BERRÒ IL TUO SANGUE

Nel 1930 Angela Bevacqua decide di dividere la casa di sua proprietà, assegnandola solo ai figli maschi ed escludendo, quindi, sua figlia Teresa Arcidiacono, che la prende malissimo. La tensione che si viene a creare nei rapporti familiari coinvolge anche Giuseppe Porco, il marito di Teresa, e Rosina Alessio, la moglie di Agostino Arcidiacono, uno dei fratelli Di Teresa.

Agevolati dalla convivenza delle due famiglie nello stesso baraccone sito in contrada Mortaviva del Comune di Corigliano Calabro, i litigi, specie fra le due donne, sono frequenti, anche per un nonnulla.

Verso le otto di mattina del 25 gennaio 1931, Teresa e Rosina come al solito litigano scambiandosi ingiurie e minacce. Come al solito tutto finisce con l’intervento di qualche vicino di casa, anche se questa volta sarebbe potuta finire male perché Teresa aveva afferrato una scure e stava per colpire la cognata. Questa volta anche Agostino ha avuto paura e, contrariamente al solito, trascina via sua moglie e la porta con sé in campagna a piantare patate.

Nel pomeriggio, però, quando Giuseppe Porco torna da Corigliano e viene informato da Teresa dell’incidente della mattina, va nel vano del baraccone occupato da suo cognato Agostino, intento a riparare uno sgabello con una scure, e gli dice:

Io non ho intenzione di litigare, ma se sarà necessario avrò il coraggio di bere il tuo sangue!

A tali parole minacciose, Agostino si avvicina con la scure in mano e ne nasce un parapiglia tra le urla delle mogli e i colpi che volano da tutte le parti; come al solito i vicini accorrono immediatamente e trovano Giuseppe ferito al gomito destro da un colpo di scure e la giacca tagliata da un secondo colpo che, per fortuna, non ha prodotto conseguenze. Agostino, invece, sanguina per una ferita al viso. I pacieri prendono di peso Giuseppe e lo trascinano fuori, mentre sua moglie Teresa si para davanti al fratello cercando di trattenerlo e di impedirgli di continuare a colpire suo marito.

L’atteggiamento di Teresa irrita maggiormente il fratello il quale, invece di cercare di colpire il cognato, rivolge verso di lei la propria ira e la colpisce alla testa col cozzo della scure, facendola cadere per terra e, mentre Teresa, stordita, cerca di rialzarsi, la colpisce una seconda volta col taglio della scure sulla regione sacrale, producendole una profonda ferita.

In questi concitati momenti Giuseppe Porco, seppure impossibilitato a vedere ciò che sta accadendo a sua moglie, ha la sensazione che Agostino l’abbia colpita e prega disperatamente gli uomini che lo trattengono di lasciarlo per andare a vedere cosa sta accadendo, ma quelli invece lo allontanano ancora di più e a Giuseppe non resta che correre dai Carabinieri di Corigliano per denunciare che lui e sua moglie sono stati feriti a colpi di scure dal cognato.

Quando i Carabinieri arrivano sul posto per procedere alle opportune indagini, trovano Teresa distesa sul letto della propria abitazione, non ferita, ma morta. Nella stanza del baraccone c’è anche il figlioletto decenne di Teresa, che racconta ai militari di aver colpito involontariamente la nonna ad una mano con un colpo di scure, col quale avrebbe voluto colpire lo zio Agostino.

Bisogna arrestare Agostino Arcidiacono, ma non è possibile perché si è dato alla fuga. È  questione di qualche ora, la mattina successiva il ricercato si costituisce ai Carabinieri di Rossano e racconta:

Mio cognato prima mi ha provocato e poi mi ha ferito al viso con un coltello. Io mi misi a roteare la scure contro di lui e involontariamente colpii mia sorella che si era messa in mezzo

La sua versione dei fatti non convince per evidenti ragioni, ma Agostino la conferma anche davanti al Giudice Istruttore.

La prima smentita oggettiva arriva dall’autopsia che descrive le due ferite sul corpo di Teresa: una lacero-contusa alla regione sincipitale (la parte più alta del capo. Nda) tra il frontale e il parietale, della lunghezza di cinque centimetri circa, interessanti i tessuti molli fino all’osso; l’altra, da taglio, alla regione sacrale, lunga circa quindici centimetri e larga tre, con frattura delle vertebre sacrali e recisione del midollo spinale e dell’arteria iliaca interna destra. La gravità della seconda, mortale ferita, inferta mentre la vittima era a terra girata di spalle, dice che è impossibile che sia stata inferta per sbaglio, sia per la posizione stessa della vittima, sia perché, per provocare quei danni, sono state necessarie una forza ed una violenza fuori dal comune. Il secondo colpo, quindi, è stato inferto volontariamente con la chiara volontà di uccidere.

Ma deve essere interrogato anche Giuseppe Porco, in stato di libertà, che deve rispondere dell’accusa di aver ferito il cognato al viso, anche se dalla perizia sembra che il taglio possa esserselo prodotto involontariamente da solo Agostino mentre cercava di reiterare i colpi, non si capisce bene se contro il cognato o la sorella:

– Io non l’ho colpito, ero disarmato… – dice Giuseppe.

