LE SUE MANI GRIFAGNE

Durante la notte tra il 17 ed il 18 aprile 1944 Costantina Iespa viene svegliata dal pianto insistente della bambina di cinque mesi dei suoi vicini, i coniugi Bruno Biscardi e Maria Cavaliere di San Vincenzo la Costa. E siccome il pianto della creatura non si placa, decide di andare a dare una sbirciatina e vede la bambina che si dimena nel centro del letto, mentre Maria è distesa da un lato col marito che le sta sopra a cavalcioni. Vorrebbe protestare, ma non osa interrompere quello che sembra un rapporto sessuale e torna a letto. La bambina piano piano si calma e dopo una mezzoretta Costantina sente la porta dei vicini aprirsi e chiudersi, poi dei passi che si allontanano.

È ormai giorno e Maria ancora non si è fatta vedere davanti casa, mentre la neonata, ultima di tre figli, ha ripreso a piangere disperatamente. Preoccupata, arriva Maria Biscardi, una parente della coppia, che entra in casa e trova Maria a letto, coperta e immobile. La donna la scuote per svegliarla, ma Maria non si sveglia e quando le tocca un braccio e questo cade mollemente, capisce che qualcosa non va. La scuote più forte e la testa di Maria si abbandona di lato, è morta!

– Allora stanotte non si stavano congiungendo! – esclama Costantina, nel frattempo sopraggiunta con la madre di Maria.

Vengono avvisati i Carabinieri che arrivano con due medici, i quali constatano al bordo inferiore della mandibola ed anteriormente delle macchie ecchimotiche non continue, di colorazione non uniforme, verosimilmente prodotte dalla pressione in vita sulla mandibola da mano omicida operante lo strozzamento, al fine di allontanarla o affievolirne la stretta; altre macchie della stessa natura nelle regioni laterali con tre segni di unghiate di forma lineare a sinistra e due a destra, verosimilmente prodotte da fortissima pressione digitale; altra macchia ecchimotica più grossa, di forma circolare e di colore più intenso ad un dito traverso sopra il manubrio dello sterno, verosimilmente prodotta da un pollice che ha compresso fortemente la parte inferiore della trachea.

La morte è avvenuta per asfissia in seguito a strozzamento. È da escludere che sia una morte naturale, avvenuta per sincope o trombosi, concludono i medici. E siccome il marito, Sergente Maggiore Bruno Biscardi, è sparito dalla circolazione e dopo la sua uscita di casa la prima persona ad entrarvi è stata la parente che l’ha trovata morta, è ovvio che ad uccidere Maria è stato lui, mentre Costantina assisteva, inconsapevole, al nefando delitto.

Quando Bruno Biscardi viene arrestato si proclama innocente, sostenendo che la moglie, benché non avesse mai accusato alcuna sofferenza e tanto meno una malattia di cuore, è morta improvvisamente di morte naturale e che, comunque, non l’ha uccisa lui, né aveva ragione di ucciderla.

L’ho sposata per affetto e ho procreato con lei tre figlioletti, ero contento della sua bontà e della sua condotta… ho mantenuto con lei sempre ottimi rapporti… – poi aggiunge – nel mese di gennaio 1944 avevo contratto con la studentessa diciannovenne Rachele una relazione amorosa per mero passatempo, ma non le volevo bene

Le indagini accertano che Rachele l’ha conosciuta a Vibo Valentia dove Bruno presta servizio ed il giuramento d’amore, come le espressioni contenute nelle lettere e nel diario che gli vengono sequestrati dicono che mente.

– Il giuramento me lo imposto Rachele e quello che c’è scritto nelle lettere e nel diario è tutta una finzione – insiste, continuando a mentire.

Anche Rachele mette a nudo le menzogne di Bruno. La ragazza racconta che gli si è presentato come vedovo e che durante la Pasqua del 1944 le chiese di scapparsene di casa e andarsene con lui ma, scoperto il suo stato di ammogliato gli fece apprendere che non avrebbe voluto più saperne delle sue manifestazioni d’amore, infrangendo il patto di bene e d’amore da entrambi sottoscritto. Bruno, a questo punto, le promise di recarsi subito al suo paese per munirsi del certificato di morte della moglie e del suo certificato di stato libero. Partì quella sera stessa e già dallo scalo di Paola il 14 aprile le inviò un primo messaggio telegrafico ed un secondo lo spedì il 15 da San Vincenzo la Costa: “le informazioni trasmesse sono sbagliate vrg rettificano stop vengo al più presto”.

È facile concludere che per la scoperta e la rottura del patto, nell’animo perverso di lui e nel fermento della foia belluina per le fresche e gentili ed appetitose carni dell’innamorata giovinetta Rachele, la minaccia di costei di voler troncare i loro rapporto per il vincolo matrimoniale che ad altra lo legava, sorse e maturò il proposito di sopprimere la moglie. Vedovo si era qualificato e vedovo doveva diventare. Lo scempio dell’ottima moglie, la soppressione della madre dei suoi figli era necessario per realizzare quei sognati tripudi carnali con la signorinella di Vibo, pei quali aveva approntato la casa ospitale, la breve licenza, le mille lire fattesi dare dalla moglie e che la scoperta del suo stato di ammogliato minacciava di far svanire.

