MEGLIO LA GALERA CHE IL DISONORE

Sono circa le 9,30 del 24 maggio 1926. Il settantaduenne possidente Giuseppe Nicolò sta percorrendo Via Candelora nell’abitato di Bova Superiore per andare in un suo fondo agricolo e si meraviglia del fatto che tanto la strada che le vie adiacenti siano deserte; poi la sua attenzione viene catturata da qualcosa che sta accadendo sulla porta della casa di Giacomo Scordo, qualcosa di orrendo: tra lo spazio che resta tra la porta di accesso e una scala della casa, disteso per terra a faccia in giù c’è Antonino Maesano, diciannovenne apprendista calzolaio, e su di lui, con una scure alzata sulla testa, c’è Isabella Borrello, ventitreenne moglie del padrone di casa. È un attimo e la grossa scure si abbatte di taglio sulla nuca dell’uomo, aprendogli il cranio in due. Impressionato dalla terribile scena e dal sangue misto a materia cerebrale che schizza dappertutto, Nicolò urla alla donna:

Cosa hai fatto!

Voi non sapete cosa costui mi ha fatto! – gli risponde Isabella mentre, pigliandosi il suo figlioletto fra le braccia, risale le scale di casa a tutta velocità.

Nel frattempo, richiamata dalle grida di Nicolò che sta correndo via inorridito, accorre gente e qualcuno va a chiamare i Carabinieri.

Il Brigadiere Armando Zappetti arriva dopo pochi minuti e inizia le indagini, descrivendo la scena del crimine, poi sale nell’unica stanza sita al primo piano della casetta e trova Isabella Borrello col figlio in braccio e la scure, affilatissima, ai suoi piedi. La dichiara in arresto e la porta in caserma, non prima però di avere affidato il bambino alla nonna materna.

I tempi delle indagini si allungano di qualche ora perché per interrogare la donna bisogna aspettare che arrivino il Commissario di P.S. Luigi Palmisano ed il Maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Napoletano.

Da oltre un mese Maesano, che abita nella casa attigua alla mia, cercava attentare al mio onore. Incominciò dapprima con sorrisi e poscia mi circuì di una corte assidua, dicendomi anche delle proposte che io rifiutai sdegnosamente ed al mio reciso diniego mi avvertì che, non volendo io acconsentire alle sue voglie in paese, mi sarebbe venuto a trovare in campagna. Gli risposi di lasciarmi in pace, diversamente con la scure gli avrei spaccato la testa. Lui rispose che non gli interessava, che a qualunque costo dovevo finire col cedere alle sue voglie, diversamente mi avrebbe avvelenato il bambino. Circa venti giorni fa, mentre tornavo a casa dalla campagna, mi vidi seguita da lui che camminava a passo svelto, come per raggiungermi. Conoscendo le sue intenzioni mi fermai, sapendo che a poca distanza da me si trovava Francesco Barbarello, dal quale speravo avere protezione. Maesano, non appena mi raggiunse, tenendo in mano un coltello, m’invitava a proseguire con lui e non attendere compagnia, ma Barbarello arrivò e così proseguimmo tutti e tre insieme. Successivamente, mentre mi recavo in campagna, Maesano m’incontrò e m’ingiunse di tornare indietro e di andare a casa sua perché era solo. Le sue ingiunzioni per farmi tornare indietro furono udite da Domenico Velonà, che si trovava a transitare, e mi chiese che volesse Maesano e disse che sembrava uno scemo. Precedentemente avevo avvisato tanto la madre che il canonico don Pasquale Natoli del contegno di Maesano. Don Giuseppe lo schiaffeggiò, ingiungendogli di non più molestarmi e mi assicurò di stare tranquilla perché il giovane non si sarebbe più azzardato ad insultarmi… e comunque, meglio la galera del disonore!

– Raccontatemi come sono andate le cose la mattina del ventiquattro maggio.

