‘A CAPU BUCHI BUCHI

Nel mese di giugno del 1944 i fratelli Corrado e Gustavo Veltri, agiati possidenti di Belmonte Calabro e persone energiche di indiscussa probità e correttezza, danno in soccida per un anno a Salvatore Abate e ad Eliodoro Osso la loro mandria di pecore. Dopo appena un paio di mesi, però, Osso recede dal contratto:

– Mi dispiace perché siete persone corrette, ma non voglio più avere rapporti con Abate

Così il gregge rimane affidato soltanto ad Abate il quale, man mano che i giorni passano, si dimostra incompetente e scorretto, tanto da indurre i fratelli Veltri, dopo una lunga e travagliata trattativa, a convincere Abate, per evitare maggiori mali nel corso dell’anno, ad assumere alle sue dipendenze il vecchio e competente pastore Vincenzo Veltri. Ma nemmeno con questo espediente le cose migliorano ed i Veltri, nel mese di gennaio del 1945, fanno recapitare ad Abate una lettera con la quale dichiarano concluso e non rinnovabile il contratto alla scadenza naturale nel prossimo mese di giugno, avendo deciso di affidare il gregge all’anziano Vincenzo Veltri, che ha dimostrato di poter godere della loro fiducia.

Abate, prepotente ed avido di illeciti guadagni, se ne risente e comincia a minacciare tutti i pastori della contrada di gravi rappresaglie se avessero preso la mandria e, non contento, prima tenta di carpire al vecchio Vincenzo ottomila lire per la cessione del contratto e poi arriva a minacciare di morte gli stessi fratelli Veltri, ma questi, risoluti ed energici, tengono duro ed il 29 giugno cacciano Abate e consegnano gli animali al vecchio Vincenzo.

Salvatore Abate è furibondo, aspetta che i fratelli Veltri si siano allontanati dall’ovile in contrada Scalille e, brandendo un pugnale di quelli in dotazione all’ex milizia fascista, va al pagliaio dove si trova il vecchio Vincenzo. Sulla porta del pagliaio c’è Francesco, uno dei figli del vecchio, e Abate gli mette il coltello alla gola, dicendogli:

Mi hai tolto la mandria

– Io non c’entro niente, che vuoi da me? – farfuglia Francesco. Abate capisce che davvero il ragazzo non c’entra e desiste da ogni cattivo proposito contro di lui, ma proprio in questo momento appare sulla porta del pagliaio il vecchio Veltri e Abate si scaglia contro di lui sferrandogli due calci al basso ventre e facendolo cadere a terra per il dolore. Con gli occhi iniettati di sangue stringe ancora più forte il pugnale e salta addosso all’avversario per ammazzarlo, ma il vecchio, prontamente rialzatosi atterrito, riesce miracolosamente a trovare scampo nella fuga. Abate lo insegue, sempre brandendo il pugnale, ma i folti cespugli e l’oscurità della notte senza luna a prima sera, non gli fanno raggiungere la vittima designata.

Il vecchio raggiunge uno dei suoi figli, Giuseppe, nell’ovile dove questi custodisce il suo gregge e tutti e due vanno in paese a casa di Corrado Veltri, per raccontargli l’accaduto e Vincenzo termina:

Vussuria mi dovete capire… me ne vado, vi lascio la mandria per sottrarmi all’ira selvaggia di Abate

– Ma no, stai tranquillo, domani mattina ti faccio accompagnare alla mandria da mio fratello Gustavo e se la vedrà lui!

Il vecchio si convince e la mattina successiva torna all’ovile con Don Gustavo il quale, dopo essersi assicurato che Abate non è nelle vicinanze, lo va a cercare al pagliaio di contrada Felicetti, dove abita.

– Ma che ti è venuto in mente? Che volevi fare? Non permetterti mai più altrimenti te la vedrai con me e con la Legge!

Abate vorrebbe saltargli addosso ma contrae il viso per l’ira repressa e, alzando ed abbassando tre o quattro volte il pugnale, quello stesso della sera precedente, col quale sta aggiustando un collare da pecora, dice:

Se lo avessi raggiunto ieri sera, l’avissi fattu ‘a capu buchi buchi!