Con tale perfido, feroce, abietto proponimento egli arrivò al suo paese, in seno alla sua famiglia, alla moglie ed ai tre figlioletti e, con le lusinghe di condurre seco la sua famiglia in Vivo Valentia, trasse seco la moglie, accompagnata dalla creatura di cinque mesi, dalla campagna dove abitava con i suoi genitori, in paese, in una casetta loro data in fitto, per averla così a sua completa disposizione e dopo due giorni di lieta convivenza, freddamente, belluinamente realizzò il suo feroce proposito, lungamente carezzato e meditato, dal quale nulla lo fece deflettere: non l’amorevolezza, la piena dedizione della moglie, con la quale la notte stessa si congiunse, pur essendo in piene mestruazioni, non la tenerezza dei figliuoletti che in così tenera età privava del più grande, del più amorevole ausilio, non le stesse grida esasperate ed esasperanti della creaturina di cinque mesi che stava accanto alla mamma e che fu ignara testimone dell’esecrando delitto. Le sue mani grifagne, spietate, non ebbero tremito, non vacillarono e diedero la morte orrenda e poi composero la vittima nel talamo, lasciandola tutta coperta fin sul viso, come se dormisse. Dormiva, infatti, un sonno senza più risveglio.

Il 28 novembre 1944 Bruno Biscardi viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di uxoricidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi. La discussione della causa è fissata per il 28 febbraio 1945.

La difesa gioca la carta di chiedere una perizia psichiatrica per stabilire lo stato di mente di Biscardi al momento del delitto e per chiedere la perizia si basa sui seguenti motivi: le azioni precedenti e concomitanti al fatto (gravi ed inspiegabili bugie, scritti rivelatori); i precedenti illibati che contrastano con la gravità del crimine commesso; il movente prossimo, ossia il fatto che Biscardi avrebbe ucciso per portare alla famiglia di Rachele un certificato di stato libero; l’atteggiamento processuale, che potrebbe, ammessa la sufficienza della prova, definirsi suicida.

Ma la Corte, incassata l’opposizione della parte civile e della pubblica accusa, considerato che nel dibattimento non sono risultati gravi e fondati indizi da rendere necessaria un’indagine sullo stato di mente dell’imputato, che non fu richiesta durante le indagini, momento proprio delle perizie, ritiene di rigettare l’istanza e spiega: invero i motivi indicati a fondamento della richiesta non sono sorti ex novo nel dibattimento, ma ad esso preesistevano e, d’altra parte, nessuno d’essi integra un fatto patologico fisico o psichico che consenta al giudice di avvalersi della facoltà eccezionale concessagli dalla legge per disporre una perizia in sede dibattimentale. L’imputato, com’è sua confessione, non è mai stato malato, né di corpo, né di mente, del che è riprova il rapporto informativo dell’autorità militare presso la quale Biscardi prestava servizio col grado di sergente maggiore.

A questo punto, la Corte osserva che il fatto, così come è risultato provato, commesso da Biscardi Bruno integra gli estremi obbiettivi e subiettivi del delitto di uxoricidio aggravato dalla premeditazione e dal motivo abietto. L’elemento obbiettivo sta nell’avere egli cagionato la morte della moglie strozzandola con le sue mani grifagne. L’elemento subiettivo sta nella volontà e coscienza di cagionare la morte, che nel caso è manifesto dalla natura dell’azione e dall’abietta, ma idonea causale. La premeditazione sta nella maggiore intensità di dolo, nella maggiore riflessione inerente al proposito di delinquere, protrattosi lungamente senza soluzione di continuità e senza alcuna deflessione per nessuna remora. Il proposito delittuoso sorse e maturò nel suo animo nei giorni della Pasqua 1944 quando temette, per la scoperta del suo stato matrimoniale, che la preda agognata, le fresche e gentili carni della giovane studentessa potesse sfuggirgli. Il motivo abietto sta nella lussuria, nella foia bestiale, nella mala brama dell’ingannata giovinetta, che voleva attrarre a sé nella piena perdizione della sua integrità sessuale e morale. Si è molto parlato dalla difesa dell’imputato di amore, di passione amorosa per assicurarsi la richiesta dell’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale, ma è stata una profanazione del nobile sentimento. L’imputato è stato più sincero e non ha osato parlare di amore. Ha dichiarato che le frasi amorose delle lettere e che lo stesso giuramento solenne erano tutta una finzione. Voleva soltanto farne il suo passatempo senza il promesso matrimonio. Dove c’è soltanto egoismo, dove c’è soltanto cupidigia e lussuria, dove manca il rispetto per la persona desiata, parlare d’amore è profanazione. Nella coscienza della Corte non affiora un sentimento di pietà verso l’imputato perché il reo fu spietato contro tutti. Contro la moglie, che belluinamente spense eppur gli era buona, amorosa, in piena dedizione del corpo e dell’anima; spietato contro i figli ai quali soppresse il loro più amorevole e valido aiuto e conforto nella loro tenerissima età, la mamma, sordo ai vagiti crescenti della loro creatura di cinque mesi; spietato contro la stessa Rachele, che non riuscì a disonorare per cause indipendenti dalla sua volontà.

Dopo queste durissime parole, la Corte passa a quantificare la pena da infliggere all’imputato: ergastolo, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. Poi, come stabilito dalla legge, ordina che la sentenza venga pubblicata mediante affissione nei comuni di Cosenza, di San Vincenzo la Costa e di Vibo Valentia, nonché per estratto e per una sola volta sul giornale “Corriere del Sud” di Cosenza.

È il 28 febbraio 1945 ed i fascisti prelevano dalle carceri di Reggio Emilia 10 patrioti e li fucilano nei pressi del cimitero di Cadelbosco Sotto, sulla strada che porta a Gualtieri.

La Corte d’Appello di Catanzaro, con ordinanza del 9 giugno 1954, in esecuzione del D.P. 19 dicembre 1953, commuta la pena dell’ergastolo inflitta a Bruno Biscardi in anni 20 di reclusione.

 La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, ai sensi del D.P. 24 gennaio 1963, n. 5, dichiara condonati mesi sei di reclusione sulla pena come sopra convertita.[1]

[1] ASCZ, SEZIONE DI Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.