È la notte tra il 26 e il 27 maggio 1938, in casa Cantelmo a Crucoli c’è preoccupazione perché il ventunenne Antonio non è tornato a casa. Poi fuori la porta uno strascichio di piedi, un respiro affannoso, qualche lamento e un paio di deboli colpi all’uscio. Quando la porta viene aperta, i vicini vengono svegliati dalle urla di disperazione che i genitori di Antonio lanciano vedendo il figlio boccheggiante, ridotto ad una maschera di sangue. Che cosa gli sarà mai accaduto? Antonio non parla, ma adesso la cosa più importante è chiamare un dottore per prestargli le cure necessarie.
L’espressione del medico non promette nulla di buono: graffiature al collo, ferite multiple da punta e taglio al cuoio capelluto ed al torace fra cui una – particolarmente grave – all’ipocondrio destro con lesione delle anse intestinali ed un’altra all’ipocondrio sinistro; infine dei fori di proiettile di piccolo calibro al braccio sinistro. Probabilmente una lite o un’aggressione, ma perché?
Arriva anche il Sindaco che, nella sua qualità di ufficiale di Polizia Giudiziaria, vuole interrogare il ferito. Si avvicina, gli chiede se ce la fa a parlare e al cenno di assenso di Antonio gli si siede accanto e comincia ad appuntare il frammentario racconto:
– Da qualche tempo avevo iniziato rapporti intimi con Rosa Romano, di anni 22, amante di Gennaro Ciccopiedi e con costui convivente. Ieri sera Rosa mi aveva dato appuntamento nel fondo Aricella alla periferia del paese… là giunto, mi invitò a scendere più giù della stradella, presso una quercia. Mentre ero intento a predisporre un giaciglio con la mia giacca, mi ha vibrato una pugnalata… subito dopo da dietro un cespuglio è sbucato Ciccopiedi che mi ha sparato contro tre colpi di pistola. Io ho cercato di afferrargli la mano e gli ho chiesto perdono e pietà, ma loro hanno tentato di strangolarmi e quindi mi hanno crivellato di colpi, lasciandomi senza coscienza, indubbiamente credendomi morto. Dopo qualche tempo sono rinvenuto e quindi, trascinandomi con grande stento, sono riuscito a raggiungere la mia casa…
Il Sindaco, accompagnato dalla Guardia Municipale, corre a casa di Ciccopiedi e bussa violentemente alla porta. Dopo un po’ appare sulla porta in mutande proprio lui, Gennaro Ciccopiedi.
– Dov’è la pistola con la quale hai sparato contro Cantelmo Antonio?
– Pistola? Sparato? Io non so nulla, è stata Rosicella…
– E dov’è?
Ciccopiedi fa segno verso l’interno della casa, poi la chiama e la donna sbuca dal buio della stanza.
– Sono stata io, l’ho pugnalato…
Il Sindaco fa portare via i due amanti e poi con l’aiuto di un paesano procede ad una minuziosa perquisizione della casetta e trova una pistola carica con tracce di recente pulitura, ma è guasta. Trova anche una camicia da uomo da poco lavata, con lievi tracce di sangue al polso destro. Poi va sul luogo indicato da Antonio e, insieme a notevoli chiazze di sangue, trova un pugnale.
In questo frattempo Antonio Cantelmo viene portato all’ospedale di Crotone, ma purtroppo muore nel giro di poche ore.
Forse la notte ha portato consiglio a Gennaro Ciccopiedi e Rosa Romano, che la mattina del 27 maggio chiedono di parlare col Sindaco:
– Sono arrivato nel luogo del delitto quando già Cantelmo era stato ferito e l’ho sentito implorare il suo perdono… ho fatto l’atto di strangolarlo e poi l’ho lasciato in terra…
È l’ammissione di avere partecipato al delitto, ma ancora non è chiaro chi ha esploso i tre colpi di pistola. Forse lo farà la sua amante?
– Sono stata io sola e non anche Gennaro a uccidere Antonio…
No, non ci siamo.
Quando, verso le 11,30, arrivano i Carabinieri da Cirò, chiariscono subito i rapporti ufficiali che intercorrevano tra Antonio Cantelmo e i due amanti: Gennaro Ciccopiedi, commerciante e proprietario alquanto facoltoso, vedovo con figli, da circa quattro anni conviveva maritalmente con Rosa Romano, con la quale aveva procreato due figli, uno vivente. Antonio Cantelmo, cugino di secondo grado della prima moglie di Ciccopiedi, era solito frequentare l’abitazione di quest’ultimo e di cui era diventato l’uomo di fiducia nel disbrigo di tante incombenze relative al suo commercio.
