I FIGLI CONTRO LA MADRE

Sono le cinque di mattina del 4 maggio 1930 quando una donna bussa al portone delle carceri di Reggio Calabria e al piantone che la guarda dallo spioncino dice:

– Mi chiamo Marianna Catalano e sono venuta a costituirmi perché ieri sera in contrada Salice ho ucciso mio marito con due colpi di rivoltella.

La guardia la fa entrare e la donna gli consegna una rivoltella a cinque colpi, di cui due esplosi, poi allerta immediatamente la Questura. Dopo pochi minuti arriva il Commissario Paolo Romeo e la interroga, ricevendo un lungo racconto:

Sono sposata dal 1909 con Vincenzo Barreca, contadino. Fu un matrimonio combinato dai parenti dopo ricevuta l’approvazione di colei che mi aveva allevata. Dal matrimonio nacquero dieci figli, dei quali ne perirono quattro e sono incinta di mesi due. Il più grande dei miei figli viventi si chiama Vincenzo, come il padre, ha diciannove anni e appartiene alla milizia. Il più piccolo ha compiuto cinque anni, poi ci sono altri due maschi e due femmine. Mio marito fu sempre di carattere non molto affettuoso e per futili motivi accadevano liti di ogni genere, tanto che egli era persino irritato delle maggiori cure che, secondo lui, io avevo per i figli. Così egli si infuriava per un vestito che confezionavo ai figli o per qualche particolarità nel vitto che io usavo fare in favore del maschio più debole. Però, da circa tre mesi egli era diventato addirittura brutale ed insopportabile. Per un nonnulla scoppiavano scenate violentissime, durante le quali egli persino mi percuoteva senza alcun riguardo per il mio stato. Faceva scene al mattino appena alzato, durante le ore dei pasti, alla sera quando rientrava in famiglia e persino durante la notte. Non posso ripetere una per una tutte le scene avvenute ed i maltrattamenti morali e materiali patiti perché sono infiniti. Posso dire che perfino il giorno di Pasqua, per un motivo da nulla, egli mi minacciò col coltello per ben due volte alla presenza di tutti i miei figli e di tale Passalacqua Giovanni, di anni 15, vicino di casa; mia figlia Caterina si interpose ed egli, lasciato il coltello, mi colpì con i pugni. Inutilmente cercavo di calmarlo, giacché egli si inviperiva sempre di più, tanto che temevo per la mia vita. Non lavorava tutti i giorni giacché non sempre si presentava l’occasione di far giornata. Era un uomo parco nelle sue abitudini, non faceva spese eccessive per suo conto, non beveva e non coltivava relazioni di alcun genere. Pretendeva, però, che col denaro ch’egli forniva, io provvedessi a tutti i bisogni della famiglia ed esigeva di trovare pronto il desio quando rientrava. Io andavo avanti a furia di stenti e sacrifici, tanto che ho dovuto contrarre non pochi debiti ed egli invece gridava continuamente perché pretendeva conoscere l’uso che si era fatto del denaro da lui consegnatomi. Io certo mi ribellavo sapendo ciò che giornalmente soffrivo e pativo per mandare avanti la famiglia e gli dicevo se fosse pazzo. A ciò egli insistentemente ripeteva che mi avrebbe fatto vedere se era o non era pazzo. Prostrata ed avvilita, un giorno della settimana scorsa, sempre più temendo per la mia vita, gli proposi di dividerci bonariamente, non potendo più resistere. Egli però non ne volle sapere e disse che prima di andarsene da casa avrebbe fatto “tonnina” di me e del mio primo figlio e che la mia carne avrebbero dovuto mangiarla i corvi. Ieri, infine, mio figlio Vincenzo si recò a Reggio per la visita di sua maestà alla città, dovendo prestare servizio come milite. Rientrò verso le venti, credo, e si mise a parlare con me raccontandomi la cerimonia. Mio marito forse pensò che si parlava di lui ed allora si rivolse con violenza contro di noi, ripetendo che la sua testa doveva esser tagliata, se egli non ci avrebbe ammazzati una buona volta. Mio figlio non rispose, ma io mi ribellai. Di lì a poco cenammo; io per la verità, irritata com’ero, non cenai, ciò che mi avveniva sempre allorché si verificavano scene con mio marito. Dopo cena andammo a letto, mentre i miei figli si coricarono nelle loro stanze accanto alla nostra. Nel letto matrimoniale dormiva l’ultimo dei nostri figli. Mio marito incominciò subito a far questione riprendendo la scenata interrotta prima, affermando che in casa i padroni eravamo io e mio figlio il grande e che egli nulla contava. Io mi ribellai protestando per questi continui martirii ch’egli mi infliggeva senza ragione. Ad un certo punto manifestò l’intenzione di alzarsi per farsi la barba. Supposi, invece, che volesse uccidermi e dissi che mi sarei alzata anche io. Alla mia decisione egli si ricoprì nuovamente dicendomi: “Alzati tu che io mi alzerò poi”. Il bambino dormiva e ritengo che anche gli altri dormissero. Io ero sfinita, sfibrata, nervosa, stanca. Mi passavano per testa voci lugubri e tristi. Mi alzai, mi vestii e stetti un po’ seduta sul letto. Mio marito intanto si era voltato di fianco con le spalle rivolte a me e sembrava si fosse addormentato. Non so cosa passò nella mia mente in quel momento. Sapevo che nel cassetto del comodino dalla parte di mio marito vi era la sua rivoltella carica. Mi avvicinai, aprii il cassetto, presi la rivoltella, la diressi contro la faccia di mio marito e l’uno dopo l’altro esplosi due colpi. Subito, con la rivoltella in mano, attraversai la stanza, uscii nel piccolo corridoio e, aperta la porta, fuggii verso Catona. Nell’uscire dalla stanza sentii un sospiro di mio marito. Sono sicura di averlo colpito nel viso e di averlo ucciso perché egli non si mosse. A Catona presi, dopo qualche minuto, il treno che veniva a Reggio e scesi allo scalo centrale. Giunsi fino alle carceri per costituirmi, ma avendo visto tutto chiuso e buio, tornai indietro e mi presentai all’albergo di Piazza Garibaldi, dove però non mi vollero ricevere perché sprovvista di tessera. Dormii nel circo equestre giacché per carità mi diedero un cantuccio da ricoverarmi e stamane mi presentai alle carceri verso le ore cinque e fui trattenuta.

