IN UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA

Nel 1936 Giuseppe Talarico violò, in aperta campagna di San Giovanni in Fiore, l’avvenente giovane Giuseppina Bombardieri, che da più tempo corteggiava.

Querelato da Giuseppina, Talarico fu arrestato ma fu scarcerato perché le due famiglie trovarono un accordo e i due giovani, il 31 dicembre 1936 si sposarono. Quelle nozze, però, non furono auspicate poiché si erse ad ostacolo insormontabile alla buona pace fra i coniugi, l’arcigna suocera di Giuseppina, Serafina Bitonti, che la odiava perché poverissima.

Come se questo non bastasse, per maggior disgrazia fu necessario che i due sposini andassero ad abitare con la madre di Giuseppe, poiché questi, che consumava quel po’ che guadagnava al giuoco, vino e donne, non avea di che mantenere la moglie.

Una manna dal cielo per Serafina Bitonti che non tralasciò occasione per dimostrare tutta la sua avversione contro la povera Giuseppina, villaneggiandola con atroci ed immeritate ingiurie, privandola del necessario sostentamento, spingendo il figlio a scacciarla e ad a tal fine ricorse a volgari insinuazioni e a satanici trucchi. Pensate che arrivò al punto di bagnare d’acqua il letto matrimoniale del figlio per fargli credere che si trattasse di urina emessa dalla bambina, che nel frattempo era nata, e che la moglie, per abituale ignavia, non aveva cercato di asciugare, provocando così un violento litigio tra marito e moglie; né trascurò di destare nel figlio il verme della gelosia, giovandosi della circostanza di aver trovato Giuseppina in possesso di 50 lire che, perfidamente, disse al figlio trattarsi di denaro venutole in compenso di congressi carnali, ben sapendo invece che Giuseppina quelle 50 lire le aveva guadagnate durante la campagna olearia del 1939, facendo la lavandaia da Giuseppe Secreti.

Potrebbe bastare per capire la condizione di Giuseppina, ma c’è dell’altro che non si può tacere: oltre a soffrire la fame, per cui fu costretta a portare le sue lagnanze ai Carabinieri, ed a volte ad elemosinare il cibo dai vicini, era tenuta anche priva di vestiario e di scarpe, onde per provvedersene, si ridusse, nel settembre 1939, ad allocarsi quale balia presso il conduttore postale Salvatore Sancillotti ma, denutrita com’era, non aveva latte a sufficienza e dopo otto giorni fu licenziata.

Giuseppina è ormai allo stremo e quando torna a casa deve subire l’ennesima umiliazione: sua suocera e suo figlio le sbattono la porta in faccia e per giunta, il 15 settembre 1939, suo marito la querela per violazione degli obblighi di assistenza verso esso querelante e verso la loro creatura. Dove andare se non a casa di sua madre, che l’accoglie a braccia aperte?

Giuseppina corre anche il rischio di essere arrestata, ma i Carabinieri, che conoscono bene la situazione, fatte le opportune indagini, redigono un verbale col quale la scagionano: “la querelata era stata costretta a disertare il tetto coniugale per i maltrattamenti della suocera e del marito, i quali le avevano fatto mancare il pane, gli indumenti e perfino la legna per scaldarsi. (…) Dopo averla costretta ad andarsene di casa, trattenevano con loro, per farle più onta, la creatura, la quale le fu restituita per il provocato intervento di noi verbalizzanti”.

Ah! Dimenticavamo un piccolo particolare: Giuseppe, prima di querelare falsamente sua moglie, aveva avuto l’ardire di fidanzarsi con una ragazza di Cosenza alla quale fece credere di essere libero e con la quale mantenne vivissima corrispondenza dal 9 settembre 1939 all’11 gennaio 1940.