Poi interrogano Ciccopiedi:
– Ieri, dopo aver incontrato Antonio, sono tornato a casa e ho cenato per tempo, quindi mi sono messo a letto siccome febbricitante. Durante la notte mi sono svegliato e ho notato che la mia concubina erasi allontanata da casa. Dopo poco ha fatto ritorno in preda a profonda agitazione; l’ho rimproverata pensando che fosse uscita per un convegno d’amore. Ella, allora, mi ha confessato di aver ucciso Antonio perché da molti giorni la molestava cercando di possederla… aveva le mani e le vesti intrise di sangue…
– E la pistola chi l’ha usata? – gli fa il Maresciallo mostrandogli quella sequestrata.
– È di molto tempo fa… inefficiente
– Quindi Rosa vi ha confessato l’omicidio – Ciccopiedi annuisce – e la camicia come ve la siete sporcata? Perché l’avete lavata?
– Rosa ha provveduto a lavare il suo vestito intriso di sangue e anche la mia camicia, che si era sporcata per contatto con i suoi indumenti…
Elementare!
Poi vengono interrogati i figli di primo letto di Gennaro, i quali confermano le frequenti visite di Antonio e dicono di non essersi accorti se tra la vittima e Rosa Romano vi fossero stati rapporti intimi. Una figlia, però, aggiunge un particolare interessante:
– Verso i primi giorni di maggio, nell’assenza di mio padre, Antonio salì in casa, dove si trovava Rosa, inerpicandosi – per bravata – alla finestra del piano superiore. Rosa lo redarguì per quel gesto. Antonio frequentava la nostra casa tanto quando nostro padre era presente, quanto allorché era assente… giorno 20 ho sorpreso Antonio nell’atto di palpeggiare ed accarezzare Rosa, la quale peraltro lo respinse. Io lo dissi a mio padre di nascosto da Rosa e fra lei e mio padre ci sono state frequenti discussioni relative alla presenza di Antonio in casa nostra…
Potrebbe essere uno spunto per capire quali siano stati, realmente, i motivi che hanno portato alla morte di Antonio Cantelmo.
I figli di Gennaro Ciccopiedi, però, dicono al Maresciallo una cosa che potrebbe inguaiarlo definitivamente: fino a pochi giorni prima del fatto, Gennaro portava alla cintura la pistola da molto tempo inefficiente che gli sequestrò il Sindaco. Ma se non funzionava che motivo aveva di portarsela dietro? Poi c’è un’altra ammissione: uno dei figli aggiunge che, il 23 maggio, su ordine del padre andò nella casa da loro precedentemente abitata e ora data in fitto, per prelevare tutti gli oggetti di loro proprietà colà rimasti, fra cui un pugnale arrugginito e li depositò in casa, nella stanza del forno. I Carabinieri verificano e scoprono che è il pugnale usato per colpire Antonio Cantelmo.
Poi è la volta dei testimoni:
– Alla mia presenza, Antonio – per bravata – scalò il muro dell’abitazione di Ciccopiedi, vi penetrò traverso una finestra del piano superiore e vi si trattenne per circa dieci minuti…
Tre intimi amici di Antonio raccontano che, mentre giaceva nel letto in attesa di essere trasportato in ospedale, raccontò loro che la sera del 26 maggio era stato chiamato in casa di Ciccopiedi da parte di tal Sanfelice, che aveva detto di avere avuto incarico da Ciccopiedi stesso. In casa trovò solo Rosa, che lo invitò a recarsi in località Aricella ove lo avrebbe subito raggiunto per congiungersi carnalmente. I tre riferiscono poi lo stesso racconto fatto da Antonio sulle modalità dell’aggressione, aggiungendo, diversamente da quanto detto al Sindaco, che Ciccopiedi lo calpestò, lo fece ruzzolare lungo un breve argine di terreno e, quindi gli esplose contro i tre colpi di pistola. Non solo, ma Antonio avrebbe raccontato anche un altro particolare agghiacciante: prima di allontanarsi, Rosa propose a Ciccopiedi di cavargli gli occhi e tagliargli la testa, ma l’uomo aveva lasciato cadere la proposta, asserendo che la vittima era indubbiamente già morta. Possibile?