Essendosi mio marito recato all’abbeveratoio pubblico con l’asina, Maesano, che tutto aveva osservato perché abita accanto alla mia casa, si avvicinò alla mia porta e dal di fuori incominciò ad invitarmi ad andare a casa sua perché in quel momento era solo. La voce di Maesano era agitatissima e vedendo che io, al suo invito, non rispondevo, con voce più concitata ripeteva l’invito dandomi della puttana. Io tacevo e, rodendomi per lo scandalo che Maesano stava per procurarmi, non potendo sfogare né chiamare aiuto, mi fermai nel mio dolore, quando lui infilò la porta di casa mia e lo vidi che aveva saliti quattro o cinque gradini della scala di legno che mena al vano in cui mi trovavo. Ho visto la minaccia al mio disonore e, afferrata la scure, lo colpii con essa alla testa. Subito ripiegò su sé stesso cadendo nello spazio tra i piedi della scala e la porta. Fuori di me discesi la scala e gli assestai un altro colpo alla testa

– Avreste potuto e dovuto raccontare queste persecuzioni a vostro marito, perché non lo avete fatto?

Ho taciuto perché ero certa che mio marito avrebbe preso subito una decisione che lo avrebbe condotto in galera… speravo sempre che Maesano, pel mio contegno onesto, si sarebbe ravveduto e mi avesse lasciato in pace.

Interrogati, Barbarello e il canonico Natoli confermano sostanzialmente la versione di Isabella. Il canonico, anzi, aggiunge qualche particolare interessante:

Circa tre giorni dopo avere rimproverato Antonino Maesano, venne in casa mia la madre piangendomi e dicendomi che il figlio si era recato presso la fontana Cristì, ove la Borrello erasi portata per abbeverare l’asino, allo scopo di bastonarla. Dispiaciuto di ciò chiamai Antonino e lui, prevedendo il mio rimprovero per la sua disobbedienza, non voleva venire. Allora lo feci accompagnare dal suo padrone, il calzolaio Francesco Marino, ed alla presenza di costui e della madre gli feci intendere il passo falso che menava ed a quali guai poteva andare incontro se il marito di Isabella fosse venuto a sapere che voleva bastonare la moglie. Fu in questa occasione che lo schiaffeggiai, trattenuto dal padrone, poi se la diede a gambe. Per questa scenata, Isabella, che tutto aveva inteso abitando vicino a me, nell’uscire io in strada mi si avvicinò dicendomi: “Oh! Signor compare, cosa avete fatto, non occorreva tanto perché sono dei ragazzi e bisogna compatirli!”. Il giorno dopo si presentò a me la madre di Isabella lamentandosi che Antonino molestava la figlia facendole proposte dissoneste, aggiungendo che se ciò fosse venuto a conoscenza dei suoi figli, la cosa avrebbe potuto avere conseguenze fatali, stante che la di lei famiglia è stata sempre onoratissima e io la rassicurai.

La madre di Antonino Maesano smentisce la ricostruzione dei fatti fornita da isabella e, nel querelarla, offre una versione alquanto diversa:

Sono vicina di casa di Isabella Borrello e la mia famiglia e la sua erano in ottimi rapporti di amicizia. Isabella veniva spesso a casa mia e le mie figlie ed io stessa andavamo a casa sua. Il suo bambino era spesso tenuto dalle mie figlie ed il povero mio figlio spesso gli regalava delle caramelle, offrendone anche alla madre. Ma nel febbraio ultimo costei cominciò a lamentarsi che mio figlio voleva possederla e fu la stessa Isabella che mi confidò che mio figlio le aveva fatto la proposta di unirsi una sola volta con essa, promettendole che se in seguito di tempo suo marito venisse a mancare, l’avrebbe sposata. Per tale fatto io rimproverai mio figlio, ma egli mi negò tale circostanza, dimostrando l’intenzione di voler dare due schiaffi a Isabella, che si lamentò meco anche che mio figlio la seguiva in campagna e fuori del paese. Contestato a mio figlio tale affermazione, ancora una volta negò, ammettendo che se qualche volta si accompagnò con essa fu per puro caso. L’amicizia, come dissi, tra la mia famiglia e Isabella era così intima, che spesso costei invitava mio figlio a mangiare a casa sua, specialmente quando io e le mie figlie ci trovavamo fuori casa e circa un anno fa Isabella regalò a mio figlio una volta un paio di calzetti, che fece tessera a mia figlia Caterina, ed un’altra volta un fazzolettino di seta… se volete sono in grado di esibirli. Di quanto Isabella si lamentava fu informato il canonico Natoli, cui dispiacquero le lagnanze, chiamò mio figlio e, rimproverandolo, gli diede anche due schiaffi ed io, per evitare qualsiasi inconveniente, mandai mio figlio a Bova Marina a perfezionarsi nell’arte di calzolaio, come pure avvertii Isabella a non venire in casa mia perché seppi che sparlava di mio figlio e delle mie figlie. Verso la metà di maggio, il canonico Natoli domandò a Isabella se mio figlio l’avesse molestata più e lei gli rispose che dal giorno degli schiaffi non si permise più di importunarla o di dirle parole scorrette.

