Il 26 marzo 1927 Maria Maffia si presenta all’ufficio di Stato Civile del Comune di Saracena per denunciare la nascita di una bambina che ha partorito cinque giorni prima. Ordinaria amministrazione, se non fosse che Maria è sposata e che il marito, emigrato in America fin dal 1922, venuto a conoscenza dell’evidente tradimento, inizia l’azione di disconoscimento della paternità davanti al Tribunale di Castrovillari. Le prove che non possa essere il padre della creatura sono, ovviamente, inconfutabili ed il 14 marzo 1928 i giudici dichiarano l’illegittimità bambina con ogni conseguenza di legge e condannano Maria al pagamento delle spese processuali. In tutto e per tutto una storia uguale a quella di tante altre vedove bianche.
Passano sette anni, adesso siamo al 4 settembre 1934, quando Plautilla Tosi, levatrice condotta di Saracena, informata che parecchie donne aventi i mariti da più anni in America, sono incinte ed intenderebbero registrare i figli come procreati da padri ignoti e da donne che non intendono essere nominate, scrive al Procuratore del re di Castrovillari perché la consigli su come comportarsi nel caso in cui, chiamata a prestare la propria assistenza ostetrica, fosse stata anche incaricata di registrare la nascita allo Stato Civile.
Il Procuratore del re, però, invece di consigliare la levatrice, inoltra la lettera ai Carabinieri perché svolgano le indagini del caso e gliene riferiscano gli esiti. E questo avviene il 12 settembre 1934, quando i Carabinieri gli comunicano che la levatrice ha ragione perché in paese vi sono parecchie adultere incinte le quali, al fine di ottenere dall’Opera Maternità e Infanzia il sussidio di baliatico, stanno pensando di denunziare i frutti dei loro illeciti amori come figli d’ignoti.
È banale pensare che basterebbe istruire la levatrice su come comportarsi per evitare la truffa, perché il 25 settembre successivo i Carabinieri, a sorpresa, denunciano quattro madri come colpevoli di alterazione di stato civile, truffa del sussidio baliatico e falsità materiale in atto pubblico. E denunciano anche la levatrice Plautilla Tosi per concorso negli stessi reati, spiegando che:
- Il 21 ottobre 1931 la levatrice ebbe a denunziare che due giorni prima era nato, da donna che non consentiva di essere nominata, un bambino, facendo istanza che fosse a lei lasciato il detto bambino perché ne curasse l’allattamento e la custodia. Chiarivasi, inoltre, che il bambino era stato partorito da Di Leone Filomena, il cui marito già da otto anni era emigrato in America ed affermavasi che la Di Leone, previa richiesta, aveva ottenuto dall’O.A.M.I. il sussidio baliatico mensile.
- La stessa procedura, pel medesimo fine, fu adottata il 18 settembre 1934 per altre tre creature procreata da Di Maio Maddalena, Rizzo Maria, Maffia Maria, le figliuole delle quali furono denunziate dalla Tosi come procreate da donne che non consentivano di essere nominate, come nate nei giorni 12, 13, 16 settembre, mentre effettivamente eran nate nei giorni 28 agosto, 4 settembre e 9 settembre.
Nello stesso verbale i Carabinieri aggiungono che le prevenute non possono affermare di aver commesso il reato per errata interpretazione della legge, che completamente ignorano, ma perché sono state spinte dal preciso fine di potere percepire il sussidio baliatico.
A questo punto, secondo il Procuratore del re, ci sono tutti i presupposti per esercitare l’azione penale nei confronti delle cinque donne soltanto per i reati di falsità ideologica e truffa e, il 15 gennaio 1935, invia gli atti al Pretore, competente per la tipologia del reato. Il Pretore, però, tiene il fascicolo sul tavolo per un paio di anni, finché il 29 aprile 1937 emette sentenza istruttoria, nella quale ritiene i reati estinti in virtù dell’amnistia del 15 febbraio 1937, n. 77.
Il Procuratore del re va su tutte le furie e ricorre contro la sentenza del Pretore, sostenendo che la truffa non può essere compresa nell’amnistia, trattandosi di truffa aggravata perché commessa ai danni di una Pubblica Amministrazione e nemmeno può rientrarvi il falso ideologico, essendo esso aggravato perché commesso per eseguire la truffa. Il Giudice Istruttore gli dà ragione e rimanda gli atti al Pubblico Ministero, il quale glieli restituisce per il formale procedimento.