Secondo la madre di Rosa, Ciccopiedi, ingelosito e sospettoso per la insistente presenza di Antonio Cantelmo, quindici giorni prima del delitto aveva ordinato a Rosa di non fargli mettere piede in casa e che anche lei stessa sospettava che vi fosse una tresca tra sua figlia e quel giovane. Forse le cose cominciano a chiarirsi o forse la donna cerca di indirizzare le indagini su questa pista? Fatto sta che anche Gennaro Ciccopiedi, interrogato nuovamente, parla dei suoi sospetti e poi offre una nuova ricostruzione dei fatti avvenuti la sera del delitto:
– Il 24 maggio ho potuto notare un equivoco atteggiamento di Antonio nei confronti di Rosa; il 26 poi, mentre riposavo al piano superiore, Antonio si era portato in casa ed io sospettai che stesse insidiando la mia compagna, avendo inteso rumore di passi affrettati e di spostamento di sedie. Mi affacciai alla botola comunicante con il piano inferiore ed intesi Rosa dire ad Antonio: “Sei pazzo!” e il giovane si allontanò da casa; io, quindi, cominciai a rimproverare Rosa minacciandola di lasciarla; lei mi assicurò di non essere venuta meno alla sua fede, pure avendo ammesso che da circa quindici giorni era oggetto di assidua corte da parte di Antonio. A questo punto Rosa intese fornirmi una prova della sua fedeltà e dedizione e mi propose di seguirla qualora ella, nell’uscire di sera per alcune faccende familiari, avesse fatto incontro con Antonio. Restammo d’accordo che Rosa sarebbe uscita di sera per avvertire la proprietaria di un forno che l’indomani avrebbe fatto il pane presso di lei e che se avesse fatto incontro con Antonio sarebbe tornata indietro per avvertirmi e farsi seguire da me. Infatti, verso le 21,30 Rosa, uscita per avvertire la fornaia, fece ritorno annunziando che Antonio era fuori in quei pressi; si armò di pugnale, precedentemente affilato, ed uscì; io la seguii armato di pistola tenendomi a breve distanza, senza essere visto né da Rosa e né da Antonio, e intesi quest’ultimo profferire parole di desiderio e, quindi, gridare improvvisamente: “Mi hai ammazzato!”. Io accorsi mentre Antonio cercava di disarmare Rosa e gli esplosi contro tre colpi di pistola e gli diedi uno schiaffo mentre implorava il perdono. Rosa continuava a colpirlo con il pugnale. Nel momento di allontanarci, Rosa mi propose di tagliare la gola alla vittima per essere certi del suo decesso, ma io la dissuasi affermando che ormai era certamente spirato…
Ora si comincia a ragionare, anche se restano alcuni punti da chiarire. Per esempio bisognerebbe chiarire chi e perché affilò il vecchio pugnale arrugginito e, soprattutto, se l’incontro fatale tra Rosa e Antonio fu davvero casuale o fu organizzato allo scopo di tendergli un agguato. E questo è un punto decisivo per la sorte degli imputati perché se l’incontro fu organizzato si tratterebbe di omicidio premeditato, il che spalancherebbe loro le porte dell’ergastolo. Ma intanto bisogna sentire cosa dirà Rosa al Pretore di Cirò, delegato alle indagini:
– Dai primi giorni di maggio Antonio mi importunava con proposte illecite. Due o tre giorni prima del delitto io avevo affilato un vecchio pugnale arrugginito, allo scopo di servirmene contro di lui. Il giorno prima del delitto, Gennaro era venuto a conoscenza dei tentativi di Antonio per ottenere le mie grazie e mi minacciò di cacciarmi di casa qualora avessi ceduto… nel pomeriggio del 26, mentre Gennaro riposava al piano superiore, Antonio tentò ancora una volta di ottenere i miei favori e Gennaro se ne accorse perché mi avvisò di nuovo. Io, per fugare ogni sospetto e meritarmi la sua fiducia, avanzai la proposta di farmi seguire da Gennaro se fossi uscita di sera, come è cenno nell’ultimo interrogatorio del mio correo – Cosa? Le hanno letto l’interrogatorio di Gennaro? –. Uscii per avvertire la fornaia, feci incontro con Antonio e tornai indietro per avvertire Gennaro. Uscita di nuovo, seguita dal mio amante, invitai Antonio a recarsi con me in località Aricella e… – il resto del racconto combacia perfettamente con quello di Gennaro Ciccopiedi, ma ora c’è un gravissimo elemento in più a suo carico: ha ammesso di avere invitato la vittima a seguirla sul luogo dove poi si è consumato il delitto.