– Vi siete vestita bene per costituirvi – ironizza il Commissario.

Il vestito e lo scialle che ho indosso li presi dalla stanza quando scappai dopo commesso il delitto e li indossai in Reggio sulla veste di casa che avevo al momento del fatto. Le scarpe sono di mia figlia ed io le presi nella stanza. Raggiunsi Catona scalza e misi le scarpe a quello scalo ferroviario.

– Vi hanno trovato dei soldi durante la perquisizione…

Avevo con me ottanta lire che conservavo in un fazzoletto nella veste di casa da me indossata. Dovevano servire per la spesa e provenivano dal lavoro di mio marito e dei miei figli.

– Avevate rapporti sessuali regolari con vostro marito?

– Si, quando mio marito voleva congiungersi con me mi prendeva con le buone, tanto che io, allorché mi maltrattava, lo rimproveravo dicendogli che io per lui ero buona solo in quei tali momenti.

– Vostro marito vi tradiva?

Mio marito mi fu sempre fedele, nei primi anni di matrimonio beveva, ma quando aumentò la famiglia non bevve quasi più vino.

– E con i figli come si comportava?

Trattava i figli con molta rudezza, specie quando rispondevano a qualche osservazione che faceva. Non aveva predilezione per alcuno. Aggiungo che mio marito, preso dall’ira li percuoteva con la cinghia dei pantaloni, tanto che una volta produsse delle contusioni ai due maschi più grandi con la fibbia della cinghia stessa.

– Come vi sentite adesso?

