immediatamente. Chiarisco che nella colluttazione tra mio fratello e Giovanna, questa con una gomitata aveva spaccato un vetro del balcone. Ritengo che Giuseppe Licordari, d’accordo con i suoi familiari, abbia premeditato il delitto ed a ciò sarà stato spinto dal timore che mio fratello non sposasse più la figlia, mentre il mio povero fratello aveva ritardato a recarsi a Lacco per attendere me.
La moglie e la suocera di Saverio Orlando confermano questa ricostruzione dei fatti, ma dichiarano di non aver visto le persone che erano in strada, né colui che aveva sparato i due colpi di fucile.
E Giuseppe Licordari? Per il momento è uccel di bosco e i Carabinieri lo cercano.
Il 26 aprile, nel primo pomeriggio, si presenta in caserma il diciassettenne Antonino Toscano per riferire notizie importanti:
– Ieri sera verso l’imbrunire, mentre mi recavo a Lacco, sullo stradale incontrai Giuseppe Licordari, in quale veniva verso Melito. Egli era solo ed andava armato di fucile. Ci salutammo ed avendogli domandato dove andava, mi rispose che si recava a Melito per un affare.
– O prima o dopo di incontrare Licordari, ti sei imbattuto in altre persone che andavano a Melito? – gli chiede il Maresciallo.
– Sia prima che dopo l’incontro con Licordari non mi imbattei in altre persone.
Secondo la madre della vittima, la mattina del 25 aprile suo figlio Salvatore aveva avvertito Giuseppe Licordari che sarebbe andato un po’ più tardi in casa sua per sposare, avendo dei lavori di muratura da eseguire e attendere. Poi, a domanda del Maresciallo, risponde:
– Non è vero che all’ultimo momento mio figlio avesse preteso dal Licordari una dote doppia di quella promessa di cinquemila lire.
– E allora perché lo ha ucciso?
– Non so spiegarmi il motivo.
Ovviamente anche Saverio Orlando esclude che suo fratello pretendeva una dote doppia di quella promessa di cinquemila lire, compreso il valore di una vacca che gli aveva già dato. Poi aggiunge un particolare per dimostrare che Giovanna sapeva, ed era d’accordo, che suo padre avrebbe sparato contro Salvatore:
– Giovanna si distaccò subito da mio fratello e si fece da parte e nel momento stesso partirono dalla strada i due colpi di fucile –. Ma nemmeno lui sa indicare il movente dell’omicidio. Poi afferma che non c’era un’ora stabilita per celebrare le nozze, ma solo l’accordo che doveva celebrarsi la sera.
– Ma, ammesso che non si fosse stabilito un orario preciso per celebrare il matrimonio, come mai nessuno di voi alle sette e mezzo di sera era vestito per la cerimonia?
– È vero che all’ora in cui avvenne il fatto né mio fratello, né io e neanche mia madre ci eravamo vestiti per andare al matrimonio e indossavamo gli abiti da lavoro, ma ciò avvenne perché ci eravamo sbrigati tardi.
– Qualcuno ci ha detto che voi e vostra madre avete detto a Giuseppe Licordari che pretendevate una dote doppia di quella promessa e che in caso contrario non si sarebbe effettuato il matrimonio, è così?
– Non è vero.
Un ginepraio e tale resterà fino a che Giuseppe Licordari sarà latitante. Intanto il suo avvocato spedisce al Procuratore del re di Reggio Calabria una memoria difensiva, dove indica quattordici testimoni che sarebbero in grado di attestare la richiesta di raddoppio della dote, che tale raddoppio era solo una scusa per far fallire il matrimonio (se pure l’avessero accontentato dandogli diecimila lire, ne avrebbe preteso ventimila), la circostanza che Salvatore Orlando prese per la gola Giovanna e addirittura i feroci maltrattamenti riservati da Salvatore a Giovanna.
Non bisognerà attendere a lungo. Poco prima che scocchi la mezzanotte del 26 aprile e cominci il 27, Giuseppe Licordari si consegna alla giustizia e racconta la sua versione dei fatti al Pretore:
– Salvatore Orlando aveva promesso di sposare la mia figliuola e il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare ieri sera in casa mia, senonché all’ultimo momento, influenzato dalla sua famiglia, pretendeva in dote una somma superiore alle mie forze, vivendo io di lavoro e avendo a carico una numerosa famiglia. Tuttavia ritenevo ch’egli non sarebbe arrivato al punto di rifiutarsi al matrimonio stabilito per quella sera…
Il Pretore lo interrompe per parlare subito del fatto materiale dell’omicidio e gli chiede:
– Ma voi, guardando dalla strada, cosa avete visto che accadeva in casa Orlando?
– La casa di Saverio Orlando è a circa quattro metri dalla strada, quindi vidi la scena che si svolgeva dentro, cioè quando Salvatore prese per la gola mia figlia, che si era messa a gridare. Io giunsi colà proprio al momento in cui avveniva ciò. Un momento dopo Salvatore si affacciò al balcone e allora io, in preda all’ira per la scena di violenza cui avevo assistito ed esasperato dal rifiuto di sposare mia figlia che restava così disonorata, abbandonata e incinta, spianai il fucile contro di lui e gli sparai due colpi.