– Ancora? Te lo ripeto, non avvicinarti a Vincenzo perché te la farò vedere più nera della mezzanotte! – poi, volgendo lo sguardo alla moglie di Abate, continua – Lo capisci che se fai quello che hai in mente rovini te stesso e la tua famiglia?

Va bene, non gli farò niente, ma appena lo trovo gli darò una buona dose di schiaffi! – risponde con un tono che convince Don Gustavo della falsità di quelle parole e dei suoi veri e terribili propositi di vendetta, così replica:

Ma, in fondo, che cosa ti ha fatto?

Non doveva prendere la mandria!

– È ingiusto e sbagliato quello che dici perché, semmai, la responsabilità è mia e di mio fratello che gliel’abbiamo affidata, anche lui ha diritto di lavorare e guadagnare!

– Si, ma lui doveva rifiutare!

Visto che Abate non si convince, Don Gustavo se ne va, sperando che rientri in sé.

Ma i problemi non sono solo quelli relativi al contratto di soccida perché Abate, nei mesi in cui aveva alle proprie dipendenze il vecchio Vincenzo, ha omesso di corrispondergli la paga pattuita di 300 lire mensili (più miserrime prestazioni in natura) e ha accumulato un debito verso il vecchio di 450 lire. Hai voglia a chiedere il dovuto!

Alla moglie di Vincenzo, Abate risponde che il debito è di sole 300 lire perché le restanti 150 servirebbero a scontare le “purcine”, i rudimentali calzari di cuoio grezzo che coprono soltanto la pianta del piede, non consunte dal pastore durante il servizio, e pretende la restituzione di un vecchio calzone non consunto dal vecchio pastore durante il servizio.

– Ma insomma, questi benedetti soldi, me li dai o no? – fa la donna, stanca dei ripetuti rifiuti.

Trecento lire le darò soltanto a tuo marito, se verrà a ritirarle nel mio pagliaio, dove prima l’appenderò ad un palo e poi lo soddisferò del suo credito!

E con questa premessa, né il vecchio, né i suoi familiari vanno a richiedere la soddisfazione del credito, vivendo in ansia per ciò che da un momento all’altro potrebbe capitare. Così si arriva alla mattina del 27 agosto, due mesi dopo la prima aggressione, quando il vecchio Vincenzo, insieme al figlio diciassettenne Fiore, fa pascolare il gregge in contrada Scalille e verso le 11,00 manda il ragazzo a chiudere le pecore nell’ovile diurno, sito nella parte superiore della stessa contrada, e si avvia verso contrada Spina a portare il mangime ai maiali ivi chiusi nel porcile, con l’intesa che a mezzogiorno si sarebbero trovati per il pranzo nella casa colonica in contrada Pianette, dove si trova l’ovile per la notte.

Il ragazzo, chiuse le pecore, va nella casa colonica dove trova suo cognato Pasquale Osso, il marito di sua sorella Rosaria, sua sorella e sua madre e insieme attendono l’arrivo del vecchio per pranzare. È un’attesa vana perché Vincenzo non arriva, ma nessuno si preoccupa più di tanto perché è possibile che il vecchio, avendo tardato nel governo degli animali, sia andato direttamente all’ovile per fare uscire le pecore al pascolo pomeridiano. Quando è arrivato il momento di tornare al lavoro, Fiore e Pasquale vanno al pascolo portando la porzione di cibarie destinata al vecchio. Ma al pascolo, con grande meraviglia dei due, il vecchio non c’è e le pecore sono ancora chiuse nell’ovile. Le liberano e le portano al pascolo pomeridiano, poi Fiore, lasciato suo cognato a guardia degli animali, va al porcile nel dubbio e nella speranza che il padre si sia fermato presso i maiali. Ma il vecchio non è neanche qui ed ora c’è davvero da preoccuparsi che gli sia capitata una disgrazia. Fiore torna al pascolo da suo cognato ed insieme tornano alla casa colonica nella speranza che il vecchio sia lì con le donne di casa. No, non è ancora tornato. Forse allora è andato in paese, a Belmonte, dai padroni a prendere danaro o, forse, potrebbe essere andato dall’altro figlio Francesco in contrada Pantanolungo. No, non si è visto in nessuno dei due posti ed intanto è calata la notte e adesso la preoccupazione che, data la sua età, possa essere caduto in uno dei tanti burroni che sono in zona o che possa essere rimasto vittima dell’odio tenace di Salvatore Abate diventa angoscia.

