L’UOMO DALLE QUATTRO DONNE

Nel 1930 a Buonvicino gira già da qualche anno la voce che Domenica Magurno, benestante quarantasettenne, sia l’amante di suo cognato Domenico Greco, che l’avrebbe deflorata all’età di quindici anni, e così, spinta dalla necessità di sistemare una situazione scossa ed equivoca, decide che è conveniente trovare qualcuno che la sposi per mettere tutto a tacere. I suoi occhi si posano su un uomo molto più giovane, il diciottenne Salvatore Amoroso, che ha, a sua volta, una necessità: uscire dalla sua condizione di squattrinato quasi adolescente e quindi non ha alcuna difficoltà ad accettare il matrimonio di facciata. Come era prevedibile, un matrimonio del genere non si svolge sotto i migliori auspici: dissidi, litigi e, quindi, la separazione di fatto dei coniugi. Salvatore di tanto in tanto va a trovare Domenica, ma tra loro regna sovrana l’indifferenza. In verità, a voler essere precisi, i due vanno oltre l’indifferenza e i loro rapporti si fanno addirittura aspri. Poco importa, Domenica è formalmente sposata e adesso può liberamente riversare tutte le sue tenerezze sulla sorella Filomena e su suo cognato Domenico al quale, il primo novembre 1939 rilascia il mandato ad amministrare i suoi beni. Passano alcuni mesi e Domenica, ormai cinquantasettenne, l’11 agosto 1940 verso sera si sente male: dolori allo stomaco, al ventre, vomito e diarrea non l’abbandonano per tutta la notte. Il mattino successivo sembra sentirsi meglio e racconta le sue sofferenze ad una vicina di casa, ma subito dopo ricompaiono tutti i sintomi e questa volta durano per giorni, facendole decidere che è il caso di consultare il medico del paese, dottor Giovanni Cauteruccio, e si fa portare in casa della sorella e del cognato. Domenica teme di poter morire, così, il 18 agosto, fa testamento a favore di sua sorella Filomena, nominandola sua erede universale. Quattro giorni dopo, il 22, fa un altro testamento pubblico per modificare il precedente e questa volta a beneficiare delle sue sostanze mobiliari è il cognato Domenico Greco.

Non si sa come, ma in paese comincia a girare insistentemente la voce che Domenica è stata avvelenata e questa voce arriva alle orecchie dei Carabinieri i quali, il 23 agosto, vanno ad interrogarla per capire quanto può esserci di vero:

– La sera dell’undici agosto – racconta cercando di resistere alle coliche – mio marito mi somministrò una tazza di caffè con una polvere bianca. Al sapore disgustoso, smisi di bere ma poi, per le insistenze ed assicurazioni di mio marito, vuotai la tazza. Dopo poco si manifestarono i dolori allo stomaco e al ventre, con vomito e diarrea.

È il caso di approfondire e il Maresciallo Placanica invia un verbale al Pretore di Diamante che, il 25 agosto, va anche lui a sentire il racconto, uguale uguale, di Domenica. Il giorno dopo, la tragedia: Domenica muore.

Siccome i sospetti sono ritenuti fondati, Salvatore Amoroso viene arrestato con l’accusa di omicidio premeditato:

– Sono innocente! – urla – il pomeriggio dell’undici agosto non sono stato a casa di mia moglie e quindi non ho potuto somministrarle il caffè! Quel pomeriggio, e fino a mezzanotte, sono stato in campagna ad innaffiare un mio fondo!

Impossibile credergli, non ha testimoni e la moglie lo ha accusato in punto di morte, momento, si sa, in cui non si mente. Comunque non è che si può mandare un uomo all’ergastolo o, peggio, a morte senza riscontri oggettivi, così viene disposta una perizia tossicologica sulle viscere della defunta, affidata al professor Pietro Verga, ordinario di anatomia patologica dell’Università di Napoli, ed al dottor Giuseppe Tommasuoli, medico chirurgo di Napoli. I risultati della perizia arrivano sul tavolo del Giudice Istruttore tre mesi dopo e il giudizio non lascia scampo: “Siamo d’avviso che la Magurno sia deceduta per avvelenamento da sublimato”.