– Torniamo a dove eravate rimasto. Salvatore Orlando, prima dell’ultimo momento in cui avrebbe preteso più soldi di dote, vi aveva fatto altre osservazioni su quello che avevate promesso?
– Con me non aveva mai fatto questione di dote ed era contento di ciò che avevo promesso a mia figlia in occasione del matrimonio. Tengo a far rilevare che Salvatore Orlando aveva già ricevuto da me lire cinquecento, una vacca ed una bicicletta che ieri mattina prese dalla mia casa. Tale questione egli mi fece solo ieri mattina e ritengo che sia stato influenzato dalla madre. Ritengo anche che l’eccessiva pretesa sia stata fatta allo scopo di non sposare, perché non ignorava che io non avevo la possibilità di dargli la somma richiesta. Saverio Orlando, il fratello, mi aveva riferito che Salvatore, prima di rapire mia figlia era in trattative di fidanzamento con una sua cugina, in Cosenza, che gli avrebbe portato oltre ventimila lire di dote.
– Chi c’era con voi quando avete sparato?
– Io sono andato da solo e solo ero quando ho sparato. Allorquando sparai i due colpi passavano per ivi due uomini, una donna e un bambino che non conobbi e, profittando dello scompiglio, mi allontanai.
– Avevate fissato un orario preciso per celebrare il matrimonio?
– Nel dopo pranzo. Al ritorno che feci dalla caccia verso l’imbrunire, seppi da mia moglie, che trovai sola in casa, che gli sposi non si erano fatti vivi e che mia figlia, piangendo, era andata a Melito con mio cognato Saverio Tripodi per ricercare lo sposo, il quale l’aveva abbandonata in campagna fin dal mattino e non era più tornato. Fu così che anch’io andai a Melito… a casa mia era già pronto il libro per la trascrizione dell’atto di matrimonio, consegnatomi fin dal mattino dal canonico Malavenda…
– Dopo l’omicidio avete parlato con vostro cognato Saverio Tripodi, dite la verità!
– Io non vidi quella sera mio cognato, ma ho saputo che si trovava in casa Orlando con mia figlia al momento del fatto.
Terminata l’istruzione, Giuseppe Licordari viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria per rispondere di omicidio volontario. Il 6 ottobre 1930 la Corte emette la sentenza con la quale condanna l’imputato, con l’attenuante della provocazione grave e attenuanti generiche, ad anni 5 e mesi 10 di detenzione, oltre alle spese, ai danni e pene accessorie.
Licordari ricorre per Cassazione, ma poi rinuncia perché, come scrive in una lunga lettera spedita il 9 agosto 1931 dal carcere di Trani e indirizzata al Presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria, i signori avvocati hanno cercato una somma tale che io non potevo mai soccombere alla loro richiesta, ma neanche un solo soldo potevo dargli e li accusa, per di più, di essersi messi d’accordo con gli avvocati di parte civile poiché il partito contrario ch’io avevo era forte, certo, in quattrini. In questa lettera, Licordari protesta educatamente perché ancora, dopo dieci mesi dalla condanna, non gli è stata notificata la sentenza e questo comporta il non poter essere destinato ad una colonia agricola per scontare la pena e dove c’è la possibilità di raggranellare qualche lira col lavoro. Perciò a chi rivolgermi? Certamente a V.E. poiché so bene che avete un cuore tanto buono e generoso, che vedete le contizioni cui si trovano le famiglie sventurate e ne avete pietà. Certamente non negherete una grazia ad un povero padre di ben 9 figli, condannato ingiustamente o giusto non lo so, per difendere l’onore della propria figlia. Mai, mai, Ecc.mo ho sentito che le sezioni d’Assise delle Calabrie e Sicilia hanno fatto una simile causa, che si condanna la persona che difende l’onore, la reputazione della propria famiglia e, quanto dire, della propria figlia. Voglio solamente passare in grazia del cielo questa durissima condanna e uscire sano e protegere e sfamare la mia famiglia che mi attente con ansietà. Ecc.mo confesso ancora che la mia famiglia non può soccorrermi a mandarmi una dieci lire, almeno per sfamarmi e nel contempo non voglio sfruttarla.
Che sia seriamente preoccupato per la sorte della sua famiglia si capisce da una lettera che gli scrive il figlio Francesco per tranquillizzarlo. Sono i primi di ottobre 1930:
mio caro padre noi siamo tutti beni, di non penzare a niente, solo vi dico di penzare per voi perché qui siamo tanti e voi sieti solo. Seppure a noi ci prendi una febbre siamo tanti, ma se ha voi vi prende una febbre voi sieti solo. Fate mi sapere se il pacco l’avete ricevuto, dentro al pacco conteneva una piccola pezza di formaggio, una poco di salame, un poco di dolce e un paio di uova e altro nienti. Per quanto al pettino ci abbiamo scordato, a Pasqua, quando faremo l’altro pacco, ve lo manderemo. Mille baci, vostro figlio.[1]
Se tutto andrà bene, per ricevere il pettine Giuseppe Licordari dovrà aspettare altri sei mesi.
[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.