Sono pentita di ciò che ho fatto e per aver tolto la vita a mio marito e perciò penso a tutte le dolorose conseguenze per la famiglia. Fui però costretta a compiere tale passo e tutti potranno dire quale era la mia penosissima situazione.

– Perché invece di venire a costituirvi a Reggio non siete andata dai Carabinieri di Catona?

Non mi presentai dai Carabinieri perché non sapevo con precisione ove abitassero.

– Con i parenti di vostro marito andavate d’accordo?

Avevamo poche relazioni perché abitano a Reggio. A Catona abita un fratello, ma da cinque o sei anni erano nemici per questioni intime. Posso dire però che tutti i componenti la famiglia paterna di mio marito sono di temperamento focoso, impulsivo e poco attaccati alla famiglia, infatti il fratello che abita a Catona non mise nemmeno il lutto per la morte del padre.

– Come mai non avete pensato di disfarvi della rivoltella?

Non pensai a buttarla e la portai meco insieme al vestito, allo scialle e alle scarpe.

“Tutti potranno dire quale era la mia penosissima situazione”, ha affermato Marianna, ma a cominciare dai figli tutti la smentiscono e dicono il contrario: suo marito era un’ottima persona dal carattere mite e bonario, dedita al lavoro ed alla famiglia. Anzi, i figli l’accusano anche di avere preso da casa seicento lire ed una catenina d’oro, dei quali chiedono la restituzione. Litigi, maltrattamenti, percosse? I figli non hanno mai assistito a roba del genere e, addirittura, Vincenzo, quello che secondo Marianna era il principale bersaglio delle minacce oltre a lei, in un esposto afferma: a nome dei miei fratelli e sorelle, come io da più grande chiedo di fare giustizia della donna assassina perché il mio defunto padre portò a noi sulla via del bene e dell’onestà, dandoci da mangiare e lavorando notte e giorno per noi e fare giustizia ancora, se venisse scovato il rivale della donna che non chiamo più madre.

Ma come è possibile che Marianna si sia inventata tutto, sapendo che sarebbe stata immediatamente sbugiardata? Possibile che avesse creato una realtà parallela nella sua mente? E perché suo figlio evoca la presenza di un “rivale”, un amante, che ha potuto aiutarla? I Carabinieri di Catona, delegati alle indagini, basandosi essenzialmente sulla “voce pubblica” vanno giù duro nei confronti di Marianna Catalano:

Più volte ha abbandonato la casa coniugale per recarsi a Reggio ed altrove a cedere i suoi favori con individui che ancora non è stato possibile identificare e ad avvalorare ciò lo conferma il fatto che tale Canale Vincenza à fatto presente che quattro anni or sono, nel mentre assisteva la Catalano in Pizzo Superiore perché sgravatasi da una decina di giorni, fu la Catalano visitata da uno sconosciuto, decentemente vestito, dell’apparente età di anni trenta, alla vista del quale fece uscire la Canale dalla sua stanza e vi rimase sola con lo sconosciuto. La Canale, spinta dalla curiosità, guardò dalla toppa della porta e con sua sorpresa notò che lo sconosciuto scendeva dal letto ove la Catalano trovavasi coricata. In esito a tale scandalo, la Canale, appena fu sola con la Catalano, la redarguì e le fece presente che era insano il suo modo di procedere nei riguardi del marito, al che la Catalano rispose che non poteva più sopportare il marito e che in conseguenza di ciò un giorno o l’altro l’ammazzava o lo faceva sopprimere. La stessa Canale ha aggiunto che la Catalano non cedeva i suoi favori al marito, tanto che fra loro non correvano buoni rapporti.

Poi c’è la figlia tredicenne di Marianna che racconta:

Il tre maggio mia madre, accortasi che ero intenta a far covare la chioccia, mi disse: “metti le uova sotto la gallina e così mi porterete i galletti nel carcere” e più tardi aggiunse: “fra poco dovrete rimanere orfani di padre e di madre”.

