SANGUE NEL FONDICCIUOLO

Nella tarda mattinata del 26 ottobre 1932 Agostino Raimondo, cinquantunenne contadino di Acquaformosa, si presenta ai Carabinieri di Lungo:

– Poco fa ho ammazzato Nicoletta Capparelli a colpi di scure in contrada Barbaluscio…

I militari si precipitano sul posto ma non trovano la vittima perché non è morta ed è stata portata a casa, gravemente ferita da colpi alle orecchie, lungo la rima boccale e alla regione retro auricolare sinistra, dove la scure ha prodotto una lesione a guisa di breccia interessante, oltre che il cuoio capelluto in tutto il suo spessore, l’osso temporale. Il Maresciallo prova ad interrogare Nicoletta, ma questa non è in grado di rispondere avendo perduto la parola per effetto delle ferite.

Bisognerà indagare a fondo per scoprire il come ed il perché della tragedia, in quanto nessuno ha assistito ai fatti. Così viene fuori che da qualche tempo esistevano gravi dissensi fra la donna e Raimondo, contrastandole questi ogni diritto su di un fondicciuolo sito in contrada Barbaluscio, mentre invece la Capparelli sosteneva spettarle la metà di quel fondo a seguito della morte di una sorella di lei. Pensate che Nicoletta, tempo prima, anziché ricorrere al giudice per vedere tutelati i suoi pretesi diritti dominicali, non solo si oppose con la forza a che Agostino Raimondo chiudesse un sottoscala in contestazione ed in possesso di lui, ma ebbe pure ad aggredirlo mediante colpi di pietra. Questo stato di cose si è protratto fino alla mattina del 26 ottobre, quando Agostino, intento a pulire sotto i castagni del fondo, ha visto arrivare Nicoletta che ben presto ha attaccato lite. Venuti i due a colluttazione, Agostino con una scure ha colpito ripetutamente la donna, riducendola in fin di vita. Vita che la sventurata perde il 29 ottobre per la suppurazione intracranica che ha prodotto una mortale meningo encefalite.

Adesso si tratta di omicidio e Agostino Raimondo, interrogato, racconta la sua verità:

Ho agito per difendermi. Essendo la Capparelli penetrata nel fondo dove io lavoravo, raccolse la scure da me lasciata per terra sulla mia giacca e, lanciatasi contro di me, ha tentato ripetutamente di colpirmi. Sono riuscito a disarmarla e poiché non smetteva di scuotermi tenendoni afferrato per la giacca, sono stato costretto a colpirla con la scure

C’è una contraddizione evidente, ma potrebbe trattarsi di ricordi confusi data la concitazione del momento: se la scure era per terra sopra la giacca, come poteva Nicoletta scuoterlo tenendolo afferrato per la giacca? E poi, che bisogno c’era di colpirla ripetutamente, visto che la donna era stata disarmata? No, le cose probabilmente non sono andate così e Agostino evidentemente sta approfittando della circostanza che nessuno assistette alla scena di sangue. La conseguenza è che il 17 gennaio 1933, chiusa l’istruttoria, l’uomo viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari per rispondere di omicidio volontario.

La causa si discute il 6 aprile 1934 e la difesa chiede il proscioglimento del suo assistito perché in primo luogo ha agito in stato di legittima difesa ed in secondo luogo perché, essendo affetto da epilessia, è da escludere che abbia agito con la capacità di intendere e volere.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che, in base allo stesso assunto del giudicabile, non è chi non veda come non trovi applicazione la discriminante della legittima difesa invocata dall’imputato. La giustificazione in parola è concessa dalla legge penale a colui che trovasi nella necessità di dover difendere il proprio o l’altrui diritto contro un pericolo attuale di una offesa ingiusta; epperò, se lo stesso giudicabile ha dichiarato di aver tolto la scure alla vittima, è ovvio che questa più non era in grado di nuocere al Raimondo, onde costui quando colpì non correva più alcun pericolo. È certo che l’imputato volle l’evento mortale, ciò essendo manifesto pel genere di arma adoperata (scure) e per la violenza con la quale furono vibrati i ripetuti colpi, che furono tutti diretti al capo. Onde deve affermarsi la responsabilità penale dell’imputato. Poi passa ad esaminare la richiesta subordinata: si è sostenuto dalla difesa che, essendo l’imputato affetto da epilessia, debba escludersi che lo stesso abbia agito con la capacità di intendere e di volere. Ma è noto che simile infermità esclude la imputabilità per difetto di capacità psichica, in quanto si provi che l’infermo abbia commesso un fatto costituente delitto durante l’accesso epilettico, perché solo durante la fase accessuale si produce la perdita completa della coscienza, cosa che, però, non risulta in nessun atto del processo e quindi anche questa richiesta è respinta.

Però la Corte rintraccia negli atti alcuni punti che vanno in aiuto dell’imputato: il Raimondo è individuo profondamente tarato nel corpo e nello spirito, essendo egli affetto da lue sifilitica, oltre che da epilessia; onde deve ritenersi che a causa di tale infermità, al momento del fatto la capacità d’intendere e di volere di lui fosse grandemente scemata. Ritiene, poi, la Corte, che all’imputato possa concedersi anche l’attenuante dello stato d’ira per la passata aggressione a colpi di pietra subita ad opera di Nicoletta Capparelli. La palese ingiustizia di siffatto comportamento non poté non cagionare nel Raimondo dispiacere e giusto risentimento; ond’è mestieri riconoscere ch’egli agì nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto della vittima.

È tutto, affermata la responsabilità dell’imputato e riconosciutegli le attenuanti, è il momento di quantificare la pena: tenuto conto di tutte le modalità del fatto e dei precedenti dell’imputato, che sono buoni, può equamente fissarsi in anni 21 di reclusione e stimasi ridurla ad anni 16 per la diminuente del vizio parziale di mente, riducendola ulteriormente ad anni 12 per l’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto altrui. Cinque anni di detta pena debbono dichiararsi condonati in forza del R.D. 5 novembre 1932 (art. 2 e 4), restando anni 7. Essendo stata la pena diminuita per ragioni di infermità psichica, deve disporsi che il Raimondo, dopo espiata la pena, venga ricoverato in una casa di cura per anni 3. Oltre, ovviamente, ai danni, le spese e le pene accessorie.

Il 25 marzo 1935, la Corte d’Assise di Castrovillari dichiara condonati mesi 2 della pena in virtù del R.D. 25 settembre 1934, n. 1511.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.