Ma ritorniamo a quando Giuseppina trova riparo a casa di sua madre e le viene restituita la bambina. Ora non ha più da temere ed i maltrattamenti sono finiti. Giuseppe, però, è un uomo che non molla facilmente la presa e spesso, o almeno tutte le volte che sente il bisogno di volersi congiungere, si presenta a casa della madre di Giuseppina. Ed il bello è che riesce a convincere la moglie ed a condurla con sé, non a casa, ma in ogni posto dove possono fare l’amore, dicendole:

Presto prenderò in affitto una casa ove, lontani dalle nostre rispettive madri, formeremo il nostro nido

Giuseppina è al settimo cielo: una casa tutta loro dove vivere in santa pace!

È la sera del 12 gennaio 1940, Giuseppina è a letto con la sua bambina. Qualcuno bussa alla porta e sua madre va ad aprire: è Giuseppe, quasi irriconoscibile, imbacuccato com’è in un pesante cappotto, con in testa un berretto chiaro ed ai piedi un paio di stivaloni:

– Vai a chiamare mia moglie, le devo parlare e con la scusa ci facciamo una passeggiata

Giuseppina è entusiasta, sicuramente suo marito ha novità sulla loro casa, così in un attimo si alza, si veste, prende sottobraccio Giuseppe e insieme si allontanano nel buio, incuranti della pioggia gelida che li sferza.

– Giuseppina non è tornata, vado a cercarla dai Talarico – dice, preoccupata, la madre all’altra figlia il mattino successivo.

Quattro o cinque colpi alla porta dei Talarico e poi sulla soglia si presenta Giuseppe.

– Dov’è mia figlia?

– A casa tua! Dopo aver fatto una passeggiata l’ho riaccompagnata a casa e me ne sono tornato qui – le risponde ostentando calma assoluta.

– A casa mia? Ora devo andare al Municipio, appena torno a casa vedremo… vedremo…

Ma non appena arriva al Municipio sente due persone parlare tra loro del rinvenimento, nel fiume Neto, del cadavere di una donna e non impiega molto a capire che cosa è successo a Giuseppina. Corre a casa, prende suo figlio e si fa accompagnare al fiume. Le persone che sono sul posto la riconoscono e le vanno incontro. Si, la donna morta annegata è proprio Giuseppina, ma non gliela fanno vedere perché ci sono già i Carabinieri, il Pretore ed il medico legale.

Il cadavere si trova a circa 600 metri dal ponte di San Giovanni in Fiore, con i capelli impigliati ad una stanghetta di ferro sporgente dall’argine. Presenta una ferita lacero-contusa a forma di V sulla regione frontale, con scollamento dei lembi per circa 3 centimetri, che lasciano allo scoperto l’osso frontale ed alla base della V si nota un forame che si approfonda attraverso il setto nasale; gli occhi sono tumefatti. C’è bisogno di un esame più approfondito perché non è chiara la natura della ferita. Dopo avere constatato che non può essere morta per annegamento perché non c’è acqua nei polmoni ed esaminata meglio la ferita, il dottor Saverio Lopez giudica che la morte è avvenuta per commozione cerebrale conseguente ad urto di proiettile sparato a bruciapelo che, rotte le ossa nasali, è sboccato nell’arcata dentaria, uscendo dalla bocca e ritiene che la vittima sia stata buttata nel fiume quando era già cadavere.

Ma qualcosa non quadra: come mai, se il colpo è stato esploso a bruciapelo, non ci sono tracce di polvere da sparo sul viso di Giuseppina? E com’è strana la circostanza che un colpo sparato in faccia, invece di uscire dalla nuca torni indietro ed esca dalla bocca. Meglio far fare l’autopsia ad altri due periti, che giungono a conclusioni opposte: Giuseppina non è stata uccisa con un colpo di arma da fuoco in faccia. Giuseppina fu spinta giù dal ponte e picchiò violentemente il viso contro la stanghetta di ferro (che fu trovata impigliata nei capelli) che le produsse le lesioni già descritte, uccidendola istantaneamente. Così si spiegano l’assenza dei residui di polvere da sparo sul viso, l’assenza di acqua nel polmoni e l’assurda traiettoria della presunta revolverata.

