CALCE SPENTA, VITE SPENTE

Di prima mattina, il 12 aprile 1926, Andrea Falcomatà, fabbro da Condofuri, sta conversando con Girolamo Attinà a poca distanza dalla vasca di calce spenta di proprietà di quest’ultimo, sita a pochi metri dal nuovo ponte sul torrente Margulli. In questo frattempo arrivano sul posto il muratore Saverio Caridi, a piedi, e Antonio Pizzi, appaltatore di Condofuri, in compagnia di Domenico Manti, un suo colono, a bordo di un carro trainato da buoi. Sono le persone che Attinà sta aspettando per concludere un fastidioso accordo. In pratica, qualche anno prima Caridi, per terminare un lavoro prese in prestito da Pizzi una certa quantità di calce ma non riuscì a pagarla e, nello stesso tempo, prestò la sua opera di muratore a Pizzi. La logica avrebbe voluto che si arrivasse subito ad una compensazione, ma Pizzi non ne volle sapere e citò in giudizio Caridi. Dopo un lungo tira e molla, però, fu raggiunto un accordo: siccome Caridi avanzava del denaro da Attinà per alcuni lavori che gli aveva eseguito, Attinà avrebbe dato a Pizzi un cassone di carro, circa 2,8 metri cubi, pieno di calce spenta, mista tra buona ed ordinaria qualità. E si procedette anche a segnare nella vasca di Attinà i punti da cui prelevare la calce.

Ma la mattina del 12 aprile Caridi, appena vede il carro di Pizzi valuta che il cassone è eccessivamente voluminoso e avrebbe contenuto una quantità di calce maggiore di quella pattuita e protesta civilmente. Pizzi però non la prende bene, si avvicina a Caridi e gli tira un calcio. A questo punto, Attinà e Falcomatà si mettono in mezzo per fare opera di persuasione e così tranquillizzare gli animi, specialmente quello di Pizzi che, adirato, prende male anche l’intromissione di Attinà e, tolta la rivoltella dalla tasca, gli urla:

Vattene che ti sbuco!

Anche a me? – gli risponde, incredulo.

Un proiettile parte improvvisamente dalla rivoltella e centra in pieno petto Attinà, che cade a terra fulminato, Caridi capisce che le cose si mettono male anche per lui e scappa, ma Pizzi gli corre dietro e, alla distanza di circa cinque o sei metri, gli scarica alle spalle l’arma, quindi si dà a precipitosa fuga proprio mentre sta arrivando anche suo fratello Francesco a cavallo di un’asina, che gli urla:

Antonuzzu, chi facisti?

Caridi, colpito cinque volte alle spalle è grave e viene portato all’ospedale Garibaldi di Melito Porto Salvo.

Arrivati sul posto i Carabinieri, il Vicebrigadiere Francesco Ferrari, riuniti tutti i testimoni presenti al fatto li porta in caserma per interrogarli e sottrarli alla vista dei parenti dell’uccisore, anche loro sul posto, poi si mette sulle tracce del fuggitivo, che non rintraccia perché evidentemente ha avuto il tempo di rifugiarsi in un luogo sicuro. Il Tenente Alberto La Noce, comandante della locale Tenenza dei Carabinieri, invece raggiunge Caridi in ospedale e riesce a raccogliere una breve e sofferta dichiarazione:

Circa le ore sette mi trovavo sulla strada di San Carlo, nelle adiacenze del ponte di recente costruito, per consegnare della calce ad Antonio Pizzi che era sul posto con un carro trainato da buoi. Prima di consegnare la calce osservai che il carro era troppo voluminoso e che conteneva una quantità di calce maggiore di quella che avevo ricevuto in prestito tempo fa. Pizzi mi tirò un calcio e fra di noi si intromise Gerolamo Attinà, dal quale dovevo ricevere la calce in conto di alcuni lavori che gli avevo eseguito. Attinà continuava a trattenere Pizzi e questi, risentito, gli sparò contro il petto un colpo procurandogli la morte all’istante. Io cercavo di fuggire ma Pizzi, alla distanza di cinque o sei metri, mi scaricò addosso la rivoltella