È l’alba del 28 agosto 1945 e ancora non si hanno notizie del vecchio. Arriva anche Don Corrado, che consiglia di esperire più diligenti ricerche nella zona e Fiore gli risponde:

– Non è possibile che sia qui intorno, in quanto neppure il cane della mandria si è visto

– Allora è meglio percorrere la medesima via presumibilmente percorsa da tuo padre, partendo dallo stesso posto da cui è partito ieri, cioè dal versante della montagna dove le pecore hanno pascolato nella mattinata.

E così Fiore e Pasquale fanno. Battono la boscaglia lungo quella direttrice di marcia, fischiando ad intervalli il cane. Giunti verso le 11,00 nel vallone, vedono il cane che sta andando loro incontro, proveniente dal costone di fronte. Il cane si ferma, abbaia per richiamare la loro attenzione, poi si gira e torna sui propri passi, seguito dai due uomini. Non devono camminare molto, il cane si è accucciato poco più in basso del sentiero e guaisce. Lo raggiungono e, esterrefatti, si trovano al cospetto del cadavere del vecchio, che giace in mezzo ad alcuni cespugli, con la testa cincischiata da molte ferite, a buchi buchi! Si riscontreranno sette ferite inferte con un pugnale o con un coltello a doppia lama e lo sfondamento del cranio ad opera di un corpo contundente, presumibilmente un masso divelto nelle vicinanze e mai ritrovato.

Corrono dai Carabinieri ed i sospetti, ovviamente, si concentrano su Salvatore Abate, soprattutto per la minaccia fatta alla presenza di Don Corrado di ridurre la testa del vecchio buchi buchi.

Il presunto assassino viene arrestato la mattina dopo in casa sua e la cosa strana è che indossa il vestito buono della festa.

– Dove sono i tuoi abiti da lavoro?

A questa domanda Abate non sa o non vuole dare alcuna contezza precisa. Dice solo:

Era lacero e l’ho regalato

– A chi?

Silenzio.

Non gli si può credere, egli, tanto avaro da farsi restituire un pantalone consunto da Vincenzo Veltri, regala i suoi abiti da lavoro? Impossibile!

Nei primi due interrogatori Salvatore Abate fornisce un alibi: nel giorno e nell’ora del delitto stava lavorando nel suo fondo in contrada Santa Maria e fu visto in diversi orari da almeno quattro testimoni che, interrogati, affermano di averlo visto prima tra le 10,00 e le 11,00 e poi verso il tramonto, ma non nell’orario che il medico legale ha indicato come quello del delitto, cioè tra le 12,00 e le 12,30. Vengono verificati la distanza tra la proprietà di Abate ed il luogo del delitto ed il tempo necessario per percorrerla e si scopre che si impiegano al massimo 45 minuti, tempo compatibile con l’ora del delitto. Poi si presenta un quinto testimone, una donna, che colma la lacuna negli orari, ma gli inquirenti pensano che sia stata catechizzata dalla moglie di Abate e che definiscono più realista del re. Messa più volte sotto torchio, alla fine la testimone si contraddice. Indagando per verificare il racconto della testimone, poi, gli inquirenti segnalano una circostanza che, se verificata, sarebbe gravissima: il tentativo di depistaggio messo in atto dal difensore di Abate, nientemeno che il Vice Pretore Onorario della Pretura di Amantea, cercando di fare in modo da deviare, con testimonianze di comodo, la responsabilità sui figli della vittima a causa di un banale litigio familiare. Il professionista, in seguito a ciò, rinuncia all’incarico.