Ovviamente, essendo davanti ad un cadavere con un foro in faccia e senza acqua nei polmoni, non reggono né l’ipotesi di una caduta accidentale, né di un suicidio. Si procede per omicidio ed il principale indiziato non può che essere Giuseppe Talarico, l’ultima persona ad aver visto viva Giuseppina.

Subito si presentano due testimoni che giurano di aver visto Giuseppe, verso le 21,00 del 12 gennaio, nei locali del Dopolavoro, con addosso una giacca di pelle nera ed in testa un cappello. Un’ora dopo, verso le 22,00, gli stessi due testimoni, mentre passeggiavano lungo Corso Umberto, vennero sorpassati da una coppia di persone di sesso diverso, della quale l’uomo indossava cappotto scuro, stivaloni e berretto chiaro, che si dirigeva a passi affrettati verso il ponte sul Neto.

Proiettammo sulla coppia la luce di una lampadina tascabile e riconoscemmo nella donna Giuseppina Bombardieri, ma non identificammo l’uomo perché teneva sprofondato il viso nel bavero del cappotto. Poi, circa mezzora dopo, vedemmo l’uomo ritornare solo e dirigersi verso via Roma, frettolosamente scomparendo, ma scorsi ancora pochi minuti lo abbiamo rivisto, se non che egli aveva cambiato di vestimenta ed invece del cappotto, stivaloni e berretto, era tornato ad indossare giacca di pelle e cappello, così come lo avevamo visto verso le nove nel Dopolavoro e abbiamo potuto accertare che era Giuseppe Talarico il quale, ostentando serenità e calma, ci chiese una sigaretta

È una testimonianza decisiva. I Carabinieri rintracciano il sospettato e lo portano in caserma, mentre procedono alla perquisizione della sua abitazione per rinvenire la rivoltella, che non trovano, ma trovano il fascio di lettere che gli ha spedito la fidanzata cosentina. Poi lo interrogano:

– Sono innocente! Ieri sera non sono stato in compagnia di mia moglie, dalla quale vivo diviso da quattro mesi perché mi ha abbandonato

– Per questo ti sei fidanzato! – gli fa il Maresciallo, sventolandogli le lettere sotto il naso.

– Si…

Poi accade una cosa strana: mentre Giuseppe Talarico viene interrogato, si presenta in caserma il podestà del paese con in mano una busta che gli è stata appena recapitata, contenente una lettera firmata da Giuseppina Bombardieri nella quale afferma che ha deciso di suicidarsi, pregando di non dare carico ad alcuno, essendosi decisa al triste passo per colpa di sua madre. Come? Ma se proprio sua madre l’ha accolta in casa per toglierla dalla brutta situazione in cui si trovava! Strano. Infatti non ci vuole molto per capire che la lettera è un falso perché non può essere stata scritta da Giuseppina, analfabeta. Il sospetto è che la lettera sia stata scritta da Talarico per speculazione a fine di alibi e adesso che l’interrogatorio diventa più stringente, Giuseppe cede:

– Sono andato a prendere mia moglie e, nel condurla al ponte sul Neto, feci in modo di non essere riconosciuto dalle persone in cui mi imbattei. Giunti sul ponte feci sedere mia moglie al centro del parapetto di destra… dopo poche parole la spinsi per farla cadere nel fiume, ma ella ebbe agio di non precipitare e di fuggire… la raggiunsi e, presala in braccio, la riportai sul ponte ove ella tentò l’ultima resistenza aggrappandosi al parapetto e, mentre mi pregava di non farle fare quella morte, vinsi la sua resistenza e la buttai nel fiume, dopo di che rincasai, mi cambiai d’abiti e tornai ad uscire al fine di farmi notare dagli eventuali passanti

– Sicuro che è andata così? A noi risulta che l’hai uccisa sparandole una revolverata in faccia… – al di la delle perizie mediche, i Carabinieri vogliono essere assolutamente certi che non siano state usate armi perché il reato potrebbe essere aggravato da questa circostanza

– Vi giuro che non le ho sparato, non ho armi! Dovete credermi!