Dopo qualche giorno, data la gravità delle ferite, purtroppo anche Saverio Caridi muore. Il quesito che si pongono gli inquirenti è: possibile che per una cosa del genere si è dovuto assistere ad una vera e propria strage? Secondo Domenico Attinà, il padre del povero Girolamo, le cose sono molto più complesse e le racconta al Giudice Istruttore:

Nel dì successivo ai fatti venne da me il Tenente dei Carabinieri e mi partecipò che sul luogo della scena di sangue c’era anche Pizzi Francesco, ma che nulla aveva commesso contro mio figlio perché era arrivato poco dopo. Viceversa da Falcomatà Andrea appresi che Francesco Pizzi arrivava su di un’asina quando suo fratello aveva iniziato il diverbio con Caridi, prima di mettere mano alla pistola e quando aveva indirizzato un calcio a Caridi. Francesco Pizzi metteva mano al fucile, trattenuto proprio da Falcomatà e da mio figlio Girolamo. Falcomatà mi aggiungeva che se Francesco Pizzi non fosse sopravvenuto, la scena luttuosa probabilmente non si sarebbe verificata giacché Falcomatà e mio figlio avrebbero impedito ad Antonio Pizzi di adoperare le armi. Il sopravvento di Francesco Pizzi che, sceso dall’asina, accorreva impugnando il fucile e gridando “Che è? Fermi tutti!” aveva fatto sì che essi avevano lasciato libero Antonio in modo da poter maneggiare la pistola.

– Quello che mi state raccontando riguarda, semmai, le modalità del fatto, noi dobbiamo chiarire il vero movente…

Nell’ottobre 1922 Antonio Pizzi diede una quantità di calce a Saverio Caridi

– Sappiamo già questo e sappiamo che avevano trovato un accordo…

– Se Vostra Signoria mi fa continuare, spiegherò tutto – il Giudice Istruttore gli fa segno di andare avanti e Attinà continua – …diede una quantità di calce a Caridi perché costui gli completasse il muro di argine della proprietà comune ed indivisa fra i tre fratelli Pizzi, di cui Antonio era l’amministratore. A sua volta Caridi accreditava per la cottura della calce quattrocento mazzi di frasca, che avrebbe avuto diritto di tagliare nel bosco dei Pizzi e che non aveva invece adoperato sostituendovi il carbone fossile. Tale quantità di frasca egli poi la richiese ad Antonio Pizzi, ma costui disconobbe il suo debito, facendogli osservare che, non avendola accettata al momento della cottura della calce, non ne aveva più diritto. Per tali fatti, nel maggio 1925 Francesco Pizzi, e non Antonio, istituì azione di pagamento contro Caridi, chiedendo carrate di calce per un valore di mille e cinquanta lire. La manovra era evidente: l’azione la istituì Francesco allo scopo di mettere Caridi nell’impossibilità di eccepire la compensazione del proprio credito, sia delle frasche che delle giornate di lavoro che vantava verso Antonio Pizzi. Ciò sta a dimostrare l’accordo fra i fratelli Pizzi. Inoltre, data la convivenza tra costoro, non è possibile che Antonio non avesse confidato al fratello Francesco le sue intenzioni criminose o per lo meno ostili contro mio figlio.

– Ma l’accordo che Caridi e Antonio Pizzi avevano raggiunto smentiscono le vostre parole…

