LO SPOSATO E LA RAGAZZINA

È il 24 gennaio 1942 ed a Cosenza fa freddo. Fa un po’ più freddo su Corso Plebiscito per la corrente d’aria proveniente dal sottostante fiume Crati e per questo la diciassettenne Giuditta Guerra, stando sull’ingresso della bottega di falegnameria di suo padre al numero 42 della strada, si alita tra le mani per riscaldarsele, in attesa che sua sorella Rosa e suo cugino Mario Orsino passino a prenderla per andare a farsi un ritratto insieme dal fotografo. Mezzogiorno è già passato quando un uomo si avvicina furtivo a Giuditta e con una mossa fulminea estrae dalla tasca una rivoltella e le spara un colpo quasi a bruciapelo, ferendola seriamente alla regione laterale destra del collo. L’uomo si dà alla fuga ma viene visto e fermato da due agenti della Pubblica Sicurezza, che si trovavano a passare nelle vicinanze. Si tratta del trentaduenne operaio Giuseppe Cundari.

Giuditta viene portata subito in ospedale e dichiarata in pericolo di vita, ma fortunatamente le sue condizioni migliorano di ora in ora ed è in grado di raccontare:

Da circa due anni Giuseppe Cundari, che era operaio nella bottega di mio padre, aveva preso a farmi la corte malgrado fosse ammogliato e con figli. Adducendo che sua moglie era seriamente ammalata e prossima alla fine, riuscì ad ottenere fra noi dei rapporti piuttosto intimi

– E perché ti ha sparata?

– Vi spiego: da due giorni si trova ospite a casa mia un cugino di Taranto, soldato nella Regia Marina ed attualmente in licenza. Cundari mi aveva proibito di rivolgere la parola a mio cugino, ma io non mi sono sottomessa a tale imposizione. Stamattina Cundari aveva lasciato da circa tre quarti d’ora la bottega, poi ritornò e mi trovò sull’ingresso, così mi ha sparato senza che mi fossi accorta della sua presenza, essendo intenta a guardare se arrivavano mia sorella Rosa e mio cugino Mario per andare dal fotografo. Quindi Cundari mi ha ferita per gelosia verso mio cugino.

E Cundari come racconta la storia? Vediamo:

Sono vittima della seduzione di Giuditta Guerra, la quale tre anni innanzi – e cioè quando aveva quattordici anni – aveva smesso di amoreggiare con tal Ciccio Perri, da me presentatole come mio parente, per attrarmi in rapporti sentimentali, dai quali ho cercato di sottrarmi abbandonando perfino il lavoro presso suo padre e ritornandovi per le insistenze di lei che mi suggeriva e pretendeva che ammazzassi mia moglie. È per questo motivo che ieri ho comprato la rivoltella e gliel’ho fatta vedere come elemento di prova sulla mia predisposizione ad ammazzare mia moglie e l’ho rassicurata che avrei eseguito tale proposito appena mi fossi trovato in presenza di mia moglie senza i bambini, ma non sentendomi di uccidere la madre dei miei bambini, dinanzi alle sempre più insistenti intimazioni fattemi da Giuditta mentre stamattina mi allontanavo dalla bottega, ho deciso di servirmi dell’arma contro di lei.

– Ma stai parlando di una ragazzina, non di una strega, a noi risulta che le hai raccontato di una malattia di tua moglie, della sua morte imminente e della tua gelosia, racconta la verità!

– Vi ripeto che ho cercato in tutti i modi di liberarmi da Giuditta e non è vero che le abbia parlato di malattie di mia moglie, tanto più che i suoi genitori lo sapevano e tacitamente annuivano ai rapporti fra la figlia e me. Non ho mai avuto qualsiasi pensiero di gelosia

A smentire “qualsiasi pensiero di gelosia” si presenta in Procura Emilio Aquino, un giovanotto che aveva preso a corteggiare Giuditta con intenzioni serie:

Amoreggiavo con la signorina Guerra facendole arrivare delle lettere ed aspettandola alla finestra alla quale ella si appariva nelle ore convenute. Fui affrontato dal Cundari che mi invitò in malo modo a desistere da quell’amoreggiamento e dal passare per quella via. Tentai di resistere, ma a Cundari si unì Ciccio Perri, suo parente, che si disse fidanzato della Guerra. Gli “inviti” si ripeterono e io finii per cedere

Va a testimoniare anche Mario Orsino, il cugino di Giuditta, che racconta:

Arrivai a gennaio in casa dei miei parenti per qualche giorno di licenza e accompagnai Giuditta al cinema e dal fotografo. Cundari mi chiese quando sarei ripartito ed alla risposta che avevo rilevato la difficoltà del viaggio per la via di Montalto Uffugo dove dovevo recarmi, sorrise, come a dileggio. Cundari aggredì mia cugina per punirla di avere insistito ad accompagnarsi a me.