– E la lettera?

– L’ho scritta io dopo il delitto e l’ho imbucata a mezzanotte

Il sopralluogo che fanno i Carabinieri sul ponte porta a rilevare un particolare che smentirebbe la versione di Giuseppe Talarico, confermando, al contrario, l’ipotesi che la vittima sia stata assassinata con un colpo di arma da fuoco: l’esistenza, sul parapetto di destra, di due o tre impronte di sangue a strisce, prodotte da dita.

È necessario un nuovo interrogatorio, ma Giuseppe insiste nel confermare che non ha sparato e che ha buttato sua moglie giù dal ponte nel fiume in piena, però aggiunge dei particolari interessanti:

Mi recai con mia moglie verso la contrada Olivaio. Giunti sul ponte ci sedemmo sul parapetto di destra. Le chiesi perché mi avesse tradito ed alla fine mi rispose che eran cose che non mi riguardavano; continuando su tale tono perdetti la pazienza e con uno spintone la feci precipitare nel fiumenon ho usato alcuna arma e non ho premeditato il delitto.

– Quindi eri convinto che ti avesse tradito, è così?

– Si e ho sempre ritenuto che la figlia nata durante il matrimonio non fosse stata da me generata

– Addirittura!

– Si, devo dirvi che quando possedetti mia moglie, ella non era vergine ed io la sposai per lo scrupolo di essermi congiunto carnalmente con lei, se non che non mi fu fedele dopo il matrimonio e per tale motivo mi trovavo separato da lei

Dalle testimonianze che man mano vengono raccolte, nasce il sospetto che Serafina Bitonti, la madre di Giuseppe, sia implicata nel delitto, tanto da avere istigato suo figlio a commetterlo e finisce anche lei dietro le sbarre, protestandosi innocente, innocente anche del reato di maltrattamenti, che le viene contestato insieme al concorso in omicidio premeditato:

Sono estranea al delitto e credo superfluo aggiungere che come madre e come donna non potevo volere, e tanto meno provocare, tanta tragedia!

Ma la convinzione degli inquirenti è che Giuseppe Talarico non avrebbe commesso il delitto senza l’istigazione della madre, la quale prese diletto a maltrattare la nuora e spinse il figlio all’odio verso la moglie. E questo li porta a chiedere ed ottenere il rinvio dei due con accuse pesantissime: maltrattamenti, uxoricidio aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi, dalle sevizie e per avere profittato di circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.

Il dibattimento si svolge nelle udienze del 10-11 e 12 luglio 1940 e la Corte decide subito di cancellare le aggravanti delle sevizie e dei futili motivi. La prima perché il prevenuto compì la strage della moglie rapidamente, in modo che la vittima non ebbe a patire sofferenze fisiche più di quelle necessarie per darle la morte. La seconda perché, contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice Istruttore, che ha erroneamente intravisto nel fatto che il Talarico ebbe a fidanzarsi con una giovane cosentina, è da escludere che l’imputato abbia ucciso la moglie per sposare la fidanzata, in quanto dalle lettere sequestrate è chiaro che egli si fidanzò per divertirsi.