A questo punto gli indizi sono molti, univoci e tutti concordanti, ma manca una vera e propria prova che inchiodi Abate. Poi accade qualcosa. È il 31 agosto quando, alle 19,00, nel carcere di Amantea dove Abate è rinchiuso, il Pretore sta interrogando l’imputato e nota qualcosa di strano sulla sua camicia: alcune piccole macchie che gli paiono di sangue. Immediatamente gliela fa togliere e la sequestra per farla esaminare da un perito chimico, il professor Francesco Pisani di Cosenza, direttore dell’Istituto di Igiene e Profilassi. Il 17 settembre successivo arrivano i risultati degli esami e per Abate le cose si mettono davvero male: le macchie sono certamente di sangue e con tutta probabilità di sangue umano.

Ormai il cerchio è chiuso, gli inquirenti tirano le somme ricostruendo la dinamica del barbaro omicidio: il 27 agosto 1945, Salvatore Abate, incontrato o atteso in agguato nella boscaglia della contrada Scalille il vecchio Vincenzo Veltri, dà sfogo, con tristo cinismo, al suo odio bieco ed ingiusto. Con un primo colpo di pugnale alla regione temporale destra lo atterra e poi, ancora in vita il meschino, gli cincischia il capo con altre sei ferite, inferte con spietata crudeltà, attuando così il feroce proposito, non potuto attuare la sera del 29 giugno e manifestato la mattina del 30 successivo e sempre covato nel suo animo torbido, di fare la testa buchi buchi. Poi, affinché la vittima non possa più parlare, gli fracassa il tavolato osseo del cranio con uno dei due grossi sassi che smuove e soppesa entrambi per scegliere il più adatto, che dopo l’uso cruento scaglia lontano nel bosco. Infine trascina il cadavere sanguinante lungo il pendio e lo nasconde sotto i cespugli e gli arbusti. Compiuto il misfatto, ritorna con l’animo appagato alla casa colonica nella frazione Santa Maria, cambia vestito e ripiglia con tranquillo cinismo il lavoro, ostentandosi ai vicini, sicuro ormai dell’impunità. Ma, per uno dei tanti casi del destino o della provvidenza che acceca anche il delinquente scaltrito, smette di cambiarsi la camicia che, forse pensò, non doveva essere macchiata di sangue, essendo coperta dalla giacca durante la perpetrazione dell’assassinio! E la camicia, per la sagacia del Pretore di Amantea, rinsalda ancora di più la responsabilità dell’imputato.

Per la Procura, chiedere ed ottenere il rinvio a giudizio di Salvatore Abate con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione è cosa fatta e ad esaminare il caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza il 20 ottobre 1946.

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, per la Corte non ci sono dubbi che l’autore dell’omicidio sia Salvatore Abate, ma sorge il dubbio se sussista o meno l’aggravante della premeditazione che, se accertata, potrebbe portare a conseguenze irreparabili per la vita dell’imputato. È chiaro che tutti i comportamenti di Abate prima, durante e dopo l’omicidio sono indici di una risoluzione spietata, di un tristo cinismo, di riflessione e di macchinazione nella scelta dei mezzi e nell’efferatezza dell’esecuzione, il che indurrebbe la Corte a ritenere sussistente l’aggravante della premeditazione. Ma, poiché mancano le prove sicure che Abate attese la vittima al varco, sorge, invece, il dubbio che potette incontrarla mentre egli s’era recato nella boscaglia per legnare o per altro bisogno, quando divampò, improvviso, l’odio feroce per due mesi covato. Con senso di mitezza tale aggravante va esclusa.

Chiarito l’aspetto più delicato del processo, la Corte dichiara Salvatore Abate responsabile di omicidio volontario senza attenuanti e lo condanna ad anni 23 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni.

La Suprema Corte di Cassazione, il 30 aprile 1948 rigetta il ricorso dell’imputato.

Poi deve accadere qualcosa di nuovo, che non è a nostra conoscenza, perché la difesa di Abate ricorre nuovamente per Cassazione al fine di ottenere la revisione del processo e la Suprema Corte, il primo febbraio 1950, accoglie la richiesta, annulla la sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Cosenza ed ordina l’invio degli atti alla Corte d’Assise di Catanzaro per un nuovo giudizio, l’esito del quale ci è sconosciuto per non aver potuto rintracciare gli atti.[1]

Saremmo grati se qualcuno che avesse notizie sull’esito della nuova causa, le condividesse. Grazie.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.