I GUARDIANI DI COCOMERI

Sono le tre di notte del 14 agosto 1946, quando i Carabinieri della stazione di Mesoraca vengono svegliati da incessanti colpi alla porta. È un giovanotto senza un braccio, visibilmente agitato che, con voce concitata, farfuglia:

– È morto… è morto…

– Chi? Come?

– È morto…

Il piantone capisce che non caverà un ragno dal buco se il giovanotto non si calmerà, quindi lo fa entrare, lo fa sedere, gli dà dell’acqua da bere e lo lascia tranquillo per un po’, il tempo di andare a svegliare il Maresciallo e di lasciare a lui l’incombenza di farlo parlare, cosa che riesce subito:

– Mi chiamo Argello Francesco, ho diciannove anni e faccio il pastore. Verso le 23,00 di ieri mi trovavo con il mio fratellastro Carmine Martino in contrada Diporta, incaricati di guardare i cocomeri. Nel prendere il fucile appeso ad un palo del pagliaio ove dormivamo entrambi, sono partiti accidentalmente due colpi, che hanno colpito un albero ad una quindicina di metri di distanza e, deviando, hanno colpito gravemente Carmine. Senza essermi accertato se fosse morto perché l’esplosione era avvenuta a circa quindici metri di distanza ed anche a causa dello spavento, ho buttato l’arma e sono venuto qui per informarvi

Il Maresciallo è perplesso, delle due l’una: o il diciannovenne Francesco è ancora molto scosso da ciò che è avvenuto e non racconta le cose in modo coerente e credibile, o sta mentendo. È il caso di partire subito e con le prime luci dell’alba fare un sopralluogo.

Accertate la situazione dei luoghi e la natura delle lesioni in persona del Martino Carmine, il Maresciallo dice a Francesco:

– È inverosimile il tuo racconto, devi dire la verità!

– Si, è vero, l’ho ammazzato… – risponde subito abbassando il capo.

– Torniamo in caserma così mi racconti come sono andate le cose.

Dopo qualche ora Francesco comincia il suo racconto:

– Eravamo nel pagliaio, Carmine mi disse che mi aveva trovato un posto di guardiano di porci presso l’azienda agricola del Commendatore Verga. Io non gradivo tale impiego, abbiamo cominciato a litigare e siamo passati dalle parole ai fatti. Carmine mi prese a schiaffi e colpito con un pezzo di legno, poi andò a dormire. Allora io, allo scopo di vendicarmi, presi il fucile che era appeso ad un legno del pagliaio e gli esplosi due colpi contro mentre dormiva sulle balle di paglia… forse ero ad un paio di metri da lui… poi sono venuto da voi

Omicidio volontario aggravato dai futili motivi, questo è il reato per il quale il Maresciallo lo dichiara in arresto e ne dà comunicazione al Pretore competente.

Però quando il Magistrato lo interroga, Francesco ritratta tutto e ritorna alla prima versione dei fatti: è stata una tragica fatalità, poi aggiunge:

– Ho detto di averlo ucciso mentre dormiva perché sono stato indotto con costrizioni fisiche e morali, minacce e percosse compiute dai Carabinieri.

Ma, a prescindere dalle presunte violenze messe in atto dai Carabinieri, per Francesco Argello c’è da superare il problema dei rilievi tecnici effettuati sui luoghi e sul cadavere. Per esempio, la vasta lesione sulla testa con distruzione dei tessuti dei nervi, dell’occhio e con spappolamento della materia cerebrale, fu sicuramente prodotta dai colpi di fucile, caricato a pallini, esplosi a brevissima distanza, non superiore a due metri; nei pressi del pagliaio non esistono alberi, per cui è da escludere che l’esplosione accidentale dell’arma sia avvenuta alla distanza di circa 15 metri, mentre veniva presa dall’albero.

A parte questi rilievi, agli inquirenti appare strano il fatto che Francesco Argello, secondo la dichiarazione fatta ai Carabinieri, dopo l’esplosione dei colpi non si sia preoccupato di accertare se Carmine Martino fosse morto, né di apprestargli aiuto ed assistenza e si sia affrettato a presentarsi ai Carabinieri di Mesoraca. Questo strano comportamento, vero o falso che sia, conferma che egli aveva volontariamente esploso i colpi contro il fratellastro dopo il litigio avvenuto fra loro.

Continuando le indagini, i Carabinieri scoprono che i rapporti tra i fratellastri non erano affatto buoni, anzi Francesco provava rancore perché, pur essendo stato cresciuto in casa Martino come un figlio, era mal tollerato in quanto era violento e dedito all’ozio, anche perché mutilato di un braccio, e stava per essere allontanato dalla famiglia, tanto da dovere, proprio il giorno successivo al delitto, passare al servizio dell’azienda agricola Verga come guardiano di porci, il motivo della lite del 13 agosto.