Poi un colpo di scena: dall’escussione dei testi, che forniscono dichiarazioni nuove e contrastanti con tutti gli atti d’indagine, e dalla lettura degli atti, la Corte ritiene che non sussista nemmeno l’aggravante della premeditazione perché manca del tutto la prova che il prevenuto avesse da tempo maturato il proposito di uccidere la moglie e che tale proposito l’abbia poi protratto nel tempo, alimentandolo nella ricerca dei mezzi per eseguirlo e nell’attesa della favorevole occasione per attuarlo. Il comportamento dell’imputato, anteriore al delitto, è tale da mettere in dubbio l’asserita premeditazione perché, in punto di fatto, è certo che egli, pur essendo diviso dalla moglie, ne era tanto innamorato da andarla a trovare nel suo rifugio donde, rilevatala, la conduceva in luoghi ove era possibile, al di fuori dello sguardo di tutti, passare con lei un’ora d’amore mentre promettevale con sincerità di accenti che avrebbe preso in fitto una casa per costituirvi, da soli, il loro nido. E per arrivare a questa conclusione, la Corte si avvale soprattutto di una testimone al di sopra di ogni sospetto: la madre di Giuseppina! Ella ha deposto che il Talarico, dopo la separazione, quando per la prima volta venne nella di lei casa a rilevare la moglie, questa, al ritorno della passeggiata, le disse contenta che il marito si sarebbe fittata la casa a Caccuri per vivere con lei soltanto. La stessa teste, pur nel suo dolore di madre orbata della figlia, ha anche aggiunto: “Giuseppe, in sostanza, è un buon uomo e voleva bene a mia figlia”.

Si, tanto bene da scaraventarla giù da un ponte dopo essersi cambiato di abito per non farsi riconoscere, come ha ammesso Talarico stesso, e ricambiato subito dopo rimettendo gli stessi abiti con i quali era stato visto al dopolavoro. Questa circostanza, probante per il rinvio a giudizio, per la Corte è un semplice indizio, certamente equivoco.

Ma se non sussistono le aggravanti dei futili motivi, delle sevizie e della premeditazione, per la Corte sussiste quella di avere agito in circostanze di tempo e di luogo tali da minorare la pubblica o privata difesa: è fuor di dubbio che il fatto avvenne, in una notte tempestosa, in luogo solitario al di fuori del centro abitato il che costituisce, come costituì, una situazione assolutamente favorevole alla esecuzione del delitto perché di ostacolo, sia il luogo che il tempo, alla difesa pubblica o privata.

Dopo tutte queste considerazioni, la Corte ritiene che si tratti di un fatto talmente grave che non può indurre a mitezza di pena, basti considerare che il prevenuto uccise la sua mite, buona ed onesta moglie nell’atto stesso che ella, fidente in una definitiva pacificazione, aveva creduto di secondarlo nella richiesta di una passeggiata, nonostante l’ora tarda ed il tempo piovoso. Ella, in un impeto di immeritato affetto verso il marito, corse al suo richiamo abbandonando il letto ove riposava ed andò ad offrirglisi intera, senza sospetti e senza riserve. Egli l’uccise solo perché, dubitando di essere stato tradito e volendo una spiegazione ed una confessione immediata, ebbe a male che ella, nel suo ferito orgoglio di donna onesta, sentì di rispondergli con alterigia. E non può non pesare sull’entità della pena la circostanza che non valse a richiamare l’assassino alla ragione nemmeno l’accorata preghiera della vittima innocente, la quale lo supplicò di non farle fare quella brutta morte. La pena adeguata, per la Corte, consiste in anni 30 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e pene accessorie. Per il reato di maltrattamenti la Corte ritiene che non ci siano prove sufficienti e lo assolve con formula dubitativa.

Per Serafina Bitonti la Corte spende poche parole: non si ha alcuna prova riguardo alla imputazione di concorso per istigazione all’uxoricidio. Assolta.

Ma rimane il reato di maltrattamenti e qui la musica è diversa: la prova è così abbondante e conclamata, da giustificarne appieno l’affermazione di responsabilità; la teoria dei testimoni escussi, circa 40, ha affermato che la Bitonti, passando ai danni della nuora dalle volgari ingiurie agli anatemi, dalle privazioni di cibarie e d’indumenti, alle minacce di non riammetterla in casa, dai trucchi a fine di discredito alle insinuazioni, con opera costante e pervicace, giorno per giorno creò una vita di stenti e di dolore alla povera nuora, mortificandola nella carne e nell’onore.

La pena equa da infliggerle, per la Corte è di mesi 15 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e pene accessorie.

Il 26 marzo 1942, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara inammissibile il ricorso di Giuseppe Talarico e la sentenza è esecutiva.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.