Isabella viene interrogata per rispondere a quanto le addebita la madre di Antonino Maesano e dice:

Affermo che tutto quanto si vuol mettere in essere dalla madre e dalle sorelle di Maesano è deplorevolmente tendenzioso e costituisce una orditura per svalutare quella mia onorabilità che fui costretta a difendere e per arrecarmi danno dinanzi la giustizia. Non nego che tra la mia famiglia e la loro corsero sempre ottimi rapporti, ma è falso che invitassi Maesano a desinare in casa mia. È ugualmente falso che abbia donato a Maesano un paio di calze e un fazzolettino di seta. Vengano a sostenermi tali menzogne in confronto! È specialmente falso ciò che asserisce la teste Caterina Pavone, cioè che la mattina dell’omicidio io mi sia affacciata alla finestra ed abbia fatto cenno a qualcuno con la mano. E non è vero che io abbia parlato contro le sorelle di Maesano e contro di lui. Ripeto, i rapporti furono tra le due famiglie sempre cordiali!

– E allora come spiegate che Maesano, secondo la madre, voleva bastonarvi?

Sapevo che voleva bastonarmi, ma a causa delle mie ripulse e non perché avessi parlato contro di lui e delle sorelle!

Isabella è molto decisa, precisa e coerente, ma bisogna cercare di stabilire se davvero fece dei regali ad Antonino Maesano perché, se risultasse vero, significherebbe che lo avrebbe in qualche modo “invitato” a farle la corte. Per tentare di arrivare ad una soluzione, Isabella e Caterina Maesano vengono messe a confronto:

Caterina Maesano: Vi sostengo che a mio fratello avete donato un paio di calzetti ed un fazzoletto di seta – dice consegnando i presunti regali al Magistrato.

Isabella Borrello: Non ho mai avuto fazzoletti di cotesta specie e non ne ho mai regalato ad alcuno. Voi potete dire ciò che vi piace allo scopo di discreditarmi. A vostro fratello io non concessi altro che la mia amicizia, come la concessi a voi, nei limiti dell’onestà e della serietà, e quando mi accorsi delle sue losche intenzioni, prudentemente mi ritrassi.

Non si è concluso niente, ma la risposta di Isabella è, come le altre, netta, logica e coerente con tutto ciò che sostiene dall’inizio di questa brutta storia.

Le cose però potrebbero ingarbugliarsi perché i Carabinieri scoprono che da una parte e dall’altra ci sono tentativi di procurarsi testimoni di favore, però quelli ritenuti credibili, compresa la madre della vittima che si fa sfuggire un apprezzamento per la fedeltà dimostrata verso il marito, affermano che Isabella è una donna seria e che ha davvero ucciso per tutelare il suo onore. Ma, onore o non onore, c’è un morto ammazzato e così viene chiesto il rinvio a giudizio dell’imputata con l’accusa di omicidio volontario, mentre la difesa invoca il riconoscimento dello stato di legittima difesa. Il 22 marzo 1927 la Sezione d’Accusa di Messina rigetta la richiesta della difesa e accoglie quella della Procura con questa motivazione: è certo che la Borrello non può invocare la diminuente della legittima difesa, essendo sufficiente all’uopo considerare che essa agì in un’ora del giorno ed in un luogo abitato, ove sarebbe riuscito facile sottrarsi alla violenza, del resto semplicemente temuta, e che essa inferse un secondo colpo, pure quello mortale, allorché Maesano era già stramazzato a terra sulla soglia della porta ed essa avrebbe avuto certamente tutto l’agio di allontanarsi. La volontà omicida, oltre che dichiarata dalla stessa imputata, si manifesta obiettivamente dalla natura dell’arma adoperata, dalla direzione e reiterazione dei colpi.

La discussione della causa viene fissata, dopo un paio di rinvii, per il 23 novembre 1927 e tutto si svolge molto rapidamente. Per la Corte sussistono le ragioni della difesa e Isabella Borrello viene assolta e immediatamente scarcerata.[1]

[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.