A questo punto non resterebbe che chiedere ed ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato e fissare la data del dibattimento. Ma sorge un problema: le altre sorelle di Domenica e il marito (seppure accusato dell’omicidio), diseredati, che senza i testamenti pubblicati qualche giorno prima della morte di Domenica avrebbero partecipato alla divisione dell’asse ereditario, fanno affiorare l’accusa che a somministrare il veleno durante una cena a casa Greco, ma nel vino e non nel caffè, sarebbe stato Domenico Greco, il cognato ereditiere! Ovviamente un conto è spargere una voce, peraltro condivisa da tutti i paesani, un altro è portare le prove davanti agli inquirenti. Questa situazione viene sfruttata dalla difesa di Salvatore Amoroso che prospetta la tesi secondo la quale Greco, avvelenatore di Domenica, aveva suggestionato costei ad accusare il marito per un duplice motivo: primo per stornare le prove a suo carico e secondo per ottenere, con la condanna di Amoroso, la dichiarazione di indegnità del marito a succedere alla moglie, onde l’eredità, per intero, sarebbe passata a lui, compresa, cioè, la quota legittima spettante al coniuge superstite. E su questo impianta una causa per calunnia contro Domenico Greco.

La mossa riesce e, ad istruzione conclusa, il Procuratore Generale, il 7 luglio 1941, chiede al Giudice Istruttore di dichiarare il non luogo a procedere contro Salvatore Amoroso per non aver commesso il fatto ascrittogli e di incriminare Domenico Greco per il duplice reato di veneficio in persona di Domenica Magurno e di calunnia aggravata in danno di Salvatore Amoroso. Per entrambi i reati chiede anche l’aggravante dei motivi abietti, di essersi voluto disfare di una incomoda amante dopo di averla depredata del pingue patrimonio e di avere attribuito il delitto al marito innocente per sottrarsi alla giustizia punitrice. Il 30 luglio successivo la richiesta è accolta e Domenico Greco viene arrestato e formalmente interrogato in attesa del giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Come si difende? Con gli stessi argomenti usati dall’ex sospettato numero uno:

– Sono innocente! Mi accusano le sorelle e gli altri congiunti di mia cognata Domenica, delusi nell’aspettativa di concorrere alla sua eredità per i testamenti che costei aveva fatto in favore mio e di mia moglie e pervasi dalla ossessione di ottenere, attraverso la mia condanna, la dichiarazione di inefficacia del testamento per indegnità e, più particolarmente, per evitare le incertezze di una processura penale avrei dovuto trasferire in loro favore i beni costituenti l’eredità di Domenica. In questa impresa è sodale l’ex imputato Salvatore Amoroso per le stesse losche finalità delle sorelle della Magurno ed anche per consolidare le ragioni della sua assoluzione e, per rifarsi dei danni conseguenti alla subita processura, Amoroso aveva inscenato l’accusa di calunnia ai miei danni.

Ma ciò che è valso a scagionare Amoroso non serve a Domenico Greco che, nonostante una corposa memoria difensiva volta a smontare le accuse e corredata da una perizia di parte che confuta la perizia tossicologica della Procura, il 3 febbraio 1942 viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza e la causa è messa a ruolo per il 24 luglio successivo.