– Si, sono stata proprio io a fare le denunzie, pur sapendo che le madri dei bimbi denunziati erano maritate, ma l’ho fatto in buona fede, sia perché non avevo avuto risposta al quesito rivolto al Procuratore del re, sia per avere inconsciamente ubbidito al desiderio delle puerpere ed al consiglio datomi dal podestà e dal Segretario Comunale – si difende Plautilla Tosi.
– Ho fatto denunziare la mia terza figlia illegittima quale figlia di ignoti giacché diversamente mio marito avrebbe iniziato un’altra azione di disconoscimento. Vi assicuro che non ho fatto alcuna domanda per sussidio di baliatico, che solo per il precedente figlio illegittimo ho percepito il sussidio. Aggiungo che ho partorito esattamente nel giorno che è scritto nel certificato di nascita e non nel giorno che dicono i Carabinieri – racconta Maria Maffia.
– Mio marito si trova da otto anni in America… – si difende Filomena Di Leone, facendo ampi gesti con le mani, come a voler dire: senza notizie di mio marito mi sento una vedova. Poi continua – Ho fatto denunziare come illegittimo mio figlio per consiglio del podestà e della levatrice…
Ed è la seconda a tirare in ballo il podestà, forse sarebbe il caso di sentire se ha qualcosa da dire, ma è una speranza vana.
– Mio marito dimora in America da quattordici anni… non potevo denunziare la bambina come figlia mia e di mio marito, sia per dire la verità, sia per non danneggiare gli altri miei tre figli, veramente procreati da me e mio marito… – dice Maria Rizzo.
– Anche mio marito si trova in America da quattordici anni… ho partorito la bambina il 28 agosto e non il 14 settembre come risulta… non sono stata io ad andare al Comune, ma la levatrice e nego di aver fatto domanda di sussidio – dichiara Maddalena Di Maio.
Le spiegazioni, i chiarimenti non servono: il 3 agosto 1940 tutte e cinque le imputate vengono rinviate al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per una sfilza di reati troppo lunga da elencare.
Il 25 gennaio 1941 si tiene il dibattimento e la Corte, ascoltati i testimoni e letti gli atti, crede alle imputate che hanno detto di non conoscere la legge sui sussidi, anzi, siccome la legge sull’assistenza del fanciulli illegittimi od esposti “8 maggio 1927, n. 798” agli articoli 4 e 5 estende l’assistenza obbligatoria a tutti i figli illegittimi, con l’evidente scopo di impedire che le madri siano tentate di sopprimere il frutto dei loro inconfessabili amori, l’azione delle madri volta ad ottenere il sussidio sarebbe stata conforme alla legge. Poi rincara la dose: la donna coniugata che, avendo dato alla luce una creatura adulterina (e però illegittima ed irriconoscibile), intenda avvalersi dei benefici di legge e chiede o accetta, se corrisposto d’ufficio, il sussidio baliatico, ha il titolo necessario per ottenere l’assistenza alla sua creatura e tal motivo copre, nella specie, anche le responsabilità delle prevenute Di Leone e Tosi,imputate di concorso nella truffa, perché se pure la Di Leone, col concorso della Tosi, ebbe a provocare e percepire, per più tempo, il sussidio al quale aveva diritto, non commise alcuna truffa, mancando il suo atto degli estremi del raggiro e dell’altrui inganno dannoso. Peraltro, nulla dimostra che la Di Leone, nel chiedere il sussidio e nel percepirlo, avesse scienza e coscienza che non le spettasse, mentre è ovvio che solo nel caso di provata malafede si potrebbe ritenerla rea di truffa.
La legge sull’assistenza dei fanciulli, non negando espressamente il sussidio ai figli illegittimi di donne coniugate, non può che avere interpretazione estensiva, onde non è da meravigliare che la Di Leone, divenuta madre di una bimba illegittima, abbia in buona fede pensato di trovare nella legge la fonte, per sé, di una obbligazione attiva e, agendo di conseguenza, abbia chiesto ed ottenuto il sussidio. Poi la Corte, dopo aver mandato in frantumi tutto l’impianto accusatorio della Procura del re di Castrovillari, sembra voler usare l’ironia per lanciare l’ultima bordata alla pubblica accusa quando, per rafforzare la sua posizione, afferma: dello stesso parere (della Corte) deve essere stato il Preside della Provincia, se non ha creduto, nonostante i pagamenti corrisposti alla Di Leone, costituirsi parte civile in questo giudizio.
Per quanto riguarda la sfilza degli altri reati contestati alle cinque donne, compreso quello di alterazione dello stato civile, la Corte ritiene insufficienti le prove e le manda tutte assolte.[1]
È il 25 gennaio 1941 e si è fatto tanto scandalo e tanto rumore per negare un diritto.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.