Per gli inquirenti può bastare così per chiudere l’istruttoria e chiedere il rinvio a giudizio dell’imputato.

Il 28 luglio 1947 la Sezione Istruttoria della Corte d’Appello di Catanzaro accoglie la richiesta e rinvia Francesco Argello al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi e la discussione della causa viene fissata per il 5 febbraio 1949.

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte, per sgombrare ogni dubbio, osserva che l’indagine essenziale ed assorbente, da compiere in via preliminare, consiste nel decidere se l’omicidio sia volontario, per avere l’Argello voluto cagionare la morte del Martino e se abbia volontariamente esploso i due colpi di fucile, o se l’omicidio sia colposo, per essere stata l’esplosione accidentale. Giova in proposito rilevare che Argello, pur avendo in un primo nella caserma riferito che la morte era dipesa da pura e semplice disgrazia, in tempo successivo, dopo gli accertamenti compiuti dai Carabinieri sul luogo del delitto, finì per rendere una precisa, circostanziata e spontanea confessione. Vero è che in prosieguo l’imputato, davanti al Magistrato, ha revocato la confessione, riconfermando che l’esplosione del fucile era avvenuta accidentalmente, spiegando che la confessione gli era stata estorta dai Carabinieri con percosse e minacce. Ma la Corte, per manifeste esigenze di logica e di giustizia, non sente di potere prestare fede alla nuova, tardiva dichiarazione dell’imputato, allo scopo di sfuggire alle gravi sanzioni comminate dalla legge per il commesso delitto. La confessione fu spontanea, come hanno giurato in udienza il Brigadiere Mario Cosi ed il Carabiniere Vincenzo Verduci. Nessun motivo avrebbero avuto i Carabinieri per costringere un innocente a dichiararsi colpevole di un delitto non commesso ed inoltre è risaputo che gli imputati, dopo lunga riflessione in carcere, sogliono, nel ritrattare la confessione, attribuire tutto, maliziosamente, alla violenza dei Carabinieri.

Ma, a prescindere da queste considerazioni logiche, per la Corte ci sono salde prove che attestano la più genuina spontaneità e credibilità della confessione. Prime tra tutte i minuziosi particolari rivelati, che i Carabinieri non avrebbero potuto “suggerirgli”, e la vasta lesione prodotta sulla testa della vittima, sicuramente dovuta ai colpi di fucile sparati da una distanza non superiore ai due metri e non da quindici metri come sostiene l’imputato.

E poi c’è il rancore che Francesco nutriva verso il fratellastro e la sua famiglia adottiva in generale che, secondo la Corte, fornisce il movente dell’orrendo delitto.

Detto ciò, la Corte afferma che in base alla confessione, saldamente controllata da numerose prove e presunzioni, è da ritenere Argello Francesco colpevole di omicidio volontario, determinato dal rancore proveniente dal fatto che egli era stato allontanato dalla famiglia e destinato a prestare altro servizio.

Ma c’è ancora in ballo l’aggravante dei futili motivi da esaminare molto scrupolosamente perché, se accertata, porterebbe l’imputato dritto all’ergastolo.

Essendo stato il delitto determinato dal risentimento sorto nell’animo di Francesco Argello per l’allontanamento dalla famiglia in cui era cresciuto, per essergli stato trovato il nuovo posto di guardiano di porci, e per essere venuto in violento conflitto con Carmine Martino nella sera del delitto, in conformità della spontanea confessione si ritiene giusto eliminare l’aggravante dei futili motivi. Un ragionamento logico, coerente e ineccepibile.

In quanto alla pena, conclude la Corte, si ritiene giusto infliggere ad Argello Francesco la reclusione per anni 24, con tutte le conseguenze di legge, da ridurre ad anni 18 in virtù della diminuente delle attenuanti generiche, da concedere in vista dei buoni precedenti e della giovane età dell’imputato.

È il 5 febbraio 1949 e negli USA viene pubblicato il Rapporto Hoffman con il quale il governo statunitense critica l’Italia per l’utilizzo dei fondi del Piano Marshall. L’accusa, in sostanza, è che il Governo Fanfani ha destinato la più grossa fetta dei finanziamenti, circa 15 miliardi di lire, all’edilizia popolare, invece di tendere ad aumentare il potere di acquisto delle famiglie.

La Corte d’Appello di Catanzaro, il 17 aprile 1950, dichiara condonati anni 3 della pena.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.