La Corte si muove su un terreno pieno di insidie ma, letti gli atti e sentiti i testimoni, trova la strada per non cadere in errore e mettere a rischio la vita di un uomo che potrebbe essere stato trascinato nel processo dalle apparenze dei fatti e osserva: La causa va esaminata sotto un duplice profilo: della prova generica, la perizia; della prova specifica, le deposizioni testimoniali, le precisazioni della causale. Certamente sarà decisiva l’attenta e scrupolosa lettura critica degli atti che sembrano contenere numerose contraddizioni, omissioni, inesattezze, a partire dalla perizia tossicologica della Procura: Conclusero i periti: “Siamo d’avviso che la Magurno sia deceduta per avvelenamento da sublimato”. I difensori dell’imputato insorsero contro la formula usata dai periti per esprimere il loro giudizio perché avrebbero desiderato una formula più concreta, più assoluta di giudizio, recisa sì da fugare ogni sospetto in chi legge che la relazione peritale non sia l’espressione del profondo convincimento dei redattori sulla morte per avvelenamento di Domenica Magurno. La questione, essenzialmente lessicale, che i difensori di Greco hanno sollevato circa l’effettivo convincimento dei periti sull’avvelenamento, fa porre alla Corte degli interrogativi di tutt’altro carattere: i dati clinici e anatomici riscontrati durante l’autopsia sono stati messi in rapporto con i dati tossicologici della perizia? I risultati dell’accurato confronto fatto dalla Corte lascia esterrefatti: al dato tossicologico risultò presenza di sublimato, dissero i periti. Ma alla presenza del sublimato ingerito dovevano, necessariamente, corrispondere dati clinici precisi fra cui, dicono i periti, l’alterazione renale. I periti presero visione delle analisi delle urine che affermava: “nulla a carico del rene”. I periti, a questa precisa risultanza, fanno seguire l’interrogativo “è stato preso in considerazione il sedimento?”, che esprime il dubbio, in termini chiari e precisi, dei periti sul dato clinico, ma i medici che effettuarono l’autopsia affermarono: “stomaco, intestini, rene normali”. I tossicologi, affermata la presenza di sublimato nel campione esaminato e sapendo che all’avvelenamento riscontrato avrebbe dovuto, necessariamente, conseguire l’alterazione dello stomaco e dell’intestino, cosa non segnalata nell’autopsia, si pongono un altro interrogativo: “aprirono, esaminarono l’interno dello stomaco e degli intestini i periti settori?”. È evidente che il contrasto tra i dati tossicologici e quelli clinici abbia reso dubbiosi i periti, ma nonostante ciò essi esprimono, confortati dall’accusa mossa da Domenica Magurno contro suo marito, l’avviso che questa sia morta per avvelenamento. Ma tutto quanto ha finora segnalato la Corte, per sua stessa ammissione, non è ancora sostanza. La sostanza attiene alla imprecisione del risultato dell’esame chimico ed all’errore del giudizio espresso dai periti sulla causa della morte, siano stati o no, i periti, perplessi nella loro formulazione. I periti conclusero che vi era stato avvelenamento per sublimato. Discussero delle dosi letali di questo veleno e ritennero tale la dose ingerita dalla vittima. Ma è precisata nella perizia chimica la dose di sublimato, cioè di dicloruro di mercurio, che essi rinvennero nei visceri repertati? Neppure per sogno!