No, il guaio lo ha fatto per tutti e due perché gli atti vengono inviati alla Procura di Catanzaro con la terribile accusa di concorso in omicidio premeditato, con le aggravanti dei futili motivi, dell’avere agito con crudeltà e dell’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la pubblica e privata difesa.
Quando Rosa viene interrogata dal Giudice Istruttore, ritratta affermando che la confessione le è stata estorta con la violenza e fornisce una nuova versione:
– Escludo di aver messo al corrente Gennaro Ciccopiedi delle insidie cui ero stata fatta segno da parte di Antonio Cantelmo. La sera del 26 maggio, avendomi il mio amante detto che soltanto nel pomeriggio dell’indomani avrebbe potuto avere la farina per panificare, ritenni di dovere uscire, verso le 21,00, onde farlo sapere alla proprietaria del forno. Scorsi Antonio a pochi metri dalla porta, come se fosse appiattato per sorprendermi e pertanto feci ritorno a casa e riferii la cosa a Gennaro, aggiungendo che avrebbe fatto bene a seguirmi e a non fidarsi tanto di Antonio. All’insaputa del mio amante mi impadronii di un pugnale, che io stessa avevo ripulito e affilato nel pomeriggio dopo che Antonio mi aveva ancora una volta insidiata, al fine di difendermi ove fosse stato necessario. Io e Gennaro uscimmo in strada per vie diverse e, a circa trenta metri da casa, Antonio si avvicinò afferrandomi per le spalle e mi trascinò fino alla contrada Aricella, sotto una quercia; mentre Antonio era intento a predisporre un giaciglio lo colpii col pugnale sei volte, con il preciso intento di sopprimerlo, ma Antonio riuscì a disarmarmi e fece l’atto di rivolgermi l’arma contro. Gennaro, che sin’allora era rimasto nascosto, intervenne ed esplose tre colpi contro Antonio…
Sembra un racconto fatto su misura da un lato per togliere dai guai Gennaro e dall’altro per potere invocare lo stato di legittima difesa, ma Gennaro, interrogato a sua volta, in sostanza conferma quanto già dichiarato nel precedente interrogatorio, con la sola eccezione che Antonio trascinò a forza Rosa per qualche po’, nonostante ella implorasse di essere lasciata in pace ed opponesse resistenza e che, alla fine, Rosa aveva accondisceso a seguire il suo aggressore. Resta da capire perché non sia intervenuto subito, invece di aspettare che si arrivasse al punto di non ritorno. E infatti non vengono creduti, così il 23 giugno 1949, entrambi vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere dei reati loro ascritti, con l’esclusione dell’aggravante di avere agito per futili motivi.
Interrogati in udienza, Gennaro e Rosa cambiano di nuovo versione: l’uomo nega di essersi accorto, nel pomeriggio del 26 maggio, che Antonio stava importunando Rosa, conferma di essere stato avvisato delle molestie di Antonio, aggiunge di avere dissuaso Rosa dal proposito di dare una buona lezione ad Antonio per il motivo che il giovane era stato cresciuto in casa e non vi era motivo di attribuire eccessiva importanza alla cosa. Poi aggiunge di avere seguito Rosa unicamente per impedire che Antonio avesse potuto farle del male e di avergli sparato i tre colpi di pistola per difendere la sua donna e sé stesso dall’attività aggressiva di Antonio, che era riuscito a impadronirsi del pugnale. Alla fine nega che Rosa esternò il proposito di tagliare la gola alla vittima. Rosa, da parte sua, ora nega di avere invitato Gennaro a seguirla e che il suo amante era uscito di sua iniziativa per accertarsi del contegno di Antonio e aggiunge che Gennaro poco fece contro l’avversario per impedire che quest’ultimo, armato di pugnale, si avvicinasse, anzi prima di sparare gli gridò: “Fermati, fermati!”. Infine nega di avere proposto a Gennaro di tagliare la gola ad Antonio.