– Chiarisco… in esecuzione dell’accordo, che comunque non prevedeva il rimborso delle frasche ma solo delle giornate di lavoro, siccome Caridi non disponeva delle sette carrate di calce pattuite, si rivolse a me e io feci rifiuto e finii col cedere soltanto quando Pizzi insistette verso di me a mezzo di mio figlio Girolamo. In sulle prime avevo fatto la concessione di calce vergine e non di calce spenta, ma Pizzi, in seguito, pretese calce spenta. Anche a ciò cedetti. Antonio Pizzi e mio figlio concordarono sul posto dov’era la fossa della calce, sulla qualità e quantità che gli si dovesse dare. Si stabilì che la quantità dovesse essere di metri cubi 2,80, si tagliò perfino nella fossa una figura rappresentante quella quantità ed in modo che vi andasse compresa della calce migliore ed anche quella corrente. Nel dì successivo arrivò sul posto un uomo inviato da Pizzi che, senza osservare i segni fatti nella fossa, si dette a prelevare calce della migliore. Sopraggiunto mio figlio domandò spiegazioni, ma il dipendente di Pizzi gli dichiarò che il suo padrone gli aveva ordinato di prendere soltanto la calce migliore. Mio figlio fece sospendere le operazioni e l’uomo si allontanò. Quella stessa sera mio figlio e Antonio Pizzi si incontrarono e Pizzi insisteva per avere la calce migliore, mentre mio figlio gli spiegava che ciò non era possibile. Pizzi, a sua volta, dichiarò che non intendeva più ricevere i due metri cubi e ottanta, ma sette carrate misurate e mio figlio non fece obiezione giacché Caridi lo avrebbe rivalso di quanto egli per suo conto consegnava a Pizzi. Quella sera mio figlio e Pizzi si lasciarono senza avere nulla definito intorno alla qualità della calce. L’indomani, nove aprile, Pizzi mandò a chiamare presso di sé Domenico Piacentini e gli dette l’incarico seguente, alludendo a mio figlio: “Dite a quel figlio di puttana, che ora fa il galantuomo, che se non mi darà la calce della migliore, la prima palla sarà sua!”. Piacentini tornò a casa sua e poco dopo arrivò colà mio figlio sul carrozzino di Antonio Pizzi. Piacentini si accorse che si stava svitando il sostegno di una ruota e pose sull’avviso mio figlio, consigliandogli di riparare l’inconveniente. Mio figlio gli fece conoscere che il carrozzino non era suo ma di Pizzi ed allora Piacentini osservò: “Come? Fate come i ladri di Pisa che il giorno si ammazzano e la notte vanno a rubare insieme?”. Mio figlio gli domandò cosa volesse dire e Piacentini gli spiegò, senza riferire testualmente le parole di Pizzi, che costui pretendeva tutta la calce migliore e aggiungeva il consiglio di accontentarlo, rammentandogli che aveva a che fare con prepotenti e che il suo rifiuto avrebbe portato sicura inimicizia. Ciò ho voluto riferire malgrado che Piacentini mi abbia dichiarato che confidava a me quel modo di parlare di Pizzi, ma non l’avrebbe dichiarato al magistrato per tema di vendetta della famiglia Pizzi o da parte della famiglia Tropeano [la famiglia della madre dei fratelli Pizzi. Nda]. Ora, le espressioni di Pizzi mi fanno pensare ad una premeditazione da parte sua perché, purtroppo, la prima palla fu diretta a mio figlio. Mi fanno pensare, inoltre, che Francesco Pizzi non potette non essere al corrente delle male intenzioni del fratello, dato che raramente soleva recarsi in quel posto e che quella mattina non aveva ragione alcuna di andarvi. Inoltre, Antonio e Francesco Pizzi quella mattina erano passati dall’abitazione dell’altro loro fratello Filippo, a circa cinquecento metri dal luogo dell’eccidio, che gli offrì il caffè, ma entrambi avevano fretta di andarsene e lo rifiutarono. Tale fretta non può spiegarsi, specialmente per Francesco Pizzi, giacché se suo fratello Antonio doveva disbrigare la consegna della calce, egli nulla aveva da vedere in quella faccenda.

– Quando vi avrebbe riferito quelle cose il Piacentini?

Tre giorni dopo l’omicidio, in presenza di Bruno Labate. La stessa dichiarazione aveva fatto il giorno precedente a mio genero Antonino Romano.

Tutto da verificare e non sarà facile. Poi Domenico Attinà fa pervenire anche un memoriale dattiloscritto di diciassette pagine al Giudice Istruttore, nel quale narra una stupefacente storia sui rapporti di parentela, rivalità e odio tra la sua famiglia e quella dei Pizzi, e per farlo parte addirittura dal 1860, dividendola addirittura in capitoli (CONDOTTA POLITICA 1860; CRIMINALITÀ; MORALITÀ), narrando di vendette politiche, stupri, violenze di ogni genere e omicidi rimasti impuniti. Poi accusa più o meno velatamente i Pizzi di condizionare le indagini in due maniere. La prima è agendo sui testimoni: non è che il testimone si corrompe per denaro; a corromperlo invece si minaccia la forza brutale e la povera gente, nel pericolo, si crede giustificata di fronte a Dio. La S.V. deve sapere che questi signori credono il territorio di Condofuri un loro feudo e non è meraviglia se le Imprese che capitano a lavorare in questi paraggi debbono subire mille soprusi ed accordar loro quanto pretendono. Lo si domandi alla Ferrobeton, alla Ditta Ing. Pantaleo Aloisio ed alla Ditta Lacaria e Tripepi. Io ero del paese ed ero meno angustiato, ma era la mia politica più che la paesanza che mi preservava da certe noie. Il secondo modo è esprimendo seri dubbi sulla correttezza delle indagini, inquinate dai rapporti di amicizia tra alcuni esponenti della famiglia Pizzi e funzionari dell’Arma Benemerita.