E qui la Corte scoperchia un altro pozzo nero pieno di negligenze, omissioni, imprecisioni inimmaginabili. Cerchiamo di andare con ordine. Nei quesiti posti ai periti c’era, tra gli altri, quello di stabilire la quantità di dicloruro di mercurio presente nei campioni. Ebbene, dopo aver prelevato un campione medio degli organi, dopo la necessaria preparazione secondo uno speciale metodo, i periti riscontrarono 0,35 mg di mercurio allo stato di joduro mercurico, lo rapportarono alla massa totale degli organi repertati e dissero che il mercurio, allo stato di joduro mercurico, in essa contenuto corrispondeva a 2,81 mg. Procedettero alla trasformazione di tale quantitativo di joduro mercurico in mercurio metallico ed affermarono che 2,81 mg corrispondono a 1,24 mg di mercurio metallico. Sicché conclusero: avvelenamento per sublimato. Ma premeva conoscere il quantitativo di sublimato dicloruro di mercurio, dato che i periti conclusero che l’avvelenamento era avvenuto per sublimato e non per mercurio metallico. Quindi nella perizia manca la conversione da mercurio metallico a dicloruro di mercurio per stabilire se la quantità di quest’ultimo elemento costituiva una dose mortale di veleno. Poi c’è la questione della conservazione dei reperti da analizzare. Nei trattati di medicina legale, dice la Corte, è prescritto che per la conservazione dei visceri e di altre materie da sottoporre alle ricerche cliniche, dovranno adoperarsi vasi di vetro nuovi, lavati con una soluzione di acido cloridrico e poi con acqua distillata, ben chiusi con tappo a smeriglio. La ceralacca non va adoperata perché contiene mercurio. Attraverso l’esame di verbali diversi tra loro, la Corte ricostruisce come furono, invece, conservati i reperti: riposero i visceri in quattro recipienti di vetro avvolti in carta bianca, su cui sono applicati altri pezzi di carta contenenti delle legende. L’involucro di carta è tenuto fermo sul boccaccio con una legatura di spago e portanti un timbro di ceralacca. Tutto il contrario di quanto prescritto, ma non è tutto: i quattro boccacci, compressi tra paglia, erano contenuti in una comune cassa di imballaggio, il cui coperchio è costituito da due tavole che non la chiudono completamente. Un ultimo boccaccio intermedio, in cui sono contenuti i polmoni ed il cuore, appare con l’involucro di carta lacerato e col coperchio spostato. Dall’apertura è fuoriuscito del liquido che si è versato lungo le pareti del boccaccio in parola e che ha anche macchiato l’involucro del boccaccio grande, quello che contiene lo stomaco. Non basta, continua la Corte, il boccaccio aperto viene nuovamente chiuso con l’apposizione, attorno al coperchio, di comune mastice da vetraio e viene avvolto in nuovo involucro di carta bianca ed assicurato con una funicella.

Sui reperti trattati in questo modo si svolsero le indagini chimico-tossicologiche che dovevano rivelare ed accertare se Domenica Magurno aveva ingerito sublimato e se era morta per avvelenamento. Come hanno potuto, i periti, non rilevare il modo barbaro di custodia delle viscere? Come hanno fatto a non accorgersi che stavano effettuando delle analisi su campioni contaminati? È ovvio che alla Corte sorga un dubbio atroce: Domenica Magurno ha davvero ingerito sublimato? L’impressione è che la perizia tossicologica sia solo carta straccia, ma per la Corte è più di una impressione e scrive: i periti, nella conclusione, esposero il dubbio che il mercurio riscontrato potesse essere quello residuato da qualche pratica terapeutica, ma nessuno indagò al riguardo. Una contraddizione enorme se si pensi che poco più avanti dichiararono “Siamo d’avviso che la Magurno sia deceduta per avvelenamento da sublimato”. E se i periti hanno dubbi sul proprio lavoro e si contraddicono, la presenza del mercurio rinvenuto dai periti nei visceri può, dunque, spiegarsi, oltre che con l’ingestione per via orale, con il contatto dei visceri repertati con l’ambiente esterno e, più precisamente, con i suggelli di ceralacca, che contiene mercurio. Ma ciò che esclude categoricamente l’ingestione di sublimato, per la Corte, è il fatto che stomaco, intestini, reni bocca e lingua non presentavano alcuna lesione o alterazione né alla visita del dottor Cauteruccio, né al momento dell’autopsia e questo non può essere possibile perché il sublimato produce ulcerazioni lungo le vie che percorre.

Altre conferme, dirette e indirette, la Corte le cerca nelle deposizioni del Maresciallo Placanica e del dottor Cauteruccio, il primo a visitare Domenica.

Il Maresciallo dei Carabinieri di Diamante, che tanto a lungo indagò sull’accusa fatta prima ad Amoroso e poi a Greco, disse tante cose ma non portò alcun fatto, dice senza fronzoli la Corte, che non si fida.