Tutti questi cambi di versione non agevolano la posizione dei due imputati, ma ottengono il risultato che, letti gli atti ed escussi tutti i testimoni, la Corte afferma che per districarsi nel delitto, bisogna capire se tra Rosa ed Antonio ci fu o meno una vera e propria relazione intima. Tutto lascerebbe pensare di no perché in paese nessuno ne ha mai parlato, né se ne è avuto il minimo sospetto. D’altra parte sarebbe stato facilissimo nasconderla, vista la quotidiana presenza di Antonio in casa Ciccopiedi. Il dubbio sorge per le parole pronunziate da Antonio prima di morire e la sorte dei due imputati, in un caso o nell’altro sarebbe molto diversa. La Corte afferma che non v’è motivo per non ritenere veritiera l’affermazione del Cantelmo, resa in pericolo di vita al rappresentante della Giustizia. Accertato che fra la Romano ed il Cantelmo era in corso da tempo la tresca, devesi indagare se di tanto ne fosse venuto a conoscenza il Ciccopiedi. E ci sono elementi a sufficienza che provano come almeno quindici giorni prima del delitto Ciccopiedi venne a conoscenza della troppa assidua presenza di Antonio in casa sua e quindi le scenate, le minacce di cacciare di casa Rosa. Quindi l’ultima trovata difensiva dell’imputato di avere appreso tutto solo la sera del delitto è falsa. D’altra parte tutto il comportamento successivo di Ciccopiedi ed in particolare la scena selvaggia dell’assassinio è tipica espressione di un animo esacerbato da un grave torto subito ed è assolutamente sproporzionato come reazione ad una semplice insidia d’amore, sia pure proveniente da persona familiare e giudicata fedele.
Piuttosto, osserva la Corte ricostruendo la vicenda, quei tumultuosi colloqui fra Gennaro Ciccopiedi e Rosa Romano sono rivelatori rispetto al successivo svolgimento dei fatti: Ciccopiedi, che dovevasi essere accorto della tresca o quantomeno aveva concepito gravi e fondati sospetti, assalì la Romano con rimproveri e minacce e costei, vistasi scoperta o quantomeno fondatamente sospettata, dovette proporsi di mutare strada al fine di non perdere la vantaggiosa situazione raggiunta, situazione che molto probabilmente l’avrebbe portata al matrimonio. Reagì alle ulteriori insistenze di Antonio Cantelmo poiché queste non andavano a finire e d’altra parte urgeva diradare ogni apprensione dall’animo di Ciccopiedi e dimostrarglisi affezionata e devota, concepì il disegno di sopprimere il giovane amante, associando l’altro all’impresa al fine di offrirgli la più evidente dimostrazione del suo attaccamento e di legarlo maggiormente a sé mediante il vincolo della cooperazione delittuosa. Quindi pulì e affilò il pugnale e diede appuntamento ad Antonio all’Ariella consapevole dell’intenzione di ammazzarlo. Ma la Corte deve superare un ostacolo: provare sufficientemente che Ciccopiedi partecipò all’ideazione e preparazione del delitto o riconoscere che sia intervenuto solo all’ultimo momento. La Corte propende per la prima ipotesi perché Rosa Romano aveva ogni interesse a mettere il suo amante ufficiale a conoscenza dei suoi progetti per cattivarsene la fiducia, altrimenti non avrebbe potuto uscire di casa. Poi bisogna tenere conto che la consapevolezza di Ciccopiedi riguardo alla tresca tra Rosa ed Antonio o quantomeno dei gravi e fondati sospetti dovevano indurlo ad auspicare una soluzione cruenta che desse soddisfazione al suo onore macchiato.
Se così sono andate le cose, è evidente che l’aggravante della premeditazione è fondata, come lo è quella della minorata difesa. Al contrario, la Corte non ritiene che sussista l’aggravante della crudeltà perché non c’è il riscontro di quella particolare malvagità d’animo intesa ad infliggere alla vittima sofferenze non necessarie per il raggiungimento del fine. Infine, la Corte riconosce agli imputati le attenuanti generiche e l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto della vittima.
È il momento di fare i conti per determinare le pene da infliggere. Districandosi tra aggravanti, attenuanti, condoni, Testi Unici eccetera, la Corte condanna Rosa Romano ad anni 23 e mesi 1 di reclusione; Gennaro Ciccopiedi ad anni 21 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni per entrambi.
Sia il Pubblico Ministero che gli imputati ricorrono per Cassazione al fine di ottenere lo spostamento della sede d’Appello da Catanzaro a Reggio Calabria. Il ricorso viene accolto e il 18 marzo 1952 la Corte d’Appello di Reggio Calabria riduce la condanna inflitta a Gennaro Ciccopiedi ad anni 14 di reclusione e ad anni 22 e mesi 1 quella inflitta a Rosa Romano.
Il 25 febbraio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonati anni 3 di reclusione a Rosa Romano.
L’8 marzo 1963 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, ai sensi del D.P 24/01/63 n. 5, dichiara condonati mesi sei di reclusione a Rosa Romano.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.