Il sospetto adesso è che Marianna, probabilmente aiutata da qualcuno, ha premeditato il delitto e i Carabinieri scrivono: data la non buona moralità della Catalano, è evidente che la stessa ha voluto disfarsi del marito, che gli era di peso. Qualcuno forse l’ha aiutata e i sospetti cadono sul pregiudicato Giovanni Passalacqua perché frequentava spesso la casa dell’ucciso e la sera del delitto vi rimaneva fino alle ore 20,30. Ma i sospetti su Passalacqua cadono subito per averne acclarata l’innocenza.

Uscito di scena il sospettato, i dubbi sulla partecipazione al delitto di qualcun altro restano perché nel comodino della vittima viene trovata una pistola a due colpi, di cui né Marianna e né altri hanno parlato, quindi è molto probabile, per gli inquirenti, che la rivoltella usata le sia stata data dal presunto complice. Ci sono dei dubbi anche su una visita che Marianna avrebbe dovuto fare alla suocera moribonda un mese prima del delitto ma, recatasi a Reggio con questo scopo, non andò e Paolo Vazzana, un cugino del marito, racconta:

Circa un mese fa si presentava a casa mia, verso le otto, mia cugina Marianna Catalano e mi disse di avere ricevuto una cartolina con la quale le si comunicava che la suocera stava grave ammalata e perciò si era recata in Reggio. Rimasta in casa mia, verso le quattro di pomeriggio si allontanò pochi minuti lasciando un fagottino, dicendo che si recava a Piazza Succursale per vedere se giungeva l’autobus perché doveva venire il proprio figlio Demetrio. Dopo pochi minuti ritornò dicendo che il figlio non era giunto e siccome si era fatto tardi, si prese il fagotto dicendoci che se veniva il figlio glielo mandavamo dalla nonna. Passarono circa dieci minuti dalla sua partenza e mi affacciai per caso nanti la mia porta e vidi Marianna che invece di prendere la volta per recarsi dalla suocera, come aveva detto, si avviava da un’altra parte a passo lesto e notai che conduceva per la mano una bambina di circa sei anni

Marianna dovrebbe essere interrogata per rispondere a tutte queste contestazioni, ma non è possibile perché ha minacce d’aborto e non può subire traumi, né muoversi. Qualche giorno dopo, gli inquirenti hanno più fortuna:

Ho ucciso mio marito, ma ciò feci senza premeditazione in un momento in cui non ragionavo più, di fronte a tanti martirii che subivo ad opera sua e pel timore ch’egli volesse uccidermi. Come ho già dichiarato alla Pubblica Sicurezza, dichiarazione che confermo in ogni sua parte, mio marito, pur essendo un lavoratore e immune da vizi, mi maltrattava continuamente e con maggiore frequenza negli ultimi tre mesi per una ragione che ho dimenticato di esporre. Da tre mesi mi era mancata la mestruazione e mio marito invece di attribuire la eventuale gravidanza ai rapporti che avevo con lui e che non ebbero mai interruzioni avendomi posseduta fino a pochi giorni prima della sua morte, si era messo in testa l’idea fissa che io fossi stata ingravidata da altri. La sera del tre maggio, non appena mi coricai, mio marito mi dette un pugno al fianco, pel quale il respiro mi venne quasi meno e soffrii per oltre mezzora. Cercai di convincerlo con le buone di finirla una buona volta coi suoi detti che mi offendevano.

– Nel comodino c’era solo la rivoltella che avete usato?

Trovai due armi corte da fuoco, ne presi una e sparai due colpi contro il suo viso

– Pare che avevate relazioni intime con alcuni uomini…

Protesto altamente contro l’insinuazione che avessi relazioni con altri!

– E dove siete andata invece di fare visita a vostra suocera? Chi era la bambina che portavate per mano?

Quando venni a Reggio per andare da mia suocera, desistetti dall’idea perché la moglie di Paolo Vazzana mi disse che non si sapeva se mia suocera era ammalata a casa a San Sperato o a Prumo. Presi la via per ritornare al mio paese e non è vero che proseguii la strada con una bambina!