Dalla deposizione del dottor Cauteruccio, invece, si scopre che la prima diagnosi fatta fu di gastroenterite acuta, di cui in quei giorni soffrivano molti abitanti di Buonvicino. Al racconto di Domenica sull’avvelenamento con una polvere bianca, le visitò bocca e gola senza riscontrare ulcerazioni e scartò l’ipotesi.

A proposito di scartare ipotesi: è illogico, secondo la Corte, pensare che Domenico Greco avesse potuto avere interesse ad avvelenare sua cognata prima che facesse testamento. Piuttosto si deve approfondire l’altro possibile movente, quello di volersi disfare dell’amante ormai avanti con gli anni, per godere dei favori di una cognata più giovane. Ma anche questo movente sembra non reggere perché viene accertato che il settantenne Domenico Greco conviveva pacificamente senza gelosie con la moglie e le due cognate Domenica e Cristina (secondo il Maresciallo Placanica anche con una quarta donna, della quale non si fa il nome. Nda), che godevano a turno gli amplessi del settantenne libertino. Tanto pacificamente che il Maresciallo, per mettere in evidenza questa lasciva tendenza di Domenico Greco all’amore adultero e peccaminoso riferì che nel paese di Buonvicino il Greco era conosciuto come “l’uomo dalle quattro donne”. Dunque inconciliabilità fra questa situazione espressa dall’accusa per dimostrare l’amoralità dell’imputato e la causale che avrebbe indotto Greco a sopprimere Domenica. E per quanto si sforzi, la Corte non trova altri possibili moventi.

È tempo di tirare le somme di un processo difficile:

I periti furono evidentemente soggiogati dal dato anamnestico: l’accusa di Domenica al marito; l’accolsero come verità evangelica, non la sottomisero a critica, non pensarono che fosse stravagante. Dovevano, con un minimo potere di critica, pensare che, dato il sapore sgradevole della bevanda somministratale, dato anche che Domenica aveva rilevato tale sgradevolezza, dovevano per lo meno sospettare che non l’avesse trangugiata, malgrado le assicurazioni del marito, che odiava. Avendo tutte le carte processuali a disposizione avrebbero potuto farlo, ma non fecero nulla, anzi fecero il contrario. Detto questo, si può tranquillamente concludere che Domenica Magurno, la sera dell’undici agosto non ingerì sublimato. Le sue sofferenze dovevano essere messe in rapporto ad una banale gastroenterite, così come diagnosticato dai dottori Cauteruccio e Vivona, che la visitarono e scartarono l’avvelenamento con la storiella della polvere bianca versata nel caffè.

Per tutto quanto emerso nel dibattimento, la Corte ritiene che nei confronti di Domenico Greco vada proclamata in modo pieno, senza tentennamenti e senza dubbi l’assoluzione con formula piena dall’accusa di veneficio.

Ma si sta discutendo anche della querela per calunnia aggravata, mossagli da Francesco Amoroso. Senza dubbio Greco si adoperò per rafforzare l’accusa contro Amoroso, ma vi è prova che ordì l’accusa contro costui? Nessuna. L’accusa promanò da Domenica Magurno. L’imputato deve essere assolto con formula piena anche per questo reato.

Adesso la Corte cerca di rispondere alla domanda che tutti si sono posti: perché Domenica accusò suo marito?

In realtà non ha e non può avere una risposta certa e scrive: bisognerebbe conoscere la situazione di Domenica per poter azzardare una risposta. Potrebbe essere stata un’allucinata od una malvagia. Supposizioni, fantasie. Niente può dirsi di certo, di positivo, di definitivo.[1]

È il 24 luglio 1942, da un giorno nel lager di Treblinka i nazisti hanno cominciato ad utilizzare il gas per sterminare i prigionieri e da due giorni è iniziata la deportazione di circa 265.000 ebrei dal ghetto di Varsavia al lager di Treblinka.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.