Completate le indagini, il 13 maggio 1931 Agostino Arcidiacono viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Rossano per rispondere di omicidio volontario aggravato nei confronti di sua sorella e di tentato omicidio nei confronti di suo cognato. Giuseppe Porco, a sua volta, viene prosciolto dalle accuse di lesioni personali per insufficienza di prove.

Il 12 luglio 1932 si tiene il dibattimento, durante il quale Agostino Arcidiacono ribadisce di avere colpito sua sorella per errore e conferma anche che reagì contro suo cognato, che lo aveva ferito al viso con un coltello.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che le risultanze del dibattimento dimostrano che la tragica vicenda si è svolta in due tempi distinti, per quanto prossimi e, si può dire, in continuazione l’uno all’altro. E spiega che in un primo momento, quando Giuseppe Porco entrò nella baracca e vide il cognato, gli rivolse parole di disprezzo, ma sembra altrettanto provato che Agostino non reagì. In udienza la dinamica dei fatti viene ricostruita con più precisione, rispetto a quanto fatto durante le indagini: Giuseppe Porco, che stava mangiando e affettava il pane, entrò nella stanza del cognato con il coltello in mano e cominciò ad agitarlo in modo minaccioso. Ed è da credersi all’Arcidiacono allorché afferma che Giuseppe Porco, apostrofandolo con male parole e con frasi di minaccia, lo ferì lievemente alla guancia con la punta del coltello.

Ma tutto ciò, se messo in relazione ai fatti precedenti, all’avversione che i coniugi Porco avevano dimostrato per i coniugi Arcidiacono, alla diatriba sorta fra le donne al mattino, alle parole offensive e minacciose pronunziate da Giuseppe Porco in presenza e contro il cognato, induce a pensare che l’imputato si vide in quel momento costretto a respingere da sé una violenza attuale ed ingiusta, che gli faceva ritenere di trovarsi in assai serio pericolo. È notevole la circostanza che al comportamento offensivo di Giuseppe Porco, Agostino Arcidiacono opponeva un’azione difensiva assai prudente. Difatti, pur avendo tra le mani la scure con la quale stava lavorando, si limitava a rotearla senza menare all’avversario colpi gravi e decisivi: egli avrebbe potuto subito metterlo fuori combattimento ed invece la sua azione si è ridotta a produrgli una lieve lesione ad un gomito e un taglio sugli abiti. Ricostruito così il primo tempo della tragedia, è ovvio che non si tratta di tentato omicidio, ma di legittima difesa e quindi per questo reato Agostino Arcidiacono va assolto.

Per il secondo tempo la musica cambia. L’attività dell’imputato, però, non si è limitata a ciò: Giuseppe Porco, di fronte all’atteggiamento risoluto di suo cognato, usciva dalla baracca, mentre alte si levavano le grida delle donne presenti al fatto e alle quali accorrevano i vicini che subito afferrarono Giuseppe Porco e cercarono di allontanarlo per evitare che la lite avesse avuto ulteriori e peggiori sviluppi, giacché egli voleva essere lasciato libero essendogli apparso di vedere il cognato colpire la moglie. È risultato che i vicini accorsi non sapevano del ferimento di Teresa e che di tale ferimento Giuseppe Porco non fece loro cenno che in forma dubitativa. Evidentemente, quindi, Teresa Arcidiacono veniva colpita dal fratello mentre Giuseppe cercava di fuggire uscendo dalla baracca. Ciò dimostra non attendibile la versione difensiva dell’imputato, appoggiata dalla dichiarazione della madre del medesimo, che Teresa sarebbe stata colpita accidentalmente.

Quando Agostino, dopo il cognato, si vide davanti la sorella, per le precedenti contese di natura economica, per le male parole usate verso di lui e sua moglie, per le minacce, questa gli apparve come un’avversaria violenta e pertinace e sfogò su di lei l’ira che si era accumulata nell’animo suo, dandole prima il colpo al capo e poi il colpo al dorso mentre era a terra o stava per rialzarsi. La reiterazione dei colpi, la direzione del colpo mortale, la violenza con il quale fu vibrato, la posizione colpita, dimostrano da una parte la precisa volontà di uccidere da parte dell’imputato, dall’altra la impossibilità che i due colpi siano stati inferti accidentalmente alla donna mentre questa cercava di mettere pace tra il fratello e il marito.

Detto ciò, la Corte riconosce che l’imputato agì in un impeto d’ira determinato da ingiusta provocazione, sia per il comportamento della sorella antecedente al fatto, sia per il comportamento del cognato e sia per l’atteggiamento offensivo, che non può essere mancato, da parte della sorella quando vide il marito alle prese con il fratello.

Per questo motivo la Corte ritiene Agostino Arcidiacono meritevole della concessione dell’attenuante della provocazione grave e scongiura il pericolo dell’ergastolo.

E siamo arrivati al momento di determinare l’entità della pena, che la Corte ritiene equo fissare in 24 anni di reclusione, dai quali vanno tolti i due terzi in virtù dell’attenuante della provocazione grave. Fatti i conti, la pena è fissata in anni 8 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.