Anche questo sarà da verificare e sarà molto, molto più difficile farlo.

Nell’attesa di verificare gli spunti investigativi suggeriti da Domenico Attinà, se mai il Giudice Istruttore riterrà di farlo, Antonio Pizzi si costituisce il sette maggio successivo e racconta la sua versione dei fatti:

La mattina del dodici aprile mi imbattei per caso col mio carraio Domenico Manti, il quale per mio incarico doveva ricevere sul carro una quantità di calce dal muratore Saverio Caridi, che a sua volta l’avrebbe ricevuta da Girolamo Attinà. Quando Caridi scorse il carro osservò che era di una capacità eccessiva in rapporto alla calce che mi doveva. Feci notare a Caridi che il suo era un cavillo per procrastinare la consegna alla quale era tenuto da tre anni, ma Caridi insistette nella sua assertiva e con tono altezzoso, tanto che non seppi contenermi dal dirigergli un calcio. Intervenne allora Girolamo Attinà per trattenermi e per disarmarmi del fucile, che del resto era scarico. Intanto Caridi si andava facendo indietro e poneva la mano dietro i pantaloni, in atto di estrarre la rivoltella. Io, in ogni modo, non gliela vidi in mano. In quel momento di agitazione in cui versavo udii un colpo di arma da fuoco ed allora perdetti il lume della ragione e, estratta la rivoltella, esplosi tutti i cinque colpi senza sapere contro chi tiravo

Una ricostruzione non corrispondente ai fatti, dato che nessuno dei testimoni oculari presenti ai fatti ha udito detonazioni prima che Antonio Pizzi sparasse, ma, visto che tutti i testimoni oculari depongono la stessa identica versione, cioè che Francesco Pizzi arrivò subito dopo che Antonio aveva già sparato contro le sue vittime, le accuse di Domenico Attinà contro di lui non trovano alcun riscontro e resta fuori dal processo.

A questo punto l’istruttoria viene chiusa ed il 30 novembre 1926 Antonio Pizzi viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria per rispondere di duplice omicidio volontario.

La discussione della causa inizia il 28 maggio 1928 e si conclude, dopo un’accanita battaglia tra accusa e difesa, il 14 giugno successivo.

La Corte, riconosciuto che i due omicidi sono stati commessi nell’esecuzione del medesimo disegno criminoso, modifica la rubrica e giudica l’imputato per il reato di omicidio volontario continuato. La giuria, da parte sua, concede all’imputato la diminuente del vizio parziale di mente, accogliendo così per buona la dichiarazione dell’imputato (In quel momento di agitazione in cui versavo udii un colpo di arma da fuoco ed allora perdetti il lume della ragione) e, in base a questi due basilari concetti, la sentenza risulta di questo tenore:

Ritenuto che i signori giurati hanno affermato che il 12 aprile 1926 in Condofuri, con colpi di rivoltella furono uccisi Attinà Girolamo e Caridi Saverio e che autore del fatto fu l’imputato Pizzi Antonio il quale agì volontariamente e col fine di uccidere, ma in stato di infermità di mente parziale. Dal verdetto si trae l’omicidio volontario continuato, punibile con pena che va dagli anni ventuno a trenta, ma essendo stato concesso il vizio parziale di mente, la pena va da 3 a 10 anni e il Presidente crede di applicare anni 10 di reclusione per le modalità del fatto, giudicato anche dai giurati non meritevole di attenuanti generiche. Quasi a voler sottolineare un distinguo tra la sua posizione e quella dei giurati. Ovviamente alla pena detentiva vanno aggiunte le pene accessorie, le spese e i danni.

Il 21 febbraio 1929 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Antonio Pizzi e la pena è definitiva.[1]

[1] ASRC, Corte d’Assise di Reggio Calabria.