– Chi era l’uomo che venne a trovarvi dopo aver partorito e col quale siete rimasta da sola nella stanza perché, come ha riferito Vincenza Canale, avevate una relazione con lui? La Canale ha detto anche che le avete confessato di odiare vostro marito…

Non è vero che io ebbi relazioni con alcuno e che nel confermare ciò alla Canale le abbia confessato che odiavo mio marito. La figlia della Canale sposò il fratello di mio marito ed è mia nemica!

– Come spiegate il fatto di aver detto a vostra figlia di portarvi i galletti in carcere e che sarebbe rimasta orfana di padre e di madre?

Non è vero, non ho detto niente di questo, i miei figlioli saranno certamente indotti da altri a rovinarmi, mentre io nel carcere non faccio altro che piangere per loro, che sono rimasti veramente orfani!

– Chi vi ha fornito la rivoltella? Chi vi ha aiutata?

Nessuno mi ha somministrato l’arma e nessuno ha concorso con me nel delitto.

– E le seicento lire che i vostri figli dicono che avete preso? Dove sono?

È inesatto che io partii da casa con seicento lire perché in questo inverno vi furono molte spese sia per malattie che per mancato lavoro.

– Avete testimoni che possano confermare le vostre parole?

No, solo i figli miei potrebbero testimoniare in proposito

Senza testimoni a suo favore, il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, per rispondere di omicidio premeditato, è scontato e la discussione della causa viene fissata per il 28 luglio 1930.

Alle prime battute della discussione in aula scoppia la bomba: Marianna ritratta tutto e dice:

Io mi trovavo nella stanza attigua a quella da letto perché ero andata ad aprire la porta. Ritornando nella stanza da letto ero sulla soglia della porta quando furono esplosi i due colpi di rivoltella e vidi Giovanni Passalacqua proprio addossato alla finestra

Quindi ad uccidere sarebbe stato Passalacqua, ma Marianna non dice altro e tutto sembra inverosimile, anche se c’è un particolare che si evince dalla dichiarazione dell’imputata e che durante le indagini era sfuggito a tutti: la finestra della stanza dove fu commesso il delitto fu trovata effettivamente aperta e questo potrebbe significare due cose, cioè che o Marianna la aprì per favorire il delitto di Passalacqua, o era abitudine di lasciare la finestra aperta e Passalacqua ne approfittò per compiere il delitto, sempre ammesso che fu davvero lui a sparare, perché potrebbe trattarsi solo dell’estremo tentativo di Marianna di scampare all’ergastolo, accusando falsamente l’uomo. Ma, quale che sia la verità, la difesa cerca di approfittarne per chiedere il rinvio della causa a nuovo ruolo per potersi fare un’istruzione sulla denunzia fatta dalla Catalano, non potendosi più procedere per citazione diretta, avendo l’imputata negato di essere l’autrice del delitto.

La Corte, con parole di fuoco, respinge l’istanza ed ordina di procedersi oltre nel dibattimento e tutto lascia pensare che saranno guai grossi per Marianna Catalano.

La giuria popolare, però, al quesito “Ha l’imputata Catalano Marianna commesso il fatto affermato?” a maggioranza risponde di no e le cose potrebbero complicarsi. Poi, al quesito “Ha l’imputata Catalano Marianna concorso nel fatto affermato col facilitarne l’esecuzione prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto all’autore di esso con premeditazione?” la giuria, a maggioranza risponde di sì e quindi implicitamente si ammette che a commettere materialmente l’omicidio potrebbe essere stato Passalacqua (che a suo tempo era stato scagionato) oppure, ovviamente, una terza persona al momento sconosciuta.

La conseguenza di tutto questo è che Marianna scampa all’ergastolo, ma viene condannata ad anni 30 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

Nel fascicolo non vi sono annotazioni su eventuali ricorsi, condoni o amnistie, come, dalle ricerche svolte, non risultano procedimenti penali a carico di Giovanni Passalacqua per il reato in questione.

[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.