Sono ammalata di utero da tre anni e mio marito è un povero operaio con figli, che viveva del salario datogli da Guerra. Quale prospettiva poteva egli offrire alla figlia del padrone in compenso del disonore? – osserva con amarezza la moglie di Cundari.

Per gli inquirenti quella offerta dall’imputato è una ricostruzione dei fatti priva di qualsiasi fondamento e il 24 giugno 1942 Cundari viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di lesioni gravi, aggravate dalla premeditazione, corruzione di minorenne continuata e porto abusivo di arma da fuoco.

Il 9 aprile 1943 si discute la causa. Affermata la responsabilità dell’imputato sulla base della confessione dell’imputato e delle risultanze processuali, riguardo al movente la Corte osserva che devesi quanto meno seriamente dubitare che sia stata la ragazza Giuditta Guerra anziché il Cundari a provocare e coltivare i rapporti di una qualche intimità sessuale. Una prova di fatto più che congetturale in rapporto all’età dei protagonisti della vicenda sta contro il Cundari. Egli, dopo aver comunque attirato a sé o quantomeno incoraggiata in una simpatia verso di lui la Guerra, si adoperò sempre per evitare che ella passasse ad altro amore, fino al momento in cui per un sentimento di riprovevole gelosia l’aggredì producendole una lesione con pericolo di vita e con esiti di limitazione nell’uso del braccio destro. Né scuote sostanzialmente tale deduzione la circostanza dell’allontanamento temporaneo del Cundari dalla bottega del Guerra giacché, anche a volergli credere e ritenere cioè che egli l’abbia fatto per allontanarsi dalla ragazza, bisognerebbe ritenere che vi si sia deciso in un momento di serena valutazione dell’illecito in cui si era messo e della responsabilità incontro alla quale egli andava. Se fosse stato veramente deciso a finirla, sarebbe bastato persistere nell’adottato allontanamento, giacché è assolutamente da escludere il fatto che egli sia ritornato per le gravi minacce fattegli con rivoltella da Giuditta Guerra. Una ragazza quindicenne, per quanto lasciva ma che non ha avuto congressi carnali e perciò non sotto il peso del disonore, resta naturalmente, logicamente estranea a certi gesti ed a certi propositi di estrema violenza. Il movente è la gelosia.

Ora la Corte deve accertare se sussiste l’aggravante della premeditazione e ragiona: Cundari ha dichiarato di essersi deciso ad aggredire la Guerra per le insistenti sollecitazioni fattegli da costei nel momento in cui si allontanò dalla bottega. La Guerra ha dichiarato che Cundari, ritornato alla bottega dopo circa mezz’ora da che se ne era andato, profittando che ella si trovava casualmente sull’ingresso della bottega, l’aggredì facendo esplodere quasi a bruciapelo la sua rivoltella. L’una come l’altra versione esclude l’ipotesi della premeditazione. Cundari acquistò la rivoltella quando vide la Guerra, contro le sue intenzioni, accompagnarsi al cugino e poiché ella non volle allontanarsi da costui si decise a ferirla. Nessuna preparazione quindi alla consumazione del delitto, ma semplice ed occasionale traduzione in atto di quella che nei due giorni precedenti, e forse anche mezz’ora prima, era stata una minaccia.

Per la corte non ci fu nemmeno pericolo di vita perché i medici dell’ospedale si limitarono a rilevare la ferita nei suoi caratteri esterni e dichiarare la parte lesa in pericolo di vita, senza fare minimo cenno dei fenomeni clinici che tale stato giustificassero.

Esauriti gli elementi da chiarire, la Corte, visto che l’imputato è incensurato, applica il R.D. 17/19/1942 e dichiara estinti per amnistia i reati di corruzione di minorenne e porto abusivo di arma da fuoco. Per il reato di lesioni gravi la Corte condanna Giuseppe Cundari ad anni 4 e mesi 6 di reclusione, di cui, in virtù dello stesso decreto di amnistia, ne dichiara condonati anni 3, restando la pena fissata in anni 1 e mesi 6.

È il 9 aprile 1943.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.